GIANNONE, Pietro
Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia), piccolo centro del Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e Lucrezia Micaglia (1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680), Vittoria (1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691).
Dopo aver compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del paese, Gaetano Serra, dal 1691 il G. studiò per due anni filosofia con un frate francescano. Fu inizialmente destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e ai primi di marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie all'aiuto del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a studiare diritto presso il procuratore Giovan Battista Comparelli. Nel 1696 divenne allievo di Domenico Aulisio, sotto la cui guida studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli studi storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale Gerolamo Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De Angelis lo introdusse alla filosofia di P. Gassendi e ai classici latini, greci e italiani.
Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo stesso anno il G. iniziò a frequentare (anche se marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in cui conobbe alcune delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il giurista e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso abbandonò la filosofia gassendiana per abbracciare quella di Cartesio. Morto improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G. iniziò l'attività d'avvocato, conducendo il suo apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni Spinelli, che già lo aveva presentato all'Aulisio) presso Gaetano Argento. Per la formazione culturale del G. l'incontro con Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa di questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi, che, proseguendo l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo di giovani giuristi destinati a divenire il nerbo del governo napoletano durante il viceregno austriaco. Fu in quell'Accademia che maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il G. diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del Regno di Napoli.
Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì un agiato tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il fratello minore Carlo e l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel frattempo iniziato una relazione con la popolana Elisabetta Angela Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e Carmina Fortunata (1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715, quando divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno alla questione delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del vescovo, il G. pubblicò la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo di San Pietro in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo intorno all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per gli ampi riferimenti che il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una forte e vivace discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti lavori.
Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con l'accusa di avere avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso il G. ottenne dal suo assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei quali avrebbe poi curato l'edizione. Nel 1718 a Napoli il G. aveva pubblicato intanto, sotto lo pseudonimo di Giano Perontino (anagramma del nome del G.), la Lettera scritta da Giano Perontino ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa la neve lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto più alta e intera non duri che pochi giorni. Il breve scritto era frutto degli interessi scientifici che il G. aveva coltivato sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi giuridici e storici.
Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo tempo nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria civile. Fu proprio per potervi attendere con più tranquillità che, nel 1718, comprò e restaurò una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva fosse appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della Porta. Nei cinque anni successivi la stesura dell'Istoria lo assorbì sempre di più, tanto che i suoi continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai pressoché completata; il G. fece allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella villa che il suo amico Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte, e all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché, nonostante l'istruzione ricevuta, era più avvezzo al linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano) che non all'italiano letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela di rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel marzo 1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la luce, in un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta reale).
Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non intendeva tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia del Regno, quanto offrirne una nuova interpretazione, esaminandone l'evoluzione dalla disgregazione dell'Impero romano sino al Viceregno austriaco.
Il G. non raccolse (se non per i primi libri) la documentazione direttamente dalle fonti, ma organizzò quella reperibile in altre opere, in particolare nell'Istoria del Regno di Napoli di A. Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43), nella Historia della Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e nel Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del Regno di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il procedimento gli causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta la storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G. Bonacci e C. Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza dell'Istoria civile, che non stava nella ricostruzione erudita degli eventi del Regno, ma nell'affermazione del principio dell'autonomia dello Stato.
In effetti, se dagli storici napoletani il G. traeva le notizie necessarie, i modelli storiografici erano però altri, italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto, il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva attribuito alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai Longobardi la realizzazione in Italia di un forte regno nazionale, così il G. accusava Roma di avere troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo l'esperienza normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti degli Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla dinastia francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio, accresciuto quello baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno come feudo della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, il Meridione avrebbe consumato il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le dinastie regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli stranieri che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U. Grozio, da cui il G. riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in particolare dei Longobardi, visti come signori nazionali, nemici di Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era avverso agli Angioini quanto mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur fra incertezze e contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno l'autonomia dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso tale tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso Madrid, sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del Regno. L'Istoria civile si concludeva con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel quale il ceto civile riponeva le proprie speranze.
L'Istoria era dunque un'opera collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente sostenevano i nemici del G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le esigenze del ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile il G. si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato ampio spazio all'epoca longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse direttamente alle fonti). Per dimostrare soprusi e sopraffazioni della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva l'evoluzione politica del Papato, respingendone implicitamente l'origine divina; questo atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave esclusivamente politica, rendeva l'Istoria un'opera del tutto nuova nel panorama storiografico europeo ma motivava anche l'ostilità di Roma verso il Giannone.
Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti) concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato generale della città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate a Vienna, a Napoli divampavano le polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva ottenuto la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera non trattasse argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni religiosi iniziarono a tenere prediche contro il Giannone. In seguito a ciò, il potere civile mutò atteggiamento: il viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la pubblicazione dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del Consiglio del Collaterale, biasimò apertamente gli Eletti, i quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano congelato i provvedimenti a favore del G., nominando una commissione per valutare l'opera. Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria.
La situazione volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tardava a sciogliersi, il clero napoletano cominciò a sostenere che il santo fosse adirato con i Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G. si diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi dei quali sono oggi conservati in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli), mentre la curia arcivescovile si preparava a scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la stessa vita del G., il quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a Vienna per chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune esitazioni, il 1° maggio il G. lasciò Napoli per quella che sperava una breve assenza e che, invece, sarebbe stata una partenza senza ritorno. Raggiunta in incognito Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni in una villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel frattempo a Napoli il sangue di s. Gennaro si scioglieva. Trovata una nave su cui imbarcarsi, il 25 maggio 1723 era a Trieste, il 27 a Lubiana e ai primi di giugno giungeva a Vienna.
In questa città il G. prese subito contatto con alcuni esponenti della numerosa comunità italiana, fra cui Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia e il medico e bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò una copia dell'Istoria all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della scomunica lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice dell'Istoria civile (1° luglio), il G. ricominciò a scrivere. Dapprima ritornò sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto nell'Impero dopo la conversione alla fede di Cristo, già iniziato a Napoli, poi scrisse due nuovi trattati: De' rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in Roma e della potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De' rimedi contro le scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a' modi di farle cassare ed abolire (che confluì nell'Apologia dell'Istoria civile). Negli ultimi mesi dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il 22 ottobre, in seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu revocata e in dicembre il G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse una pensione annuale "sopra i diritti della Secreteria di Sicilia". Egli non riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise quindi di fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo della baronessa Therese Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella minore della quale, Ernestine, aveva stretto una forte amicizia.
Nel frattempo, in Italia apparivano diverse confutazioni dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a Roma l'Apologia di quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni ecclesiastici della sua diocesi dell'arcivescovo Filippo Anastasio. In risposta Ottavio Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel 1727, una Difesa della real giurisdizione intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata appellata di S. Maria della Cattolica della città di Reggio, in cui, pur volendo difendere il G., finiva invece con il criticarlo. Il G. fu allora costretto a reagire con un proprio testo, diffuso a Napoli in forma manoscritta. Nel 1728 apparvero a Roma le Riflessioni morali e teologiche sopra l'Istoria civile del Regno di Napoli del gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto all'opera dell'Anastasio si trattava di un lavoro ben più articolato e problematico, tanto che il G. in un primo tempo aveva deciso di non replicare, ma durante la villeggiatura a Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse la Professione di fede. L'opera conobbe una vasta fortuna, testimoniata da un'imponente circolazione manoscritta, e segnò la definitiva rottura con la Chiesa cattolica. Un'altra Risposta del G. fece seguito alla pubblicazione delle Annotazioni critiche sopra il nono libro dell'Istoria civile di Napoli (Napoli 1732) del padre Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario Matteo Egizio, esponente della parte più moderata del giurisdizionalismo napoletano, non disposta a seguire la lezione del Giannone.
Fallite le speranze di ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese l'attività forense; oltre a diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse il Ragionamento per il signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti di quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo la morte di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727, il trattato De' veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano nel Tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia. Al 1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve relazione de' Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si dimostra che l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio exequatur, come tutti gli altri arcivescovadi del Regno, opera scritta su incarico della Città di Napoli.
Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples, London 1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria. Sin dal 1728 il G. aveva cominciato a corrispondere regolarmente con gli eruditi tedeschi Siegmund Liebe e Johann Burckard Mencke, e con il figlio di questo, Friedrich Otto, iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni creduta coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì a Londra nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis libri XXIV di J.-A. de Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era ormai un intellettuale inserito nel contesto europeo, per i rapporti di collaborazione stretti con esponenti della cultura inglese e tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel periodo, delle opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso, un ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe Eugenio di Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva letto i più importanti testi del pensiero libertino e radicale europeo. Da queste sue fertili frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua opera principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due anni più tardi, nel 1733.
Il Triregno si articola in tre parti: nella prima, il Regno terreno, il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in essa non si conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si prometteva esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun riferimento a mondi ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso all'uomo nella Genesi era, dunque, esclusivamente un regno terreno. Nel successivo Regno celeste l'attenzione del G. si sposta al cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari, mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre l'idea di un mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo essere stati giudicati sulla base delle loro azioni mondane. Il Regno papale, l'ultima parte, riprende il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato: dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento evangelico, i pontefici, approfittando della decadenza del potere imperiale dopo Costantino, costituirono il loro Regno sul principio della superiorità rispetto agli Stati mondani.
