GUEVARA, Pietro
Nacque intorno al 1450 in una località imprecisata del Regno di Napoli da Íñigo, un castigliano che aveva seguito Alfonso V d'Aragona in Italia, conte di Ariano e marchese del Vasto, nonché gran siniscalco, e da Covella Sanseverino. Alla morte del padre, durante la fase finale della ribellione dei baroni nel 1462, il re Ferdinando, in segno di gratitudine, conferì al G., il maggiore dei due figli, i titoli di conte di Ariano e marchese del Vasto così come l'ufficio di siniscalco.
Ben poche notizie documentarie sulla vita del G. sono sopravvissute alla devastazione subita dagli archivi napoletani risalenti al periodo aragonese. Il suo matrimonio con Isotta Ginevra Del Balzo, figlia maggiore di Pirro, duca di Venosa, fu però talmente spettacolare per sfarzo che il Pontano lo descrisse fin nei dettagli.
Per otto giorni il G. diede sontuosa ospitalità non solo a una schiera di nobili, ma persino alla popolazione di Ariano e delle sue vicinanze: "ut nihil visum fuerit in eo genere opulentius". Per permettersi un simile lusso il G. poteva contare sui cospicui proventi dei suoi possedimenti e sullo stipendio di 366 once dovutogli in qualità di siniscalco.
Il G. si mostrò inoltre interessato a incrementare le proprie entrate attraverso imprese agricole: a tal fine all'inizio degli anni Settanta del sec. XV introdusse la produzione di cereali sulle sue terre a Pietramontecorvino. Anche la pastorizia costituì per lui un'ulteriore fonte di ricchezza, benché tale attività dovette subire una battuta d'arresto quando un gran numero di pecore portate al pascolo in Puglia nell'inverno 1472-73 perì per un'epidemia di scabbia. Alla vigilia della congiura dei baroni del 1485 il G. era ancora coinvolto in una controversia con la Corona circa i diritti di pascolo.
Nulla si sa dell'attività del G. come siniscalco, né abbiamo notizie di sue imprese militari fino al momento in cui egli si unì alle forze dell'erede di Ferdinando, Alfonso duca di Calabria, che assediavano i Turchi a Otranto nel 1481.
Dopo questo evento la sua carriera piomba nuovamente nell'oscurità. Si può ritenere che non amasse particolarmente né la vita di corte né quella dell'accampamento. Certamente tra il G. e Ferdinando d'Aragona non vi fu quel rapporto di confidenza che aveva legato suo padre al re Alfonso; al contrario, una crescente ostilità nei confronti del duca di Calabria spinse il G. a legarsi ai suoi parenti della famiglia Sanseverino, al suocero Pirro Del Balzo e agli altri nobili che tramavano la rivolta.
In un primo momento egli ebbe, insieme con il principe di Salerno, un ruolo di primo piano. Riunitisi a Melfi nel giugno del 1485, con il pretesto di celebrare un matrimonio, i baroni prepararono i loro piani, sollecitati dalle vibrate accuse contro il duca di Calabria da parte del G., che li aveva messi in guardia sulle conseguenze disastrose di una loro rinuncia all'azione e li aveva assicurati dell'appoggio papale. I nobili, impressionati dallo zelo mostrato dal G., gli affidarono il compito di cercare aiuti per la loro causa presso il papa Innocenzo VIII e a Venezia. Ma i suoi tentativi fallirono in entrambe le direzioni. Egli rinunciò a incontrare il papa dopo essere stato avvertito che "le cose di Roma non erano in ordine" (Porzio, p. LXXII). La missione veneziana fu affidata a un emissario, Zaccaria Barbaro, il quale, il 18 ag. 1485, presentò al Senato un documento con cui - dopo aver denunciato "la immanissima tyrannide del re et molto maior del duca" (Pontieri, 1962, p. 226) - prometteva la cessione di tre porti (Brindisi, Otranto e Gallipoli) in cambio di appoggi navali e militari. I senatori respinsero all'unanimità la proposta, e le voci del rifiuto non tardarono a raggiungere Napoli.
