PIETRO II, re di Sicilia
PIETRO II, re di Sicilia. – Nacque nel 1305 a Palermo da Federico III, re di Sicilia, e da Eleonora d’Angiò.
L’imposizione da parte del padre del nome dell’avo (Pietro III ‘il Grande’, re d’Aragona e di Sicilia) adombrava già un progetto politico che avrebbe determinato successivamente la vita e l’azione dell’erede al trono siciliano.
L’uso dell’onomastica e delle intitolazioni dei re di Sicilia era infatti parte importante della propaganda politica dei complessi decenni succeduti all’apertura della ‘questione siciliana’ con il Vespro del 1282: Federico, che secondo gli accordi di Caltabellotta (1302) avrebbe dovuto intitolarsi re di Trinacria, si presentava invece come Fridericus Tertius, rivendicando l’eredità ghibellina dell’omonimo Imperatore e ignorando la limitazione geografica e cronologica contenuta nel titolo di Trinacria, che non prevedeva alcuna successione dinastica.
In conseguenza di questo programma, nel 1314 Pietro fu riconosciuto erede del padre da una deliberazione del Parlamento del Regno, e nel 1321 – in energica risposta all’interdetto del papa Giovanni XXII – fu associato al trono, rendendo definitivo il progetto successorio. La solenne incoronazione, svoltasi nel giorno di Pasqua di quell’anno, venne pure dopo la formale approvazione di un Parlamento riunito a Siracusa, conferendo a Pietro piena legittimità regia negli ambienti politici del Regno.
Durante il periodo di coreggenza, fino alla morte del padre, nel 1337, Pietro fu pienamente compartecipe delle attività politiche e di governo, legittimato ad agire dalla carica di luogotenente generale, in piena consonanza con la tradizione della dinastia catalano-aragonese che prevedeva un autonomo ruolo degli infanti.
La vita del Regno siciliano fu in quegli anni dominata dal conflitto con la dinastia angioina di Napoli scaturito dal Vespro del 1282; era una fase in cui il Regno isolano mostrava ancora sia notevole capacità offensiva, sia forte iniziativa diplomatica, sia una ritrovata convergenza con la Corona aragonese, retta dal fratello di Federico, Giacomo II. In particolare, diverse strade per la vantaggiosa conclusione del conflitto con gli angioini erano state intraprese con la politica matrimoniale avviata con il matrimonio tra Federico e la madre angioina di Pietro.
In questa linea si inserisce dapprima la promessa di matrimonio di Pietro alla figlia dell’imperatore Enrico VII (1311), e successivamente il matrimonio fra l’erede siciliano ed Elisabetta di Carinzia (Messina, 1323) nella prospettiva di un accerchiamento del Regno angioino.
Il re di Sicilia, d’altronde, continuava a proporsi con forza come campione del ghibellinismo in terra italiana, continuando la tradizione di Federico II e di Manfredi. In tale politica il giovane coreggente fu pienamente coinvolto e nel 1328 Pietro comandò personalmente la spedizione navale siciliana che, riunendo anche forze ghibelline del centro e del nord della penisola, devastò le coste calabresi e napoletane, prese Talamone, Orbetello e l’isola del Giglio e si congiunse con l’esercito imperiale di Ludovico il Bavaro per poi entrare a Pisa. La defezione dei ghibellini genovesi e la tiepidezza del Bavaro riguardo la proposta di Pietro di un attacco al Regno angioino costrinsero però la flotta siciliana al ritorno nell’isola. Probabilmente fiaccato dal viaggio, Pietro si ammalò – come pure il padre – e si temette il profilarsi di un vuoto nella successione del Regno, tanto che la successiva guarigione dei due sovrani fu occasione di festeggiamenti di carattere eccezionale.
Nel 1337, alla morte del padre, Pietro rimase unico sovrano. Come primo atto, fece collocare le spoglie del padre nella cattedrale di Catania, pur prevedendo la successiva collocazione della sepoltura in quella di Palermo, accanto a quelle dei re normanni e dell’imperatore Federico II. Tale gesto violava la volontà di Federico, che aveva stabilito di essere sepolto in terra iberica, a sottolineare la continuità fra dinastia siciliana e aragonese, dopo avere pure disposto che in assenza di discendenza maschile, il Regno isolano sarebbe andato al re d’Aragona. Al di là del formale omaggio alla ormai sbiadita tradizione ghibellina, peraltro mai attuato – le spoglie del padre rimasero a Catania – l’azione di Pietro evidenziò che il re era sotto il controllo della fazione di Corte favorevole a un allontanamento dalle prospettive aragonesi, dopo l’affievolirsi pure del legame parentale e dinastico con la morte di Giacomo II d’Aragona, nel 1327, e il sempre più pressante impegno in Sardegna dei re d’Aragona.
