Germi, Pietro
Regista, sceneggiatore e attore cinematografico, nato a Genova il 14 settembre 1914 e morto a Roma il 5 dicembre 1974. La figura e l'opera di G. risultano profondamente radicate nell'attualità sociale e in costante relazione dialettica con la realtà italiana, anche per la capacità del regista di esercitare su di essa, attraverso i film, il suo leggendario sdegno e una caustica critica, spesso corrosivamente ironica. G. volle realizzare un cinema popolare, nazionale e non conformista riuscendo a cogliere il passaggio cruciale dalla dimensione di ricostruzione collettiva che caratterizzò l'Italia del dopoguerra a quella più intima e profonda, che vide l'individuo al centro di una comunità, con la sua dignità morale, la sua inadeguatezza esistenziale, la sua solitudine, il suo impegno nell'amaro e difficile mestiere di vivere. Quest'analisi serrata si affida a moduli narrativi e stilistici solidamente ancorati a una forma di racconto strutturata, a sceneggiature dall'impianto lucido e ben definito, al contempo memori della lezione formale del cinema classico statunitense, dei codici del film di genere, e impregnati di un acuto senso di osservazione della realtà sociale, orientato ora in senso drammatico ora in senso satirico. Nel corso di tutta la carriera gli vennero conferiti numerosi Nastri d'argento; inoltre nel 1963 ottenne il premio Oscar per il miglior soggetto originale (nonché la nomination come miglior regista) con il film Divorzio all'italiana (1961) e tre anni dopo la Palma d'oro ex aequo a Cannes con Signore & signori (1966). Nel 1931 si era iscritto all'Istituto nautico di Genova, ma non completò gli studi; negli anni dell'adolescenza aveva dato prova comunque di notevoli interessi culturali, che continuò poi a coltivare da autodidatta, ma anche di un carattere schivo, chiuso, insieme timido e aggressivo, che lo tormentò per tutta la vita. Tra il 1933 e il 1935 fece parte di una piccola filodrammatica e fu assiduo frequentatore di sale cinematografiche. Prima di trasferirsi a Roma, lavorò come spedizioniere, quindi trascorse circa un anno a Milano in quasi totale isolamento e cominciò a scrivere. Un suo racconto, Un rimorso, venne pubblicato sul quotidiano "Il lavoro" il 27 gennaio del 1935. Deciso a lavorare nel mondo del cinema, inviò un soggetto cinematografico alla preselezione dei Gruppi universitari fascisti (GUF) di Genova per l'ammissione al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Inizialmente respinta, la domanda fu poi accolta, e G., iscritto ufficialmente nel 1938 al corso per attori, frequentò anche quello di regia.
Nel 1941 fece una breve comparsata in La corona di ferro di Alessandro Blasetti. Scoppiata la guerra, si ammalò di una grave forma di pleurite e, contemporaneamente, venne richiamato alle armi, ma riuscì a nascondersi, cambiando continuamente domicilio. Nel 1942 riprese a lavorare e fu assistente alla regia per Marco Elter e Blasetti. Intanto, nel periodo della malattia, aveva scritto il suo primo vero soggetto, Il testimone, che suscitò l'interesse della Orbis Film, di orientamento cattolico e con il quale esordì come regista. Uscito nel 1946 il film, in cui s'intrecciano delitto e sensi di colpa, giallo giudiziario e melodramma, ottenne il Nastro d'argento per il miglior soggetto. In esso già risultano evidenti le capacità di G. di saper raccontare storie affidandosi alle strutture narrative dei generi consolidati anziché all'immediatezza dell'approccio neorealista. In Gioventù perduta (1948) risultò più esplicito lo schema del poliziesco hollywoodiano in cui s'innesta però l'osservazione concreta e diretta della realtà italiana nel trattare il tema della crisi esistenziale di una gioventù appena uscita dal trauma della guerra. Notevole risulta la perizia tecnica e stilistica nel contrasto dei chiaroscuri che conferiscono spessore drammatico alle immagini, nell'equilibrio interno all'inquadratura e nella compattezza delle sequenze. Ma il vero salto di qualità si ebbe con il film successivo, In nome della legge (1949), dal romanzo Piccola pretura di G.G. Lo Schiavo, in cui