GIORDANI, Pietro
Secondo dei nove figli di Giovanni di Pietro e di Maria di Pietro Ferro Isman, nacque nella frazione Ressiga di Alagna Valsesia, nel Vercellese (non a Gressoney, come indicato da alcuni) il 13 apr. 1774.
Sia la famiglia paterna, sia quella materna appartenevano allo strato agiato della società alagnese del Settecento, che doveva le proprie fortune più o meno direttamente all'attività estrattiva praticata da secoli nel centro posto alle pendici meridionali del monte Rosa. Compì gli studi a Varallo e Novara e quindi, rinunciando alla carriera ecclesiastica alla quale in un primo tempo era stato avviato, si iscrisse all'Università di Pavia, dove seppe procurarsi la stima e l'amicizia di docenti quali l'anatomista Antonio Scarpa, insieme con il quale usava esplorare l'alta Valsesia studiandone la flora. Le scarne notizie biografiche disponibili indicano che, conseguita la laurea in medicina nel 1799, svolse la professione medica a Varallo.
La sua spiccata curiosità scientifica, alimentata dalla passione per la ricerca e la scoperta, è testimoniata dall'ampiezza dei suoi interessi, che spaziarono dalla mineralogia - il prefetto del dipartimento dell'Agogna lo segnalò quale possibile candidato alla cattedra di mineralogia di una progettata Scuola speciale di metallurgia da fondarsi a Milano - alla botanica: fu il primo a dedicarsi alla raccolta e catalogazione in erbario della ricca flora del monte Rosa. Originale è anche l'atteggiamento con cui trasformò la pratica quotidiana della condotta medica in osservazione sperimentale, registrando con cura l'incidenza delle diverse cause di morte, con il fine di individuarne le relazioni con le condizioni ambientali e nutrizionali della popolazione montana.
Da un vivido bozzetto familiare dovuto al nipote, il teologo, alpinista e abate Giuseppe Farinetti, risalta bene il carattere istintivo e vitalistico della passione che spingeva il giovane studioso verso le cime dei monti. "Sei proprio come buon'anima tuo zio", diceva la madre del religioso, e sorella del G., al giovane figlio, "non puoi star fermo come gli altri. Non capisco questa smania di correre su per i monti e pei ghiacciai"; aggiungendo: "è inutile ragionare con voi altri quando siete invasi da questa disgraziata febbre dei monti, tuo zio ci prometteva qualche volta di non andare più e poi una bella mattina, addio promessa, eccolo via di nuovo".
Sebbene fossero passati solo pochi lustri da quando con la salita al monte Bianco (1786) si era aperta l'epoca della conquista delle grandi vette, all'inizio del XIX secolo il monte Rosa era già stato oggetto di esplorazioni alpinistiche. Nel 1778 una comitiva di Gressoney si era spinta fino al Colle del Lys (4248 m) alla ricerca della leggendaria "valle perduta" della tradizione walser; negli anni successivi sia il conte torinese C.L. Morozzo della Rocca, sia il naturalista ginevrino H.-B. de Saussure avevano tentato separatamente di individuare una strada per la vetta.
Singolare per l'epoca in cui ebbe luogo e per esser stata compiuta in perfetta solitudine, è l'impresa per cui il G. è ricordato, la salita a una delle principali vette della cresta meridionale del monte Rosa, la cima a 4046 m oggi nota con il suo nome, che dagli alpeggi sopra Alagna presenta fisionomia distinta e profilo ardito. L'episodio è noto grazie a una fonte inconsueta, una lettera stesa di pugno del G. sulla vetta stessa, e indirizzata a un amico, il notaio Michele Cusa di Varallo. Pubblicato dopo il 1820 su un foglio locale, il testo fu recuperato e reso noto da G. Farinetti solo nel 1867.
