MASCAGNI, Pietro
– Nacque a Livorno il 7 dic. 1863, figlio di Domenico, di professione fornaio, originario di San Miniato al Tedesco, e di Emilia Reboa. L’8 ott. 1873 la madre morì lasciando il marito e cinque figli: oltre al M., il primogenito Francesco e i più piccoli Carlo, Elvira e Paolo. Il M., avviato dal padre agli studi ginnasiali nella città natale, ricevette i primi insegnamenti musicali di pianoforte da E. Bianchi e d’organo da A. Biagini; dal 1876 divenne allievo dell’istituto musicale L. Cherubini di Livorno, dove oltre al pianoforte e all’organo si dedicò anche al violino, al contrabbasso e ad alcuni strumenti a fiato. Studiò inoltre l’armonia e il contrappunto sotto la guida di A. Soffredini, fondatore dell’istituto e perno della vita musicale cittadina, che orientò il talento precoce del M. e lo incoraggiò a seguire la carriera musicale, contro la volontà del padre che lo avrebbe voluto avvocato.
Nel 1880 il M. scrisse le prime composizioni vocali (Elegia per soprano, violino e pianoforte, Ave Maria per soprano e pianoforte, Pater noster per soprano e quintetto d’archi) e orchestrali (sinfonia in fa maggiore). Nel febbraio 1881, a Livorno, venne eseguita la sua cantata per quattro voci soliste e orchestra In filanda, composta sul testo di Soffredini. In luglio scrisse la cantata Alla gioia, sul testo di F. Schiller tradotto da A. Maffei.
Fin dal 1881 fu in corrispondenza con A. Ponchielli, il quale lo indusse a prendere contatti con gli ambienti musicali milanesi e ricercare un editore per le prime composizioni. Grazie all’aiuto economico del conte Florestano de Larderel (dedicatario della cantata Alla gioia) il 6 maggio 1882 si trasferì a Milano e il 12 ottobre superò brillantemente l’esame di ammissione al conservatorio, dove studiò con M. Saladino e con lo stesso Ponchielli. A Milano frequentò i coniugi Ponchielli, stringendo amicizia con il collega di studi G. Puccini e con l’ingegnere V. Gianfranceschi, appassionato conoscitore di musica, destinato a diventare suo fraterno amico per tutta la vita. Compose diversi brani fra i quali un Preludio per orchestra in stile wagneriano.
Tra il 1882 e il 1883 morirono a poca distanza di tempo l’uno dall’altra, il fratello Carlo e la sorella Elvira. Nel febbraio 1883, profondamente colpito dalla scomparsa di R. Wagner, il M. compose un’Elegia in morte di Riccardo Wagner, di cui però non è rimasta traccia. Riprese quindi la cantata In filanda e con l’aiuto del poeta livornese G. Targioni Tozzetti la trasformò in un idillio scenico in due atti, Pinotta, da presentare a un concorso di composizione riservato agli allievi del conservatorio. Il M. però non rispettò i tempi di consegna e il lavoro venne respinto. Scrisse la romanza per tenore e orchestra Il re a Napoli, eseguita al teatro Goldoni di Livorno l’11 ott. 1884. Autore del testo era A. Maffei, traduttore del William Ratcliff di H. Heine, al quale il M. iniziò a dedicarsi, preso da una passione quasi febbrile e dal sogno di cavarne la prima grande opera per il teatro.
Nel 1885 coltivò la direzione d’orchestra in varie compagnie girovaghe d’operetta: dapprima la compagnia di V. Forlì, dov’era primo tenore il livornese D. Acconci, poi quella di C. e A. Scognamiglio. Frattanto i rapporti del M. con il conservatorio milanese divenivano sempre più tesi, a causa delle frequenti assenze dalle lezioni e per le intemperanze del carattere. Nell’aprile 1885, dopo un colloquio polemico con il direttore A. Bazzini, abbandonò l’istituto prima della conclusione degli studi, dando pubblicamente prova di quel temperamento ribelle e scapestrato che rimarrà in lui inalterato fino alla vecchiaia.
