Pietro Lombardo
Nacque intorno a Novara (forse a Lumellogno) fra il 1090 e il 1095. La prima data sicura della sua vita si trova nella lettera 410 di s. Bernardo, che è del 1133 o '34, nella quale s. Bernardo raccomanda al destinatario, l'abate Gilduino di San Vittore, il " venerabilis vir Petrus Lombardus ". Per essere un " venerabilis vir " doveva dunque avere sui quarant'anni. Grazie alla lettera di s. Bernardo fu accolto all'abbazia di San Vittore dove poté conoscere e ascoltare Ugo. Fu poi maestro nella scuola cattedrale di Parigi fino al 1159, anno della sua nomina a vescovo di Parigi. Morì nel 1160. Probabilmente prima di recarsi a Parigi aveva studiato a Bologna; nel 1142 era già un teologo celebre e aveva scritto commenti ai salmi e a s. Paolo, ma la sua opera più famosa sono i Libri quattuor Sententiarum, per i quali è chiamato " Magister Sententiarum ", anzi talora addirittura " Magister ", senz'altra aggiunta. Secondo I. Brady, sostanzialmente d'accordo con D. Van den Eynde (in Miscellanea Lombardiana, pp. 45-63), la cronologia delle opere di P. sarebbe la seguente: Glossa in Psalmos, Glossatura magna in Paulum, prima redazione, anteriori al 1142; una prima redazione delle Sentenze (per ora introvabile); Glossatura in Paulum nella redazione pubblicata nel Migne, Sentenze nelle redazione definitiva che sarebbe del 1158.
Le Sentenze di P. appartengono a un genere letterario che ha molti esempi nel sec. XII: originariamente le ‛ sentenze ' sono raccolte di testi patristici sugli argomenti più importanti, o più discussi, della dottrina cristiana. Ma poiché non sempre le affermazioni dei padri concordano, non sempre sono chiare, si sente il bisogno di commentarle, di fare un lavoro di elaborazione teologica, anche se all'inizio molto timida. Abelardo, nel Sic et Non, aveva messo di fronte affermazioni opposte dei padri, senza dare una propria soluzione, ma suggerendo, nel prologo, metodi per la soluzione. Guglielmo di Champeaux e Anselmo di Laon, che sono fra i maggiori autori di ‛ sentenze ', ricavano dalla compilazione di testi patristici determinate conclusioni: ci restano, anche se in buona parte manoscritte, molte ‛ sentenze ' sia della scuola di Anselmo di Laon come di quella porretana (di Gilberto Porretano) e abelardiana. Ma quelle di P. furono certo le più fortunate, tanto da diventare per oltre tre secoli il testo commentato da tutti i maestri di teologia: prima di diventare magister, infatti, ogni professore doveva commentare per due anni le Sentenze di P. (doveva insegnare per un biennio come baccalaureus sententiarius). La fortuna di quest'opera può stupirci, dato che non si tratta certo di un'opera geniale, ma di una vasta compilazione, come lo stesso P. ammette nel Prologo con queste parole: " in labore multo ac sudore hoc volumen, Deo praestante, compegimus ex testimoniis veritatis in aeternum fundatis... brevi volumine complicans Patrum sententias, appositis eorum testimoniis, ut non sit necesse quaerenti librorum numerositatem evolvere, cui brevitas collecta quod quaeritur affert sine labore ".
P. cita in primo luogo s. Agostino: le citazioni agostiniane superano di gran lunga per numero quelle di altri padri (s. Ambrogio, s. Ilario e s. Girolamo).
Dei padri greci il più citato è s. Giovanni Damasceno, di cui Burgundio Pisano aveva tradotto allora il De Fide orthodoxa, ma le citazioni sono tutte desunte dai capitoli 2-8 del III libro, come ha rilevato J. de Ghellinck. Non sembra però che P. conoscesse direttamente le opere dei padri, eccezion fatta, forse, per il Damasceno, tradotto di recente; egli utilizzava florilegi e attingeva specialmente ai testi che trovava citati nella Glossa ordinaria di Walfrido Strabone e nel Decretum Gratiani. Il fatto che D. metta Graziano (Pd X 103-104) accanto a P. non è casuale: P. è il sistematore della teologia come Graziano è il sistematore del diritto canonico. E questo può già essere un motivo che spiega la sua fortuna.