Il G., che data la lettera 23 luglio 1801, "dai ghiacciai del Monte Rosa", scrive su un "inclinato granito" affiorante dai ghiacci quanto basta per appoggiarvi un foglio, avendo come sedile "un pezzo quadrilungo di ceruleo ghiaccio", nel tempo concessogli dal "lento processo di alcune esperienze sull'acido carbonico" in corso. Dallo scritto emerge innanzitutto il G. naturalista, che non sa dissimulare il "rincrescimento" per il trovarsi in un tale "santuario della natura privo degli opportuni istrumenti per le misure delle altezze e per le molteplici esperienze di fisica": i delicati e ingombranti barometri che accompagnavano, raramente senza infrangersi, le prime salite ad alte vette. Il carattere improvvisato della salita non gli impedisce tuttavia di riportare alcune semplici osservazioni scientifiche, quali la temperatura dell'aria e la frequenza accelerata del battito cardiaco, o di annotare la presenza, poco sotto la "stazione" raggiunta, di particolari specie vegetali alpestri.
Il sentimento di fondo di quest'originale pagina alpina è il piacere quasi fisico della contemplazione della natura, che palpita dalla descrizione del superbo panorama di montagne che si apre agli occhi - dall'"elevate e bianche" vicine cime del Rosa, al monte Bianco che sorpassa "maestosamente" le catene più prossime, fino all'Appennino ligure da una parte e alle vette del Tirolo dall'altra - e del severo ambiente glaciale circostante, una sorta di "tomba della natura vivente". Filtra inoltre la motivazione "romantica" e alpinistica, ancora inscindibile da quella scientifica e sperimentale: "Non veggo ostacolo veramente insuperabile per ascendere questa a me più vicina [cima] del Rosa", osserva il G., se non l'ora tarda che lo costringe a ritornare sui suoi passi. Grande comunque è la soddisfazione "per quel che ho veduto, e per la consolazione di avere scoperta una strada per salire sul gran colosso del monte Rosa, per cui i fisici in avvenire potranno studiare e contemplare a loro bell'agio, ed interrogarvi la gelosa natura sui suoi segreti, specialmente in meteorologia".
Il fatto che il termine "cima" o "vetta" non venga mai riportato, insieme con alcune incongruenze nella descrizione delle cime visibili e nella presenza di alcune specie vegetali, ha fatto in seguito dubitare dell'effettivo raggiungimento della punta di quota 4046 metri. Il toponimo punta Giordani venne proposto dal Farinetti, che a onor del vero parla d'una prima salita "sopra o verso di essa", e in seguito è entrato in uso in tutte le carte topografiche e guide alpinistiche.
Il G. morì a Varallo nel 1808.
Tre suoi nipoti, due per parte del fratello Giuseppe, Giacomo e Giovanni, e lo stesso Farinetti, fecero parte della spedizione alagnese che nel 1842, guidata dal parroco don Giovanni Gnifetti, raggiunse la Signalkuppe, 4554 m, una delle cime principali del monte Rosa.
Fonti e Bibl.: G. Farinetti, Primo tentativo di salire le punte del monte Rosa dal lato meridionale nel 1801, in Bollettino del Club alpino italiano, 1867, n. 17, pp. 36-41; F. Tonetti, Museo storico ed artistico valsesiano, s. 4, 1891, n. 9, pp. 137-140; F. Cavezzani, Primati italiani sul monte Rosa, in Rivista mensiledel Club alpino italiano, LXXIII (1954), 7-8, pp. 225-227; L. Pomini, I botanici ed i naturalistidella Valsesia, Vercelli 1959, pp. 17-23, 59 s.; S. Saglio - E. Boffa, Monte Rosa, Milano 1960, pp. 210, 223 s.; C.-E. Engel, Storia dell'alpinismo, Torino 1965, p. 69; E. Ragozza, Nel centenario delle guide di Alagna, 1872-1972, Borgosesia 1972, pp. 10 s., 31 s.; G. Buscaini, Monte Rosa e Mischabel, Milano 1991, pp. 60 s., 372 s.; E. Farinetti - P.P. Viazzo, Giovanni Gnifetti e la conquista della Signalkuppe. Alagnanell'Ottocento. Alpinismo, cultura e società, Milano 1992, pp. 68-73, 85 s.; La montagna. Grandeenciclopedia illustrata, VII, Novara 1977, p. 137.