Per un certo tempo il M. coltivò una relazione amorosa con la sorella di Acconci, Giuseppina. Si legò quindi ad Argenide Marcellina (detta Lina) Carbognani, conosciuta a Parma, dove aveva diretto l’operetta Cuore e mano di A.-Ch. Lecocq. Nel febbraio 1886, lasciata la compagnia Scognamiglio, collaborò con una serie di compagnie d’operetta occasionali. Con Acconci, nel mese di luglio, presentò al teatro del Fondo di Napoli l’operetta Il Gran Mogol di E. Audran. Nel febbraio 1887 giunse a Cerignola con la compagnia di L. Maresca (che definì «d’infimo ordine, con una paga misera»: lettera a Gianfranceschi del 17 febbr. 1887, poi in Epistolario, I, p. 68).
Qui ottenne alcune lezioni di pianoforte e la nomina di «maestro di suono e di canto» da parte del Consiglio comunale, con il compito di costituire e istruire la nuova Filarmonica cittadina e di dirigere la banda e il teatro Municipale.
Nell’ottobre 1887 Lina diede alla luce il figlio primogenito, che morì dopo soli quattro mesi di vita. Il 7 febbr. 1888 il M. e Lina celebrarono il matrimonio nella cattedrale di Cerignola. Nell’aprile successivo eseguì la sua Messa di Gloria per tenore, basso, coro e orchestra con gli allievi della Filarmonica. In luglio l’editore Sonzogno bandì la seconda edizione del concorso per un’opera in un atto. Per parteciparvi il M. abbandonò il Guglielmo Ratcliff, al quale lavorava già da sei anni, e scelse come soggetto l’argomento della novella di G. Verga Cavalleria rusticana.
La realizzazione del libretto fu affidata all’amico Targioni Tozzetti, al quale si unì quasi subito un altro poeta livornese, G. Menasci, per meglio soddisfare la pretesa del M. di disporre immediatamente del libretto.
L’opera fu pronta nel maggio 1889. La giuria, di cui facevano parte tra gli altri F. Marchetti, G. Sgambati e A. Galli, proclamò le tre opere vincitrici all’inizio del 1890: su 73 lavori presentati, Cavalleria rusticana precedette nella graduatoria Labilia di N. Spinelli e Rudello di V. Ferroni. Anche il libretto di Cavalleria fu premiato. Il 17 maggio l’opera debuttò con un clamoroso successo di pubblico al teatro Costanzi di Roma (direttore L. Mugnone, interpreti principali due cantanti d’eccezione, il tenore R. Stagno e il soprano Gemma Bellincioni). Il 14 agosto il medesimo cast d’interpreti presentò l’opera al teatro Goldoni di Livorno.
Intanto la famiglia Mascagni cresceva: il 3 febbr. 1889, a Cerignola, era venuto alla luce il secondogenito Domenico, soprannominato Mimì, e il 3 genn. 1891, sempre a Cerignola, nacque Edoardo. Padrino di battesimo di quest’ultimo fu E. Sonzogno, che presenziò alla cerimonia insieme con N. Daspuro, giornalista, drammaturgo e rappresentante dell’editore nell’Italia meridionale. In quell’occasione i tre concertarono la realizzazione di una nuova opera, L’amico Fritz, che venne rappresentata al teatro Costanzi di Roma il 31 ott. 1891.
Con L’amico Fritz il M. incominciò a prendere le distanze dal fortunato modello di Cavalleria, assurto a paradigma drammaturgico per i melodrammi di orientamento veristico. Nei tre atti in cui si svolge la commedia borghese dell’Amico Fritz si stemperano e si diluiscono i tratti che avevano dettato i lineamenti della tragedia plebea ispirata dal soggetto verghiano: l’impiego di brani caratteristici per definire l’ambiente (coretti ispirati a un folklore paesano idilliaco, canzoni, canti di lavoro e canti religiosi); la drastica riduzione dei pezzi solistici; l’uso narrativo della musica sinfonica, che grazie allo stratagemma dell’Intermezzo entra nel vivo dell’azione. Tuttavia, già ne L’amico Fritz la voluta ricerca dei colori tenui, della poesia delle passioni flebili, comporta la perdita delle componenti più vitali dello «stile» Cavalleria, determinate dalla totale adesione delle modalità del canto alla violenza gestuale del dramma, con l’emergere al culmine delle scene ora di sfoghi lirici, ora di un declamato intensissimo, condotto in un crescendo patetico fino al famoso grido parlato del finale.