Nella composizione del Triregno concorrevano diverse tradizioni: la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era entrato in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana, per influenza dell'Aulisio, dal quale il G. comprese l'importanza della storia ebraica. Molti temi delle Scuole sacre - l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi mesi dopo l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante tedesca (particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle Observationes sacrae di Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo postspinoziano. In questo senso importante era stato il rapporto con gli scritti di John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei credevano nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un mondo ultraterreno, e con la storiografia che con questi si era misurata criticamente (come le Vindiciae antiquae Christianorum disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).
Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria civile. La matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto nell'incompiuto Regno papale, dove il G. riprendeva il problema delle origini del potere ecclesiastico, affrontandolo, però, con gli strumenti della storiografia protestante: non più "istoria civile" del Regno di Napoli, ma di tutto l'Occidente cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse contro di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare anche in possesso dell'autografo del Triregno.
Si impedì così la pubblicazione dell'opera, ma non ne fu, tuttavia, impedita completamente la diffusione, che avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli archivi romani in cui l'originale era custodito). Nel secondo Settecento diversi codici del Triregno circolarono in Italia e in Europa, e negli anni Sessanta sembrò addirittura imminente una sua pubblicazione, poi non avvenuta, ad Amsterdam.
La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone determinò la dispersione della comunità napoletana di Vienna. Ritenendo, con ragione, che fosse in pericolo la sua pensione, basata su rendite siciliane, anche il G. decise, allora, di partire. Lasciò Vienna il 28 ag. 1734, e giunse a Venezia il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di passaggio sulla via per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le trattative per il riconoscimento papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale veneziano si rivelò, comunque, ricco di stimoli per il G., che strinse amicizia con il senatore Angelo Pisani, con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, con l'abate Antonio Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il libraio Francesco Pitteri. Con quest'ultimo, in particolare, si accordò per una nuova edizione dell'Istoria civile, per la quale approntò, come quinto tomo, quell'Apologia dell'Istoria civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i tre trattati composti a Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non mancava certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo, Domenico Pasqualigo gli aveva offerto la cattedra di diritto civile all'Università di Padova, ma la Curia romana era riuscita a fare sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia, Iacopo Oddi, faceva pressioni sul governo della Serenissima perché il G. fosse cacciato e consegnato alle autorità pontificie. Per screditare il G. venne diffusa la voce che egli avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune pagine dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi: la Risposta a tale accusa confluì anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo 1735 il G. si stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi fu raggiunto a Venezia dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a Napoli dodici anni prima. Riprese, allora, la stesura del Triregno, discutendone con i suoi amici veneziani. Fu nella villa del Pisani a Rovere di Crè (presso Rovigo) che, nel luglio 1735, il G. scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta, tuttavia, la tranquillità doveva rivelarsi effimera.
Dopo oltre un anno di complesse manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato sperato: la notte del 13 sett. 1735, poco dopo aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la casa dell'avvocato Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato a forza su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio pontificio. Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena e vi restò nascosto per circa un mese, sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche da L.A. Muratori. Iniziò, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e della corte di Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si recò a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove sperava nell'aiuto della famiglia del principe Trivulzio. Il 16 nov. 1735 fu ricevuto dal marchese Giorgio Olivazzi, gran cancelliere, il quale gli consigliò di scrivere a Carlo Vincenzo Ferrero marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia, per offrirsi come storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere era che l'Ormea s'era già accordato con il cardinale Alessandro Albani, offrendogli l'arresto del G. come contropartita per la concessione di un concordato favorevole allo Stato sabaudo al fine di chiudere lo scontro - aperto un ventennio prima da Vittorio Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino partì quindi l'ordine di arresto del G., che però nel frattempo aveva già lasciato Milano per la capitale sabauda. Non considerando più gli Stati italiani un rifugio sicuro dopo l'esperienza veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra, dove era in contatto con l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva annunciato la sua intenzione di pubblicare una traduzione francese dell'Istoria civile). Mentre dava l'ordine di arrestarlo a Milano, l'Ormea non poteva immaginare che il G. fosse proprio a Torino, dove si fermò il 27 e il 28 nov. 1735. Giunse a Ginevra il 5 dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al calvinismo, strinse amicizia con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini e Jacob Vernet.