Nel frattempo il G., insieme con gli altri congiurati, cercava di guadagnare tempo presentando le proprie rimostranze al re, il quale, a sua volta, rispondeva manifestando la propria generosità.
In agosto il re risolse d'un tratto la controversia che opponeva la moglie del G. alla sorella minore Isabella, promessa sposa di Francesco, figlio del re, relativamente all'eredità del loro padre, offrendo al G. la contea di Archi e 6000 ducati all'anno in cambio della rinuncia all'eredità. Accettata l'offerta, il G. e suo suocero si impegnarono a presentarsi a Napoli di fronte al re per la metà di settembre "a purghare ogni infamia et innocentia loro" (Pontieri, 1971, p. 233). Sia i baroni sia il re proseguivano le rispettive politiche ingannevoli: i baroni simulavano sottomissione mentre in realtà aspettavano che si concretizzasse l'intervento del papa, e Ferdinando si sforzava di tranquillizzarli temporaneamente con manovre conciliatorie in attesa degli aiuti da parte di Milano e Firenze. Ovviamente il G. non si recò a Napoli a metà settembre, quando si seppe che la moglie aveva dato alloggio a centinaia di soldati papali: "le parole sono buone, gli effetti tristi" ebbe a sottolineare l'ambasciatore fiorentino (ibid., p. 251).
Al contrario, egli si era riunito con gli altri ribelli nella fortezza dei Sanseverino a Miglionico, apparentemente per definire un accordo di pace con il sovrano. Il loro vero scopo era però ancora quello di ottenere sostegni in vista di una sollevazione, come lo stesso G. dimostrò allorché accusò di esitazione Francesco Coppola, conte di Sarno, da lui stesso reclutato. Il teatrale gesto di strappare il documento con cui il conte aveva garantito il proprio aiuto fu sufficiente a riguadagnarlo alla causa. Nondimeno, lo stesso G. firmò un accordo con Ferdinando nel quale, tra le altre clausole, si stabiliva che la figlia Eleonora, che allora non aveva neppure dieci anni, sarebbe andata in sposa al secondo figlio del re, Federico, a cui erano stati promessi il titolo e i vasti possedimenti del principato di Taranto.
Per tutto il mese di ottobre del 1485 il G. si atteggiò ansioso di riconciliare il monarca con i suoi nobili. Insieme con il conte di Sarno fece visita al principe di Salerno, in apparenza per sincerarsi del suo assenso all'accordo di Miglionico, in realtà per ragguagliare il conte sulla missione che questi avrebbe dovuto svolgere a Roma. Essi avevano infatti urgente bisogno di sapere quando il papa intendesse inviare nel Regno l'esercito del condottiero Roberto Sanseverino. Sulla via di Salerno i due incontrarono il re a Monteleone di Puglia: il G. smontò da cavallo, rese omaggio al re baciandogli le mani e i piedi, quindi cavalcò con lui ancora per 8 miglia in amichevole conversazione prima di chiedere congedo e proseguire con il conte verso Ariano.