In seguito, quasi a ogni opera il M. mutò orientamento estetico, raggiungendo talvolta risultati pregevoli, ma mai il capolavoro che gli consentisse di confermare il successo dell’esordio. Così, di volta in volta, sperimentò argomenti di gusto estetizzante in Zanetto, l’esotismo floreale in Iris, il teatro di caratteri stereotipi nelle Maschere, il simbolismo medioevaleggiante in Isabeau, il decadentismo di marca dannunziana in Parisina, dando prova di un’irrequietezza e d’una vastità d’interessi quasi mai suffragata da piena consapevolezza delle implicazioni estetiche a essi sottese: «qualunque genere per me è buono, perché ci sia verità, passione e soprattutto che ci sia il dramma, il dramma forte», scriveva ai librettisti subito dopo il compimento di Cavalleria (lettera del 19 apr. 1890, in Epistolario, I, p. 123).
Il successo di Cavalleria rusticana procurò al M. i mezzi per far fronte con agio ai bisogni materiali dell’esistenza e gli permise di abbandonare l’impiego a Cerignola, divenuto nel frattempo sempre più precario a causa della crisi dell’economia agraria locale, per dedicarsi esclusivamente alla composizione, alla direzione d’orchestra, all’organizzazione e alla didattica musicale. Conservò comunque l’abitazione di Cerignola, dove risiedette per periodi sempre più brevi, alternati a soggiorni a Livorno e Milano.
Cavalleria gli procurò però anche inaspettati contrattempi giudiziari allorché, constatato l’esito favorevole dell’opera, Verga rivendicò in tribunale diritti d’autore più cospicui. La vertenza si concluse nel 1893 con l’assegnazione allo scrittore siciliano di un considerevole risarcimento in denaro.
Il 21 ag. 1892 nacque a Livorno la figlia Emilia. In settembre il M. partecipò all’Esposizione musicale di Vienna con Cavalleria rusticana e L’amico Fritz, ottenendo il primo significativo successo internazionale.
L’autorevole critico E. Hanslick accolse Cavalleria come il più efficace antidoto alla pretesa wagneriana di fare opera senza vera melodia. Contemporaneamente, però, G. D’Annunzio lo attaccò in un articolo intitolato Il capobanda, attribuendo a lui e all’editore Sonzogno che lo sosteneva un’incorreggibile mediocrità artistica, compensata soltanto da un istinto triviale d’indole mercantile (Il Mattino, 2-3 sett. 1892).
Il 10 novembre, al teatro della Pergola di Firenze, andò in scena I Rantzau, dramma in quattro atti di Targioni Tozzetti e Menasci da Les Rantzau, tratto a sua volta dal romanzo Les deux frères di É. Erckmann e A. Chatrian. Nel 1893 il M. si recò in tournée a Berlino e poi a Londra, dove diresse L’amico Fritz e I Rantzau nella stagione italiana del Covent Garden. A Londra conobbe F.P. Tosti ed ebbe il privilegio di eseguire Cavalleria e parte de L’amico Fritz nel castello di Windsor su invito della regina Vittoria.
Nel 1894 compose Sera d’ottobre, una lirica da Myricae di G. Pascoli, poeta col quale intrattenne rapporti d’amicizia, e terminò finalmente la composizione del Guglielmo Ratcliff, che andò in scena al teatro alla Scala di Milano il 16 febbr. 1895 con un successo assai inferiore alle aspettative. Un mese dopo Sonzogno fece rappresentare nel teatro milanese anche Silvano, dramma in due atti di ambientazione marinaresca su libretto di Targioni Tozzetti, che subì la stroncatura unanime di pubblico e critica.
Nel 1895 il M. fu nominato direttore del liceo musicale G. Rossini di Pesaro, dove oltre a R. Zandonai, L. Ferrari-Trecate e F. Balilla Pratella, ebbe come allievo di composizione il cugino Mario Mascagni (San Miniato, 21 dic. 1882 - Bolzano, 14 febbr. 1948), il quale in seguito si sarebbe distinto come direttore d’orchestra in molti teatri italiani, nonché come didatta e organizzatore in varie città del Norditalia. A Pesaro il M. creò un’orchestra di allievi e di maestri che si segnalò a livello nazionale.
Con l’orchestra del liceo tenne i primi concerti nel mese di febbraio, nell’anniversario della nascita di Rossini: presentò un nutrito programma, comprendente due sinfonie di Rossini (da La cambiale di matrimonio e dal Guillaume Tell), la sinfonia Eroica di L. van Beethoven, il Largo dall’opera Xerse di G.Fr. Haendel e due preludi di Wagner (dal Lohengrin e dal Tannhäuser); propose poi la Petite messe solennelle di Rossini. Fino ad allora il M. aveva diretto soprattutto in teatro e soltanto opere proprie; la disponibilità dell’orchestra pesarese gli permise di misurarsi in campo sinfonico e di mettere in atto una personale idea di esecuzione, espressiva, sempre tesa e «nervosa», condotta «coll’impronta dell’improvvisazione» e lontana dalle interpretazioni «accurate e perfette […], ma sempre meccaniche e metronimiche» (lettera a Gianfranceschi dell’8 giugno 1897, in Epistolario, I, p. 192).