A causa delle sue precarie condizioni economiche, decise di pubblicare la traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale s'era accordato già da tempo con il Bousquet. Questi, però, aveva sciolto proprio allora la sua società con lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era trasferito in Olanda. Fu solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare un nuovo finanziatore nel libraio Jacques Barillot, ma, quando, all'inizio del marzo 1736, tutto era pronto per la nuova edizione dell'Istoria, il G. fu attirato fraudolentemente in territorio sabaudo e arrestato.
Sin dal 10 dic. 1735 il marchese d'Ormea aveva dato disposizioni per l'arresto al governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del rapimento è stata raccontata dal G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine esemplari per chiarezza e drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso il sarto Charles Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Giuseppe Gastaldi, il cui fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagnò la simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo spesso a Vésenaz (il piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la dogana) insieme con Chénevé. In questo modo egli venne a conoscenza dei movimenti del G. a Ginevra, informandone Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti del Gastaldi per tutto l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo 1736 si trasferì con il figlio a casa di Gastaldi. Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo, Gastaldi si mise in marcia verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del doganiere il quale, tenendo in mano un suo ritratto (probabilmente una copia dell'incisione fatta a Vienna da Jacob Sedelmayer) andava di paese in paese urlando di aver catturato "un grand'uomo".
Giunto a Chambéry la sera del 26 marzo 1736, Gastaldi consegnò i prigionieri al conte Piccon, il quale, il 7 aprile, ne dispose il trasferimento nella fortezza di Miolans, tradizionalmente deputata ad accogliere i prigionieri di Stato (quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il marchese de Sade). Ricevuta notizia dell'arresto, l'Ormea ne informò il cardinale Albani, al quale riferì anche l'intenzione di Carlo Emanuele III di non inviare il G. a Roma, ma di impegnarsi a tenerlo in carcere "perpetuamente". Per quanto la corte di Roma avrebbe preferito giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente XII ringraziò il sovrano sabaudo per l'arresto del "sedizioso". Ormea e Albani si accordavano, intanto, perché il G. fosse processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad abiurare.
Durante la sua prigionia a Miolans (aprile 1736 - settembre 1737) il G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima versione dei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva offrire a Carlo Emanuele III per l'educazione del principe di Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello stesso periodo l'Ormea riuscì, grazie al conte Piccon e ad altri agenti sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti delle opere del G. (compreso quello del Triregno), che, dopo esser stati esaminati da Giovanni Antonio Palazzi, abate di Selve, bibliotecario e storico di corte, furono inviati a Roma. Il 15 sett. 1737 il G., separato dal figlio Giovanni (che fece ritorno a Napoli), fu trasferito a Torino (nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella, poi). Qui fu affidato alla cura spirituale del padre filippino Giovan Battista Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei suoi errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano.
Il testo dell'abiura non era quello che la Curia romana si attendeva, tanto che - contrariamente alla prima intenzione - si decise di non renderlo pubblico. A convincere il G. ad abiurare era stata la speranza di poter tornare presto in libertà, ma il 15 giugno 1738 fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe rimasto sei anni. Le istruzioni impartite al conte Giuseppe Amedeo De Magistris, governatore del forte, erano per la migliore sistemazione possibile nel castello (il G. fu rinchiuso nella prigione detta "la speranza": due stanze e un anticamera interamente rivestite in legno e chiuse da una porta di pietra). Gli era permessa qualche ora d'aria al giorno (purché non parlasse con nessuno, tranne il governatore e il confessore del forte) e poteva leggere e scrivere (purché le sue opere non uscissero da Ceva se non per Torino).
Nei sei anni di prigionia cebana il G. terminò i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio (conclusi nel maggio 1738) e scrisse altre tre opere: l'Apologia de' teologi scolastici (1739-41), l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno (1741-42) e L'ape ingegnosa (1743-44). In esse riaffioravano molti temi del Triregno, soprattutto nell'Apologia de' teologi scolastici - dove l'autorità dei Padri della Chiesa era sottoposta a una vera e propria demolizione -, e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno. Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione dell'Apologia, era una vera e propria prosecuzione del Triregno, nel cui Regno papale una vasta parte doveva essere dedicata a tale pontefice. Temi tipici degli autori libertini, in particolare del Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, tornavano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e complesso zibaldone, come recita il titolo, di "varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte", denso di spunti autobiografici.
Nonostante la prigionia, la fortuna europea del G. continuava: nel 1738 ad Amsterdam era apparsa la traduzione francese dei libri sulla "politia ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques contenant la police et la discipline de l'Église chrétienne depuis son établissement jusqu'au XIe siècle), nel 1742 l'intera Istoria civile era stata tradotta in francese da C.-G. Loys de Bochat e G. Bentivoglio e pubblicata a Ginevra (ma con la falsa indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la diffusione delle opere giannoniane preoccupava le autorità ecclesiastiche, a Ceva il G. entrava in contatto con esponenti della nobiltà locale, che lo incaricarono della stesura di alcune allegazioni forensi.