La morte di re Federico e l’inizio del regno di Pietro sono stati unanimemente presentati dalla storiografia coeva e successiva come il momento di inizio dei conflitti interni che avviarono una grave crisi del Regno, riducendone la forza militare e la disponibilità di risorse e indebolendo il potere regio, fortemente condizionato dalle rivalità all’interno della maggiore aristocrazia. È probabilmente a questo che va riferita la fama di debolezza e scarsa capacità attribuita al re Pietro dalle fonti coeve: dalla definizione di ‘purus et simplex’ del cronista Nicolò Speciale all’impietoso ‘quasi uno mentecatto’ di Giovanni Villani. Indipendentemente dalla personalità effettiva di Pietro, il giovane sovrano fu nei fatti alternativamente prigioniero delle diverse egemonie che si configuravano a corte e nel Regno, con il prevalere di opposte fazioni politiche, in un continuo rovesciamento di prevalenze, senza che emergesse alcuna capacità di costruire egemonie durature.
Molti fra i provvedimenti che aveva adottato come co-reggente e luogotenente del padre – ma sempre intitolandosi anzitutto rex Sicilie – sono peraltro rivelatori del clima politico che Pietro si era già trovato ad affrontare: la maggior parte di essi miravano infatti a limitare le conventiculae e il reclutamento di seguaci da parte dei capi delle fazioni, come pure a impedire la creazione di bande personali dei magnati a detrimento della compagine militare regia (Capitula del 1325). Nella normativa emanata dopo il 1337 come unico re di Sicilia, inoltre, Pietro mostrò un particolare impegno nel regolare la vita delle città demaniali – specie di Palermo, alla quale concesse un’ampia messe di privilegi (1340) – e nel consolidare e accrescere il patrimonio normativo che avrebbe dovuto rendere i centri urbani un forte soggetto politico legato alla Corona, equilibrando il potere dei magnati.
Sempre nell’ambito dell’intenzione di rafforzare l’autorevolezza della Corona e della dinastia, Pietro con ogni probabilità fu anche, attorno al 1338, il committente di una cronaca che testimoniasse gli anni del suo regno e di quello del padre (l’anonima Cronica Sicilie), esplicitamente orientata nel legittimare l’autorità regia, minacciata all’interno dalle fazioni aristocratiche e all’esterno dalla pressione militare angioina.
Al di là di tali intendimenti Pietro, non appena giunto al trono, venne coinvolto in un’oscura vicenda che portò alla condanna, alla scomparsa oppure all’esilio di un intero fronte dell’aristocrazia, capeggiato da Francesco Ventimiglia e Federico d’Antiochia.
Negli ultimi anni di regno congiunto di Federico e Pietro aveva guadagnato notevole spazio a corte il partito capeggiato dalla potente famiglia Palizzi, i cui esponenti Matteo e Damiano erano giunti a controllare la carica di maestro razionale, la Cancelleria e la Cappellania. Al momento della successione, Pietro incrementò lo status di Matteo con il titolo comitale e si mostrò propenso ad assecondarne gli orientamenti, condivisi pure dalla regina madre Eleonora e dalla regina Elisabetta. Prima mira della potente fazione radunatasi attorno ai Palizzi era il rientro nel Regno dell’alleato Giovanni Chiaromonte, esiliato e spossessato dei beni per l’aggressione al rivale Francesco Ventimiglia nel 1332 e protagonista di una spedizione angioina in Sicilia nel 1335.