A Pesaro, il 2 marzo 1896, andò in scena anche la prima assoluta di Zanetto, un atto unico di Targioni Tozzetti tratto da Le passant di Fr. Coppée. L’opera venne replicata il 18 marzo alla Scala, pure in questa circostanza però il pubblico milanese riservò al M. una tiepida accoglienza.
L’editore Ricordi, che fin dall’esordio di Cavalleria tentava di infrangere il sodalizio con Sonzogno, nel maggio 1895 propose al M. La lupa, che Verga aveva tratto dall’omonima novella, già sottoposta al vaglio di Puccini ma da quest’ultimo rifiutata. Il M. oppose un solenne diniego.
Egli criticò aspramente l’argomento e la fattura del libretto («un soggetto che rivolta lo stomaco, una forma monotona e per nulla adatta alla musicabilità») e prendendosi pure qualche rivincita con l’autore («Il Verga, pensando al successo [doppio successo!] di Cavalleria, ha voluto fare di più ed ha strafatto»: lettera a G. Ricordi del 21 maggio 1895, in Epistolario, I, pp. 165 s.).
Nel 1896 ebbe inizio un rapporto di lavoro con L. Illica che si sarebbe protratto nel tempo, interrompendo il sodalizio fisso con Targioni Tozzetti e Menasci. Da poco reduce dal trionfo della Bohème pucciniana, Illica era allora impegnato in una rete di collaborazioni con gli autori della cosiddetta «Giovane scuola» italiana, fra cui U. Giordano (Andrea Chénier) e lo stesso Puccini (Tosca). Con il M. lavorò a due nuove opere pressoché in parallelo: Iris, commissionata da Ricordi, che inaugurava la moda di fine secolo dei soggetti esotici; e, dal marzo 1897, su incarico di Sonzogno, Le maschere, in cui gli autori intendevano risalire alle sorgenti della teatralità dell’antica commedia dell’arte.
Fra marzo e aprile 1898 il M. diresse sei concerti sinfonici al teatro alla Scala, nel corso dei quali propose in prima esecuzione italiana la sinfonia Patetica di P.I. Čajkovskij. Il 29 giugno a Recanati, in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Leopardi, diresse il suo poema A Giacomo Leopardi per orchestra e voce di soprano. Il 22 novembre successivo, al teatro Costanzi, si tenne la prima rappresentazione di Iris – alla quale il pubblico romano tributò un considerevole successo –: interpreti principali furono Hariclea Darclée e F. De Lucia; direttore fu il M. stesso in sostituzione del previsto E. Mascheroni.
Il libretto preparato da Illica prefigura una serie di situazioni sceniche e musicali insolite (dall’introduzione sinfonico-corale che si basa sulla prosa poetica di Illica per cavarne una sorta di poema sinfonico che conduce all’esaltante Inno al Sole, al teatrino esotico, alle visioni della protagonista morente), alle quali il M. si adegua docilmente. L’opera incontrò questa volta anche i gusti esigenti di D’Annunzio (il quale assistette alle recite di Napoli del 1899): il poeta si riconciliò con il M. e la notizia di una loro imminente collaborazione finì addirittura sulla stampa.
Il 26 maggio 1899 morì il padre del M., Domenico. All’inizio dell’anno seguente il Comune di Pesaro manifestò al M. insoddisfazione per le lunghe assenze dal liceo musicale a causa degli impegni fuori città come direttore d’orchestra. Ne nacque un contenzioso risolto, per il momento, da una commissione inviata dal ministro della Pubblica Istruzione (ne facevano parte, tra gli altri, A. Boito e F. Marchetti), la quale presentò una relazione positiva sull’operato del direttore. In marzo il M. tenne alcuni concerti a San Pietroburgo. Nel corso dell’anno l’editore Belforte di Livorno pubblicò il libretto di Vistilia che Targioni Tozzetti e Menasci ricavarono dal romanzo storico di R. De Zerbi. Parte del materiale concepito per questo lavoro ambientato nell’antica Roma, condotto fra mille dubbi e mai portato a termine, sarebbe in seguito confluito nel Nerone. Il 27 giugno il M. diresse a Pesaro un suo nuovo brano per orchestra d’archi, intitolato La gavotta delle bambole. Il 9 ag. 1900 era sul podio del Pantheon di Roma per la solenne cerimonia funebre di Umberto I.