L'ordine dell'esposizione è desunto dalla divisione che s. Agostino fa del sapere all'inizio del De Dottrina christiana (I I 2): " Omnis doctrina vel rerum est vel signorum... ". Le res si suddividono poi (III 3) in " res quibus fruendum est ", " res quibus utendum ", " res quae fruuntur et utuntur ". Frui, spiega s. Agostino, vuol dire amare una cosa per sé stessa, uti vuol dire servirsene per ottenere ciò che si ama. Le " res quibus utendum est " sono le tre persone divine, la Trinità; tutto il resto deve solo servirci per arrivare alla fruizione di Dio. L'uomo ha una posizione singolare: " Nos itaque qui fruimur et utimur, res aliquae sumus " (X XXII 20). Questo schema agostiniano offre a P. la base della sua sistemazione. Il primo libro delle Sentenze infatti tratta di Dio uno e trino (dist. 2-34) e degli attributi di Dio (dist. 35-48). Dio si è rivelato all'uomo, ma, anche prima e indipendentemente dalla rivelazione, gli uomini, con la loro ragione, poterono conoscere l'esistenza e certi attributi di Dio, come dice s. Paolo (I Rom. 20); ma, diversamente da Abelardo, P. non ammette che essi potessero conoscere la Trinità. Il secondo libro parla della creazione; ma qui alla divisione sistematica, che vorrebbe si trattasse prima del mondo corporeo (" res quibus utendum est ") e poi delle creature spirituali (" nos qui fruimur et utimur "), si sovrappone una visione storica, e P. parla prima degli angeli, poi della creazione del mondo corporeo, poi dell'uomo. Il terzo libro parla del ritorno delle cose a Dio, reso possibile dall'incarnazione (dist. 1-22), e compiuto dall'uomo con le virtù e i doni dello Spirito Santo (dist. 23-26), indicato dalla legge del Nuovo e dell'Antico Testamento (dist. 37-40). Il quarto libro parla dei sacramenti (dist. 1-42), segni della grazia e dei novissimi (dist. 43-50). La divisione dei singoli libri in distinctiones non è di P., ma molto probabilmente di Alessandro di Hales che fu il primo ad adottare le Sentenze come testo per il suo insegnamento.
Uh altro motivo della fortuna di P. fu la sua posizione mediana, per dir così, tra i fautori di una larga applicazione della dialettica alla teologia, il cui maggior rappresentante è Abelardo, e coloro che nella dialettica vedevano solo un pericolo per la purezza della fede, come s. Bernardo. P. accentua il primato della fede e dell'autorità, sia della Scrittura come dei padri, e talora si esprime con disprezzo a proposito della dialettica: " Illae enim et huiusmodi argutiae in creaturis locum tenent, sed fidei sacramentum a philosophicis argumentis est liberum " (Sent. III dist. XXII 1) e cita la frase di s. Ambrogio " aufer argumenta, ubi fides quaeritur. In ipsis gymnasiis suis iam dialectica iaceat; piscatoribus creditur, non dialecticis ". Ma anch'egli adopera argomentazioni e mette a profitto l'opera di Abelardo. Ioannes Cornubiensis attesta che egli aveva spesso tra le mani le opere teologiche di Abelardo (cit. da Grabmann, II, p. 386) e l'influsso di Abelardo si rivela anche nel modo di esporre i problemi: P. cita testi della Scrittura e dei padri in favore di una tesi, poi altri testi che sostengono o sembrano sostenere la tesi opposta, secondo il metodo del Sic et non di Abelardo, ma, a differenza di Abelardo, dà poi una sua soluzione, o piuttosto aderisce a una delle tesi già suffragate dall'autorità di testi patristici, interpretando poi quelli che sembrano opposti in modo da eliminare per quanto è possibile l'opposizione. Per questo suo lasciar posto alla dialettica, all'argomentazione nella teologia, P. fu associato ad Abelardo nel giudizio di un implacabile avversario della dialettica: Gualtiero di San Vittore.