Nell'estate del 1744, a causa dell'avanzata delle truppe franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di successione austriaca, il G. fu trasferito a Torino, dove giunse il 3 settembre. In un primo tempo le condizioni della prigionia nella cittadella si rivelarono assai più dure: il governatore Ercole Tomaso Roero di Cortanze non aveva avuto, come invece il De Magistris, ordini particolari per il prigioniero, il cui trattamento non fu inizialmente dissimile a quello riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il Piemonte. La situazione fu aggravata dalla morte del marchese d'Ormea (maggio 1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui lo sottoponeva il maggiore della cittadella, il conte Giovan Battista Caramelli. Da allora le condizioni della sua detenzione migliorarono sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non era passato inosservato; in pochi mesi il G. entrò in relazione con personaggi della corte e della cultura, come i bibliotecari dell'Università Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, e, soprattutto, con il residente inglese, Arthur Villettes, il quale gli fece avere diversi libri della propria biblioteca, grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale tramite Roero di Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi capitoli all'Apologia de' teologi scolastici e iniziare una nuova versione, rimasta incompiuta, dei Discorsi. Il nuovo interesse destato dal G. suscitò la reazione delle autorità ecclesiastiche: il nunzio a Torino, mons. Ludovico Merlini, protestò presso il sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni del prigioniero sarebbero divenute più severe.
In realtà il G. continuò a scrivere e a ricevere libri da Villettes e da Roero di Cortanze sino alla morte, sopraggiunta il 17 marzo 1748.
Il desiderio del G., formulato in una lettera all'Ormea nel marzo 1741, che sulla sua tomba fosse posta un'iscrizione da lui appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu sepolto nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara, all'interno della cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al 1860.
Opere: Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971 (con un'accuratissima bibliografia), in cui sono comprese la Vitascritta da se medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del Triregno, del Ragguaglio del ratto, delle altre opere del carcere e alcune lettere; Istoria civile, a cura di A. Marongiu, Milano 1970; Triregno, a cura di A. Parente, Bari 1940; Dopo la "Giannoniana": problemi di edizione, nuovi reperimenti di fonti e l'introduzione perduta del "Triregno", a cura di G. Ricuperati, in L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione.Studi in onore di Furio Diaz, a cura di P. Alatri, Roma 1993, pp. 43-88; un manoscritto del Ragguaglio del ratto è stato pubblicato in Un testo inedito di P. G., a cura di A. Denis, in Archivio storico italiano, CLIII (1995), 4, pp. 709-761. Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in edizione critica è L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte, a cura di A. Merlotti, Roma 1993 (con bibliografia dal 1971, pp. CXVII-CXXI). Per le lettere: P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervino, Fasano 1983; Lettere autografe, a cura di P. Minervino, ibid. 1990 (in entrambi i casi l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di G. Di Rienzo, in Bollettino storico-bibliogr. subalpino, XCI [1993], 1, pp. 317-322).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica, Manoscritti di Giannone (inventario a cura di G. Ricuperati, Le carte torinesi di P. G., in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 4, IV [1962]): nel 1992 il fondo è stato arricchito da documenti autografi del G., in gran parte relativi ai periodi austriaco e veneziano; F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P. Giannone. Ricerche bibliografiche, Bari 1913; L. Marini, P. G. e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950; B. Vigezzi, P. G. riformatore e storico, Milano 1961; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di P. G., Napoli 1968; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di P. G., Milano-Napoli 1970; G. e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli 1980; A. Merlotti, Settecento e "Risorgimento ghibellino": Giuseppe Ferrari lettore di P. G., in Annali della Fondazione Einaudi, XXVIII (1993), pp. 301-358; Id., Negli archivi del Re. La lettura negata delle opere di G. nel Piemonte sabaudo (1748-1848), in Riv. stor. italiana, CVII (1995), 2, pp. 332-386; G. Ricuperati, P. G.: an itinerary in European free-thinking, in Transactions of the Ninth International Congress on the Enlightenment, Oxford 1996, pp. 242-245; H. Trevor-Roper, P. G. and Great Britain, in The Historical Journal, XXXIX (1996), 3, pp. 657-675; A. Hook, La "Storia civile del Regno di Napoli" di P. G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in Ricerche storiche, XXVIII (1998), pp. 391-402; L. Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di P. G., Firenze 1999.