Cinque mesi più tardi, il 17 genn. 1901, il M. visse il giorno più sfortunato della sua carriera artistica. Le maschere debuttarono contemporaneamente in sei teatri (Costanzi di Roma, Scala di Milano, Fenice di Venezia, Regio di Torino, Carlo Felice di Genova, Filarmonico di Verona), ai quali si aggiunse quarantotto ore dopo il S. Carlo di Napoli, dove l’opera andò in scena in ritardo per l’indisposizione di un cantante. L’esito fu ovunque disastroso, con la sola eccezione di Roma, dove l’accoglienza risultò un poco meno ostile per la presenza dell’autore sul podio. Il fiasco delle Maschere provocò anche contrasti con l’editore Sonzogno e la temporanea interruzione dei loro rapporti di lavoro.
Il M. si rivolse quindi al rivale Ricordi, il quale però non diede prova di tenerlo nella giusta considerazione.
Gli propose dapprima un nuovo libretto scritto a quattro mani dai suoi autori migliori – Illica e G. Giacosa – senza però essere in grado di garantirgliene la realizzazione, dal momento che questi ultimi erano già intensamente impegnati con la Madama Butterfly di Puccini; quindi lo tenne a lungo occupato intorno a un progetto, la Maria Antonietta di Illica, che a sua insaputa in seguito passò a Puccini, il quale ne individuò e censurò senza possibilità di appello tutte le deficienze drammatiche; infine lo indusse ad accettare un libretto, Magia, malamente tratto dalla farsa La cena infernale.
Esasperato per il protrarsi dell’inattività (dopo Le maschere portò a termine soltanto le musiche di scena per La città eterna di H. Caine), nell’aprile 1904 il M. concluse il contratto con l’editore francese P. de Choudens per Amica, poema drammatico in due atti dello stesso Choudens (con lo pseudonimo P. Bérel), rivisto in alcune scene da Menasci e musicato nella versione ritmica italiana di Targioni Tozzetti. La nuova opera andò in scena per la prima volta il 16 marzo 1905 a Montecarlo, per approdare il 18 maggio al teatro Costanzi di Roma, in entrambe le occasioni diretta dall’autore.
Nel frattempo il M. aveva consolidato a livello internazionale il suo prestigio come direttore d’orchestra. G. Mahler lo invitò al teatro Imperiale di Vienna, dove il 25 apr. 1901 diresse il Requiem di G. Verdi, in memoria del musicista scomparso il precedente 27 gennaio. Nel marzo 1902, grazie all’interessamento del barone viennese A. Eisner, intraprese un vasto giro di concerti a Vienna, Varsavia e Bucarest. Dal settembre 1902 al marzo 1903 si recò in tournée negli Stati Uniti, dove raccolse significativi consensi e promettenti offerte professionali (una cattedra universitaria, la direzione stabile di un’orchestra sinfonica), poi cadute nel nulla.
Le peregrinazioni concertistiche internazionali diedero nuovo impulso ai malumori pesaresi. Il 23 giugno 1902 diresse per l’ultima volta l’orchestra del liceo alla cerimonia d’inaugurazione del monumento a Rossini in S. Croce a Firenze. Il 13 agosto la presidenza dell’istituto lo destituì dall’incarico, decisione ratificata dal ministero nel gennaio dell’anno successivo e, una volta rientrato dagli Stati Uniti, il M. fu obbligato a lasciare l’incarico. Si oppose però legalmente presso il tribunale di Ancona, che nell’agosto 1906 emise una sentenza in suo favore.
Intanto, nell’ottobre 1903, assunse la direzione della Scuola nazionale di musica di Roma, che mantenne fino al 1911. Fra i suoi allievi romani figurano E. Carabella ed Elsa Olivieri Sangiacomo, in seguito divenuta allieva e moglie di O. Respighi.