La strategia alternativa, nel caso di un mancato intervento dell'esercito di Roberto Sanseverino, era di conquistare alla causa dei baroni il futuro genero del G., Federico. A tal fine egli venne invitato a Salerno per firmare un trattato di pace a nome del re. Ma una volta lì, gli fu chiesto con insistenza di dichiarare il suo diritto di successione a scapito del fratello maggiore, il duca di Calabria. Di fronte al suo rifiuto, il G. e i suoi alleati non ebbero altra scelta se non quella di trattenerlo come prigioniero e rinunciare a ogni tentativo di simulare una riconciliazione con il re. Il 19 novembre i congiurati issarono le insegne papali su Salerno; dopo questo fatto il G. e gli altri baroni mossero guerra dai loro territori. Senza appoggi esterni essi non costituivano certo una minaccia formidabile: si riteneva allora che il G. e il principe di Altamura non disponessero di più di quattro o cinque squadre, corrispondenti a circa cento cavalieri. Inoltre, nonostante l'entusiasmo del ribelle, pare che il G. non fosse tagliato per il combattimento. Così alla fine dell'anno si trovò in trappola con la moglie e i figli nella sua roccaforte di Vasto. Neppure il sopraggiungere tardivo di 150 uomini d'arme papali ad Ariano, all'inizio di marzo del 1486, poté cambiare le sue sorti. Nel giugno del 1486 Serracapriola, la città pugliese dove egli aveva nascosto la più cospicua parte delle sue ricchezze, si arrese al re e la vittoria fu giudicata così importante da essere festeggiata a Napoli con luminarie. Con il bottino furono anche trovati documenti che più tardi servirono a condannare il conte di Sarno e altri con l'accusa di alto tradimento. Il G. vide sgretolarsi attorno a sé le forze dei ribelli: persino il papa parteggiava ormai per la pace.
Disperatamente egli cercò per sé una via di salvezza. In agosto si appellò al pontefice affinché intercedesse presso il duca di Calabria; questa richiesta divertì il duca, il quale commentò che dei suoi due nemici - il papa e il G. - quest'ultimo era il "più perfido ostinato che vi fussi" (Pontieri, 1972, p. 177). Altrettanto vana era la speranza di salvarsi con un rinnovato appello alla Repubblica di Venezia, che il Senato respinse il 9 sett. 1486. Questo duro colpo dovette gravare sul carico di sofferenze che, stando al Porzio, condussero a morte il G. il 17 sett. 1486.
Essendo deceduto come ribelle, tutte le sue proprietà furono sequestrate dalla Corona. Suo fratello, conte di Potenza, tentò di rivendicarle, ma senza successo, dacché Ferdinando era risoluto a minare il potere baronale reclamando le terre su cui esso si fondava ogniqualvolta se ne presentasse l'opportunità. Allo stesso modo il re respinse la richiesta, avanzata dai baroni nel mese di ottobre, che le proprietà del G., secondo le sue volontà, passassero alla figlia Eleonora (sembra che egli non abbia avuto figli maschi). Il sovrano affermò però che le volontà di un ribelle non avevano alcuna validità anche se si disse disposto ad acconsentire alle nozze della ragazza con il secondo figlio del duca di Calabria, Pietro, concedendole anche in dote i possedimenti del padre. Il matrimonio, tuttavia, non ebbe luogo, con il risultato che tutte le ricchezze del G. restarono in possesso della Corona.
Fonti e Bibl.: T. Caracciolo, De varietate fortunae, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XXII, 1, p. 94; C. Porzio, La congiura dei baroni, a cura di S. D'Aloe, Napoli 1859; Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, a cura di R. Filangieri, Napoli 1956, pp. 36, 48; G. Pontano, I trattati delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, Roma 1965, p. 147; E. Pontieri, L'atteggiamento di Venezia nel conflitto tra papa Innocenzo VIII e Ferrante I d'Aragona (1485-1492). Documenti dell'Archivio di Stato di Venezia, in Arch. stor. per le provincie napoletane, LXXXI (1962), pp. 226, 230, 300; Id., La "Guerra dei baroni" napoletani e di papa Innocenzo VIII contro Ferrante d'Aragona in dispacci della diplomazia fiorentina, ibid., LXXXVIII (1970), pp. 230, 232-234, 240, 246 s., 251 s., 256, 260, 265, 269, 277, 281, 284, 292, 314, 320, 334, 340; LXXXIX (1971), pp. 151, 177; XC (1972), pp. 202 s.; P. Di Cicco, Documenti inediti sulla dogana delle pecore di Puglia nel periodo aragonese, Bari 1989, pp. 26, 64 s.