iniziò la collaborazione con Federico Fellini e Tullio Pinelli come sceneggiatori e con il direttore della fotografia Leonida Barboni, mentre si confermò quella con il musicista Carlo Rustichelli, che seppe accompagnare, e talvolta suggerire, il ritmo interno dei successivi film del regista. Nella dura difesa della legalità da parte di un integerrimo pretore inviato in Sicilia, nella denuncia della collusione fra poteri forti e mafia, dei soprusi e della miseria, che sono al centro del film, G. individua una dimensione epica e simbolica, articolando il linguaggio di un western fordiano nel paesaggio siciliano, arido e grandioso. Il successivo Il cammino della speranza (1950), la cui chiave narrativa è ancora la dimensione epica e melodrammatica, è il racconto corale dell'odissea di un gruppo di diseredati, zolfatari siciliani rimasti senza lavoro, che, incompresi disprezzati e raggirati, con le loro famiglie cercano di raggiungere il confine per emigrare in Francia.La città si difende (1951) costituì un ritorno al giallo di ambiente urbano. Storia di una rapina tentata da un gruppo di falliti perseguitati poi dal destino, vi si intravedono un nodo irrisolto, un certo disagio che si concretano in una sorta di difficoltà ad adeguare l'istanza etica ai codici e agli schemi narrativi dei generi, e che avrebbero poi provocato in G. crisi di linguaggio e di creatività. Dopo due film non particolarmente significativi, La presidentessa (1952), pochade giocata su ritmi indiavolati e sulla morbida bellezza di Silvana Pampanini, e Gelosia (1953), dal romanzo Il marchese di Roccaverdina di L. Capuana, di cui appaiono esasperati i toni melodrammatici, e dopo un episodio del film collettivo Amori di mezzo secolo (1954), G. rimase in silenzio per quasi due anni. Quindi, con l'aiuto dello sceneggiatore Alfredo Giannetti, che divenne uno dei suoi più stretti collaboratori, G. individuò nelle strutture del mélo la tipologia narrativa più consona in quel periodo alle sue esigenze espressive. Nacquero così storie al centro delle quali è posto il valore dell'essere umano a contrasto e confronto speculare con le miserie del vivere, e che G. volle interpretare personalmente sostenendole con una recitazione in cui l'ironia dolce-amara del sorriso viene negata dalla malinconia dello sguardo. Come nelle vicende di Il ferroviere (1956) dove G. (doppiato per l'occasione da Gualtiero De Angelis, voce italiana di James Stewart e Cary Grant) delinea il destino amaro del protagonista che vede sconvolti nella famiglia e nel lavoro tutti i valori in cui crede e su cui si basa la sua semplice vita. L'intimo idillio di L'uomo di paglia (1958, scritto con Giannetti, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, e interpretato da G. accanto all'esordiente Franca Bettoja) è la storia di un tradimento coniugale rientrato, in cui G. descrive con toccante partecipazione un innamoramento foriero di sofferenza e di morte in quanto scardina il 'normale' e difficilissimo equilibrio della famiglia. Se il successo di pubblico conseguente a questa svolta fu indubbio, alcuni critici tacciarono G. di populismo, sentimentalismo, moralismo borghese. Elementi questi che, se derivavano da un eccesso di coinvolgimento emotivo, vennero metabolizzati dalla sua sincerità priva di retorica e quindi azzerati nei due film successivi, in assoluto fra i migliori di G. e della cinematografia italiana dell'epoca, Un maledetto imbroglio (1959) e Divorzio all'italiana. Il primo nacque dalla scommessa di ricavare una sceneggiatura plausibile da un libro difficile e particolarissimo, per stile e per linguaggio, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di C.E. Gadda, uno dei pochi esempi di autentico sperimentalismo letterario di quegli anni. G. e i suoi sceneggiatori (Ennio De Concini e Giannetti) costruirono le atmosfere di un noir, con agnizione finale del colpevole, partendo da una trama complicata e priva di conclusione ‒ incentrata su un furto e su un delitto che si immaginano avvenuti negli anni del fascismo, nel popolare quartiere romano di via Merulana, su cui indaga una strana