Dal 1904 si stabilì a Roma. Nel gennaio 1905 riprese le tournée di direttore d’orchestra con due concerti a Parigi, dove incontrò V. Sardou, col quale discusse sulla possibilità di trasporre in musica il dramma Odio, un vecchio progetto già proposto senza esito a Ricordi. In autunno preparò una nuova versione delle Maschere per l’allestimento del 28 novembre al teatro Adriano di Roma.
Il M. tornò più volte su questa partitura con tagli e modifiche (l’ultima nel 1931); in questa circostanza soppresse il prologo (ripristinato nelle versioni successive) e accorciò l’atto terzo.
Nel novembre 1906 si riconciliò con l’editore Sonzogno, col quale stipulò un contratto molto vantaggioso, che impegnava autore ed editore per alcune opere nuove. Scartate tutte le proposte di Choudens, discusse a lungo con Illica la scelta del soggetto, senza venire a capo di nulla fino a metà 1908, quando finalmente si orientò verso Isabeau. Con questo lavoro il M. intendeva produrre «la esatta e compiuta estrinsecazione» della propria idea di «melodramma moderno» (cfr. lettera a Illica del 31 dic. 1908, in Epistolario, I, p. 305). In questo frangente tentò anche di coinvolgere Illica nella revisione dello sfortunato progetto della Vistilia.
Nell’agosto 1909 assunse la direzione artistica del teatro Costanzi di Roma per conto della Società teatrale internazionale.
La stagione si aprì con Tristano e Isotta di Wagner e proseguì con opere di Rossini (Il barbiere di Siviglia), V. Bellini (Norma), Verdi (Don Carlos), nuovamente Wagner (Lohengrin), Boito (Mefistofele), Puccini (Bohème), R. Leoncavallo (Maja), Giordano (Mese mariano), nonché dello stesso M. (Cavalleria rusticana e Iris).
Indispettito da alcune decisioni prese a sua insaputa in preparazione delle celebrazioni verdiane del 1911, rassegnò le dimissioni dall’incarico di direttore artistico già nel febbraio 1910, pur mantenendo gli impegni di direttore d’orchestra nel frattempo assunti.
Nella primavera del 1910 si legò sentimentalmente ad Anna Lolli, una giovane corista che gli rimarrà accanto tutta la vita. Da giugno ad agosto lavorò a Isabeau insieme con Illica, nella residenza di quest’ultimo a Castellarquato; l’opera era interamente composta all’inizio del 1911. Il 10 aprile, prima di salpare verso il Sudamerica per una fortunata tournée d’opera e di concerti, protrattasi per sette mesi, il M. ne diede un’anteprima senza scene e costumi al teatro Carlo Felice di Genova. Il debutto ufficiale in teatro si tenne invece il 2 giugno al Coliseo di Buenos Aires. In Italia Isabeau andò in scena per la prima volta il 20 genn. 1912, presentata contemporaneamente al teatro la Fenice, diretta dallo stesso M., e al teatro alla Scala, diretta da T. Serafin.
Nell’aprile 1912 s’erano intanto create le condizioni per una collaborazione con D’Annunzio. Il poeta individuò il M. come il più adatto per dar finalmente corso al suo vecchio progetto di elaborare per il teatro lirico il soggetto di Parisina: «Mascagni – scrive a Sonzogno – […] è l’unico rimasto veramente italiano e che ha una potenza di creazione che non si arresta davanti alle difficoltà» (lettera del 9 apr. 1912, cit. in R. Tedeschi, D’Annunzio e la musica, Scandicci 1988, p. 95); e il M. intravide a sua volta nel poeta un’occasione per nobilitarsi. Il 20 aprile, da Arcachon, D’Annunzio inviò al M. il manoscritto del libretto. Il 2 maggio i due si incontrarono a Parigi per lavorare ad alcune modifiche del testo e avviare la composizione dell’opera.
In giugno, mentre si trovava ancora Oltralpe, la moglie Lina provocò una violenta crisi familiare, a causa della relazione del M., non più segreta, con la Lolli. Il M. fu costretto a raggiungere quest’ultima per condurla – insieme con la figlia Emilia – a Parigi, dove risiedette sotto falso nome fino ai primi di dicembre. Nel frattempo D’Annunzio si ritirò ad Arcachon e si sottrasse agli incontri con il M., nonostante le insistenti richieste di quest’ultimo.
Al rientro a Roma il M. aveva quasi concluso la composizione di Parisina, che fu rappresentata per la prima volta alla Scala il 15 dic. 1913 con la direzione dell’autore: la critica, tuttavia, rilevò l’eccessiva durata dello spettacolo, tanto che nelle repliche il M. soppresse l’intero atto quarto.