Notevole è la dipendenza di P. dal De Sacramentis di Ugo di San Vittore, pensatore ben più originale di P. anche se meno fortunato. I. Brady ha rilevato una maggior dipendenza da Ugo nel secondo libro delle Sentenze, mentre il primo libro è più originale.
P. è un onesto professore che ha convogliato nell'opera sua i risultati della tradizione e i contributi più vivi del suo secolo, equilibrandoli; che si è fermato di fronte alle questioni dubbie senza dare per certo quello che è discutibile, e ha così permesso che dai commenti al suo manuale fiorissero le opere più significative della teologia medievale, e che sul terreno da lui preparato s'incontrassero gli spiriti più diversi, che presero ognuno la propria via.
P. è ricordato da D. in Pd X 107 e in Mn III VII 6. Nel primo luogo s. Tommaso lo presenta così: L'altro ch'appresso addorna il nostro coro, / quel Pietro fu che con la poverella / offerse a Santa Chiesa suo tesoro; parole che alludono al prologo di P. alle Sentenze: " Cupientes aliquid de penuria ac tenuitate nostra cum paupercula in gazophylacium Domini mittere, ardua scandere, opus ultra vires nostras agere praesumpsimus ". P. si riferisce all'episodio evangelico (Marc. 12, 42; Luc. 21, 2) della vedova poverella che offre al tesoro del tempio la monetina che costituisce tutto il suo avere. Le parole di P. vogliono essere quindi una professione di modestia, ma, come spesso tali ptofessioni, una dichiarazione che merita lode, poiché Gesù nel Vangelo loda la poverella più di coloro che facevano grosse offerte.
Nella Monarchia D. cita P. per avvertire che dissente da lui su una determinata tesi: Nec etiam possent omnia sibi [cioè al papa] commicti a Deo, quoniam potestatem creandi et similiter baptizandi nullo modo Deus commictere posset, ut evidenter probatur, licet Magister contrarium dixerit in quarto. Parlando infatti del potere di battezzare e della trasmissione di tale potere da Cristo ai suoi seguaci, P. si pone questa obiezione: il battesimo rimette i peccati, e il potere di rimettere i peccati è solo di Dio e s'identifica con Dio; ora Dio non può dare ad altri ciò che costituisce la sua natura divina: sarebbe come se Dio trasmettesse ad altri il potere di creare. " Ad quod dici potest ", risponde P., " quia potuit eis dare potentiam dimittendi peccata, non ipsam eandem qua ipse potens est, sed potentiam creatam, qua servis posset dimettere peccata... ut minister... Ita etiam posset Deus per aliquem creare aliqua, non per eum tamquam auctorem, sed ministrum, cum quo et in quo operaretur ". (Sent. IV dist. V 3).
Bibl. - Le opere di P. si trovano nel Migne, Patrol. Lat. CXCI-CXCII. Dei Libri quattuor Sententiarum si veda l'edizione in due volumi a c. dei Francescani di Quaracchi, Firenze-Quaracchi 1916; una nuova edizione critica è ivi in preparazione a c. di I. Brady. Le trattazioni migliori su P. sono: M. Grabmann, Die Geschichte der scholastischen Methode, II, Friburgo in Brisgovia 1911 (ediz. fotostatica, Basilea-Stoccarda 1961), 359-407; J. De Ghellinck, Le mouvement théologique du XIIe siècle, Bruges-Bruxelles-Parigi 1948², 213-296; ID., P.L., in Dictionnaire de Théologie catholique. Si veda poi Ph. Delhaye, Pierre Lombard, Montréal-Parigi 1961. A. P. è dedicata la Miscellanea lombardiana, Novara 1957. Fra gli studi particolari: H. Weisweiler, La "Summa Sententiarum ", source de P.L., in " Recherches de Théologie Ancienne et Médiévale " VI (1934) 143-183; I. Brady, The Distinctions of Lombard's Book of Sentences and Alexander of Hales, in " Franciscan Studies " XXV (1965) 90-116.