Pietro cedette al volere del cancelliere, e nel 1337 concesse a Chiaromonte il perdono e il reintegro nei beni. Con il rientro nell’isola dall’esilio del potente Chiaromonte si consolidò un partito che, controllando il re, lo indusse a dichiarare traditori e ribelli il Ventimiglia, l’Antiochia e i loro seguaci, muovendo con l’esercito regio contro i loro domini. Con la sconfitta dei presunti ribelli – in realtà non meno legittimisti degli avversari – Pietro avviò nello stesso anno una vastissima redistribuzione dei domini signorili dell’isola a vantaggio della fazione vincente, con la sola eccezione dei conti Raimondo Peralta e Blasco Alagona. I benefici che questi trassero dall’episodio, pur appartenendo alla fazione avversa ai vincitori, testimoniano il margine di autonomia ancora rimasto a Pietro, o quantomeno la perdurante influenza su questi – sia pure in forma limitata – anche dell’altra fazione di corte. Pietro d’altronde potè contare su questo schieramento per organizzare la reazione alle incursioni angioine, come avvenne nel 1338, quando grazie a Blasco Alagona una di esse fu respinta. Nonostante l’ostilità dei Palizzi verso l’Alagona e i suoi seguaci, Blasco rimaneva anche fra i maggiori consiglieri del re e proteggeva i propri aderenti dai tentativi dei Palizzi di estrometterli dal favore regio.
Non è difficile riconoscere in questa vicenda anche l’influenza su Pietro di un altro protagonista della politica del Regno, il fratello Giovanni, energico e potente personaggio della famiglia reale, cui Pietro nel 1337 aveva conferito l’inconsueto alto titolo marchionale (di Randazzo), e poi quello ducale legato ai domini della penisola balcanica (Atene e Neopatria) acquisiti dalla Corona siciliana con l’invio in terra greca dei contingenti catalani vittoriosi nell’isola ai tempi di Pietro III. Vicenda rivelatrice dell’influenza del duca sul fratello fu quella seguita al tentativo della fazione dei Palizzi e Chiaromonte di ripetere l’operazione riuscita anni prima contro i Ventimiglia: l’autorevolezza dei Palizzi, titolari delle altissime cariche a Corte, convinse Pietro del tradimento del fratello e della necessità di esautorarlo e combatterlo. Ma l’iniziativa di Giovanni, che volle un incontro personale con Pietro, valse a sottrarre il re al controllo dei Palizzi e a convincerlo delle mire egemoniche della fazione avversa. In conseguenza di questo episodio, gli equilibri politici mutarono di segno negli ultimi anni di regno di Pietro: chiudendo la strada all’influenza della moglie Elisabetta di Carinzia, che era stata conquistata alla causa dei Palizzi, Giovanni venne nominato vicario del Regno (1340), mentre i potenti avversari e i loro aderenti, uccisi oppure esiliati, furono sostituiti nelle cariche di Corte con esponenti della fazione prevalente (Raimondo Peralta, Blasco Alagona, Tommaso Turtureto), alla quale ormai Pietro faceva pieno riferimento.
Sul fronte esterno, alla fine degli anni Trenta, la situazione militare del confronto con il Regno napoletano era però del tutto mutata: dopo l’infruttuosa spedizione di Pietro in Toscana nel 1328 le iniziative siciliane contro il Regno continentale non avevano più avuto seguito; mentre fu l’isola a cominciare a subire ripetute, anche se non decisive, incursioni (1338, 1341), contenute grazie alla ferma direzione politica e militare dell’isola da parte del Vicario e del sempre più potente maestro giustiziere Blasco Alagona. L’attrattiva esercitata sugli ambienti ghibellini italiani – in crescente difficoltà nelle loro stesse città – da un re di Sicilia che non mostrava di poter mettere in campo le forze di un Regno irrimediabilmente e manifestamente diviso all’interno si era andata d’altronde affievolendo fin dai tempi del fallimento dell’intesa con Ludovico il Bavaro.
Il regno di Pietro si concluse con la sua morte nel 1342, a Calascibetta, e con la traslazione delle spoglie nella cattedrale di Palermo.
Erede della Corona rimaneva il figlio minore Ludovico, sotto la tutela della madre Elisabetta. Il vicariato del Regno restò però al duca Giovanni e la scomparsa del sovrano non sembrò influire sugli equilibri interni. Le vicende degli anni successivi, tuttavia, mostrarono che l’instabilità politica, le divisioni di parte, il controllo fazionario del re e della Corte emersi durante la vita di Pietro erano divenute le modalità permanenti della fisionomia del Regno, complice l’instabilità genealogica della dinastia regia. Due delle figlie di Pietro, Costanza ed Eufemia, dovettero successivamente assumere la reggenza, sempre sotto l’influenza delle fazioni aristocratiche, mentre l’altro figlio maschio, Federico, era destinato a assumere la corona siciliana (1358) come ultimo re della dinastia siculo-catalana, sebbene nei fatti fosse ostaggio delle fazioni.
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