Nel maggio 1914, raggiunto un accordo con la Cines del barone A. Fassini, compose, per orchestra sinfonica, le musiche del film Rapsodia satanica di N. Oxilia, interpretato dall’allora celeberrima Lyda Borelli; pieno d’entusiasmo per la nuova esperienza, il M. affrontò con passione e interesse il faticoso lavoro di sincronizzazione della musica alle sequenze filmiche. Nel 1915 – partendo dal Quirino di Roma per approdare al Dal Verme di Milano – portò un allestimento del Mosè in Egitto di Rossini in vari teatri italiani. Il 2 luglio al teatro Regio di Torino concertò un’esecuzione benefica per le famiglie dei soldati italiani al fronte e, in dicembre, diresse il Mefistofele di A. Boito nello spettacolo inaugurale della stagione del S. Carlo di Napoli.
Nella primavera 1916 iniziò a comporre Lodoletta su libretto di G. Forzano, tratto dal romanzo di Ouida (pseud. della scrittrice anglo-francese Marie Louise de la Ramée) Two little wooden shoes, un soggetto al quale Puccini aveva rinunciato, dopo averne acquisito i diritti. L’opera, diretta dal M., andò in scena al teatro Costanzi il 30 apr. 1917, con interprete principale il soprano Rosina Storchio.
Nel novembre il figlio Edoardo fu fatto prigioniero sul fronte italiano e detenuto in campo di prigionia in Ungheria. Nel gennaio 1918 il M. diresse a Torino l’orchestra sinfonica alla proiezione di Rapsodia satanica. Compose quindi l’operetta Sì, tre atti di C. Lombardo e A. Franci, avvalendosi per l’orchestrazione del contributo del cugino Mario; il lavoro debuttò il 13 dic. 1919 al teatro Quirino.
Nonostante nutrisse una pessima opinione di Forzano, intraprese con lui una nuova burrascosa collaborazione per Il piccolo Marat, obbligandolo alla fine ad accettare modifiche e aggiunte di Targioni Tozzetti. La prima si tenne il 2 maggio 1921 al teatro Costanzi.
Ispirata al parossismo sociale della Rivoluzione francese, l’opera si prestava a rispecchiare il clima incandescente della vita politica italiana alla vigilia delle elezioni per il Parlamento del 15 maggio.
Il M. ottenne così l’ultimo successo trionfale della sua carriera. Nel 1922 divenne membro dell’Accademia di S. Cecilia; nel maggio del medesimo anno partì per una tournée di sei mesi in Sudamerica e, al ritorno, fu ricevuto per la prima volta da B. Mussolini.
Morto Illica, esaurita in modo turbolento la collaborazione con Forzano, disilluso di poter mai ottenere da D’Annunzio il nuovo libretto che egli andava ripetutamente promettendogli, frustrato nella ricerca di un poeta che fosse in grado di fornirgli materia per «un’opera interamente a recitativo», secondo le tendenze più attuali (v. lettera a G.M. Viti del 4 ag. 1922, in Epistolario, II, p. 97), danneggiato dal disorientamento interno alla Casa Sonzogno dopo la morte di Edoardo, il M. rimase a lungo privo di nuovi progetti teatrali.
Al principio del 1923 scrisse un pezzo per orchestra, Visione lirica (Guardando la S. Teresa del Bernini nella chiesa di S. Maria della Vittoria a Roma), che propose il 14 gennaio in concerto all’Augusteo.
Il 29 nov. 1924 apprese con dolore la notizia della morte di Puccini mentre si trovava a Vienna per dirigere un ciclo di melodrammi italiani all’Opera di Stato. Nei dieci mesi successivi diresse opere e tenne concerti anche a Praga, Varsavia, Budapest, Bratislava, Berlino, Dresda, Ostenda.
In tutto questo periodo fece capo a Vienna, dove risiedette fino alla fine di ottobre 1925. Quindi, in dicembre, si recò in Egitto: ad Alessandria diresse una selezione delle proprie opere teatrali, mentre al Cairo diede un concerto sinfonico.
Tornato in Italia, pur non aderendo al Partito nazionale fascista (PNF, cui fu iscritto soltanto dal 1932), si mise al servizio del regime «con entusiasmo per l’amore […] per il Capo» (lettera a G. Orsini del 12 giugno 1934, ibid., p. 217).