figura di poliziotto, il commissario Ingravallo ‒, spostando la vicenda nella Roma degli anni Cinquanta e creando un clima di pathos e di suspense in cui però affiorano con autenticità e descritti trasversalmente i caratteri salienti di un intero spaccato sociale. Questa contaminazione di registri si trasforma in grottesco puro nel successivo Divorzio all'italiana, tanto noto da essere oramai proverbiale. Originariamente pensato come film drammatico, è la storia del sicilianissimo barone Fefè Cefalù (Marcello Mastroianni in una delle vette interpretative della sua carriera) il quale, innamorato della giovane cugina (Stefania Sandrelli al suo esordio), decide di compiere il delitto perfetto: infatti induce la moglie al tradimento e poi la uccide per motivi d'onore, assicurandosi così una pressoché certa impunità, in base all'art. 587 dell'allora vigente codice penale italiano. La poetica di G., libera ormai da ogni ambiguità moralistica, mescola l'umorismo all'invettiva satirica. La genialità del regista consiste nel dipingere, nel modo più comico e con un ritmo molto sostenuto e ricco di annotazioni ambientali, psicologiche e di costume pungenti e profonde, un quadro così globalmente amaro in cui niente e nessuno sono oramai degni di pietà. Seguì il meno riuscito Sedotta e abbandonata (1964), scritto con Age, Furio Scarpelli e Luciano Vincenzoni, che fruttò la Palma d'oro come migliore attore nel 1964 a Saro Urzì, indimenticabile interprete germiano. In questo film l'accentuazione del ritmo, nevroticamente esasperata in un'altra grottesca vicenda di 'onore siciliano', mostra una certa ripetitività rispetto alla formula di successo dell'opera precedente. Un piccolo capolavoro, per eleganza stilistica e narrativa ma anche per una sapida e 'boccaccesca' corrosività, risultò invece Signore & signori (1966), nato da un'idea dello sceneggiatore trevigiano Vincenzoni. Unico caso in cui la ferrea unità della sceneggiatura cede a una suddivisione interna per episodi ‒ due più comici, un terzo, mediano, più disteso e cromatico ‒ la cui coe-renza è però garantita dal ritratto a tutto tondo di una piccola città del Veneto, ricca e civilissima, dove, sotto il velo della moderna società dei consumi, G. individua le stesse primitive pulsioni e un altrettanto rigido e tribalmente codificato ambiente sociale di quelli della Sicilia dei due film precedenti. Nettamente inferiore e stanco è il successivo L'immorale (1967), storia di un uomo che non sa scegliere fra le tre donne della sua vita e le tre famiglie che si è creato con ciascuna di loro.In seguito la capacità di cogliere le dinamiche interne della società e il confronto con una realtà mutata ‒ quel mondo del postsessantotto che forse il regista non capiva più ‒ si allentarono. Della fiaba ecologica di Serafino (1968) si apprezzano qualche notazione improntata a una libertaria ironia, un uso significativo del colore, l'utilizzo della maschera scanzonata di Adriano Celentano, ma nel successivo Le castagne sono buone (1970), con un improbabile Gianni Morandi inserito in una vicenda amorosa che elogia i buoni sentimenti, vengono meno la tensione stilistica tipica delle sue opere precedenti e il tono graffiante.
L'ultimo film (perché ultimo soggetto fu quello di Amici miei, sul tema dell'amicizia come barriera contro la solitudine e la vecchiaia, che G., già molto malato, non poté girare e fu poi realizzato nel 1975 da Mario Monicelli) fu Alfredo, Alfredo (1972), in cui il regista ritrovò la vivacità del ritmo, la notazione ironica, la capacità di utilizzare al meglio gli attori (in particolare il protagonista Dustin Hoffman nel ruolo di un timido precipitato in un 'inferno coniugale'), ma soprattutto la sua caustica, disincantata amarezza.
La filmografia di G., insieme con un'esaustiva bibliografia relativa a monografie, articoli, saggi, voci di dizionario e recensioni, è raccolta, con varie testimonianze di quanti con lui lavorarono, in M. Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Milano 1997.
Si veda anche A. Cimmino, Germi, Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 1999, ad vocem.