Ne ottenne in cambio gesti espliciti di stima, a partire dalla designazione nell’aprile 1927 quale unico delegato italiano a Vienna per le celebrazioni del centenario della morte di Beethoven. La dettagliata relazione che inviò al governo italiano evidenziava i suoi orientamenti estetici, che oscillavano tra l’avversione per il modernismo novecentista (si scagliava contro H. von Hofmannsthal e R. Strauss per aver osato presentare un arrangiamento di Le rovine di Atene di Beethoven) e il sentimento del primato inviolabile della tradizione operistica italiana (la rappresentazione della Serva padrona di G.B. Pergolesi fu l’unico evento che davvero lo entusiasmò).
Nell’ottobre 1929, alla costituzione della Reale Accademia d’Italia, fu insignito dell’ambito titolo e più tardi, nel 1934, ne assunse la vicepresidenza. Inoltre, prese parte a iniziative in campo operistico patrocinate dal regime, come il Carro di Tespi lirico, ideato e realizzato da Forzano, per il quale il 24 ag. 1930 a Torre del Lago diresse La bohème di Puccini.
Si sentì investito del ruolo di consigliere della politica culturale del regime in fatto di teatro lirico, tanto che la corrispondenza con Mussolini registra interventi in favore della riduzione del numero di spettacoli a vantaggio di una migliore qualità, oppure per il riordino della gestione e dell’amministrazione dei teatri, o ancora per promuovere la ristrutturazione del Costanzi.
Tuttavia, non sempre i suoi rapporti con le gerarchie furono buoni. Per esempio, nel 1934 venne escluso dalle celebrazioni ponchielliane che si tennero a Cremona per iniziativa di R. Farinacci, benché allievo prediletto di Ponchielli. Ma è soprattutto l’ala modernista della musica italiana, in quel tempo ancora sostenuta dal regime fascista, a essere oggetto dei suoi interventi polemici. Nel discorso tenuto nel 1929 all’inaugurazione del Congresso nazionale delle arti popolari (pubbl. in Propaganda musicale il 15 nov. 1929 col titolo M. contro il Novecentismo) accusò la musica contemporanea di oblio della tradizione e d’inclinazione verso il brutto, il ridicolo, il grottesco. Sortita che provocò in A. Casella una stizzita rivendicazione dell’interesse dei giovani compositori per il patrimonio nobile della tradizione musicale italiana, racchiuso nel canto gregoriano e nella produzione vocale e strumentale del Sei e Settecento (Lettera aperta a s.e. P. M., in L’Italia letteraria, 15 dic. 1929).
Nell’epoca in cui la contrapposizione tra musicisti reazionari e modernisti s’accentuava fino a sfociare nel dicembre 1932 nella polemica pubblica suscitata dal Manifesto di musicisti italiani per la tradizione dell’arte romantica dell’Ottocento, l’attività compositiva del M. decadde sempre più fino a spegnersi in un flebile canto del cigno, reso meno malinconico dall’aura di mondanità che circondava ormai ogni sua uscita pubblica.
Dopo aver riesumato la giovanile Pinotta al teatro del Casinò di San Remo il 23 marzo 1932, concluse finalmente il Nerone, tre atti di Targioni Tozzetti dalla «commedia» di P. Cossa, che andò in scena il 16 genn. 1935 alla Scala diretto dall’autore.
I temi, in quest’opera, risultano perfetti per assecondare i gusti di un regime che ormai si autocompiace delle lusinghe imperiali e ha abbandonato al proprio destino le istanze dei modernisti: la romanità e il sentimentalismo del soggetto, uniti al recupero della vena lirica spiegata della prima maniera mascagnana.
Nel 1940 il cinquantenario di Cavalleria rusticana fu celebrato in tutta Italia con una serie di importanti esecuzioni. Lo stesso M. incise l’opera in disco con i complessi del teatro alla Scala.
L’ultima sua composizione fu O Roma felix per voce sola e orchestra. Nella stagione 1943-44 chiuse definitivamente anche la carriera di direttore d’orchestra, proponendo all’Opera di Roma l’ennesima esecuzione di Cavalleria rusticana e L’amico Fritz.
Il M. morì il 2 ag. 1945 all’hotel Plaza di Roma divenuto sua residenza stabile dal 1927.
Il 4 agosto, ai funerali, fu presente una grande folla. La salma fu solennemente trasferita a Livorno nel 1951 per iniziativa del comitato cittadino costituitosi per onorarne la memoria.
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