Pietro Metastasio: Opere – Introduzione
La posizione del Metastasio è una delle più singolari che possa incontrarsi nella storia della cultura europea: quella di chi in un'altra arte ha esercitato un'azione ed ha avuto un'importanza non minori che nella propria. Basterebbe a confermarlo il fatto che, nella storia della musica, si possa parlare di un'«opera metastasiana»: ove la definizione viene spesso con favore accolta a preferenza di altre intese a determinare aree e cronologie di tipo stilistico-musicale. Né c'è da stupire ch'essa abbia assunto un'estensione ed una genericità in cui a volta a volta s'intrecciano, sino a confondersi, l'effettivo riferimento storico e la sfuggente figurazione di un mito. E, come suole avvenire in casi come questi, il mito è aperto agli equivoci, quanto più gli storici della poesia e della musica ad un certo punto fermano il discorso critico, come giunti ad un limite oltre il quale il campo non è più di loro competenza: cosicché, per onestà e per scrupolo, a vicenda si rinviano il proseguimento della ricerca.
In altre parole, tornano in discussione problemi di vitalità perenne, come quelli dell'indipendenza o della fusione delle arti e sopra tutto del rapporto fra poesia e musica, particolarmente acuto nell'ampiezza della proiezione drammatica, che a sua volta sembra intervenire non come sopraggiunta realizzazione scenico-teatrale, ma imporsi come una componente essenziale. A parte gli aspetti vari e complessi che confluiscono in una considerazione di natura estetica, e cioè filosofica, quei problemi e quei rapporti non raramente sono oscurati o deformati da impostazioni di teoria astratta o da motivi polemici che finiscono per ridurre in secondo piano la realtà storica.
Non c'è dubbio che nel caso del dramma metastasiano i problemi sono ancor più complessi, non solo considerati in se medesimi, ma in relazione al tempo storico in cui furono posti e dibattuti con un'ampiezza d'irradiazione che investe tutta la cultura europea del Settecento. Collocare il Metastasio nel ritmo di siffatte riflessioni teoriche, talvolta disinteressate e non raramente partigiane, equivarrebbe a delineare in breve un panorama di cui sarebbe assai difficile cogliere e semplificare le molteplici prospettive nello stretto intrecciarsi dei problemi di estetica generale e delle singole arti; per non dire addirittura fuor di luogo in uno scritto di carattere introduttivo e riassuntivo come il presente, inteso a ricordare alcuni principali aspetti del rapporto del poeta con l'esperienza musicale.
La difficoltà maggiore è di considerare il dramma metastasiano come opera in se stessa compiuta, poiché la qualificazione di «dramma per musica» non potrebb'essere più esplicita: come se la sua lettura fosse un mezzo e non uno scopo, un passaggio e non un arrivo, per giungere insomma a qualcosa ch'è al di là della poesia. Non può stupire che il Metastasio rivendichi la propria indipendenza di poeta, ogni volta che gli garbi prendere posizione nel gran dibattito del tempo ed esporre i suoi pensieri sulla natura della tragedia, sulla legittimità dell'opera in musica, sulla supremazia dell'una o dell'altra arte, sui conflitti e sulle incongruenze che potevano derivare da quel ch'era considerato il loro più o meno artificioso connubio, e via dicendo. Il Metastasio non ha dubbi sulla prevalenza della poesia sulla musica, più vivacemente illustrata in certi sfoghi contenuti nelle sue lettere; mentre le considerazioni esposte nell’Estratto dell'Arte Poetica d'Aristotile toccano dei rapporti fra le due arti sopra tutto per chiarire il significato di quei termini - metro, ritmo, armonia, melodia, modi - che separatamente o insieme valgono a indicare elementi comuni o analoghi delle «arti imitatrici». Ma tutto, nella realtà e nella pratica, sembra essere rimesso in discussione, giacché i drammi metastasiani si presentavano al giudizio e sopra tutto al godimento del pubblico nell'atto della rappresentazione e dell'esecuzione musicale. La percezione della poesia avveniva attraverso o contemporaneamente, come meglio si preferisca dire, all'intonazione musicale: il che per il Metastasio non significa ancora la perdita di un predominio. Ed allora eccoci di fronte ai difficili rapporti, ideali e pratici, del Metastasio con la musica: rapporti che sono stati lumeggiati e narrati nel percorso biografico dell'uomo e dell'artista, e che risultano poi assai meno semplici e confidenti di quel che a prima vista sembrerebbe.
Immerso com'era in un'atmosfera ricolma di musica ed obbligato a vivere in relazione continua col difficile mondo del teatro, non era possibile che il Metastasio non si lasciasse andare ad impazienze e risentimenti o addirittura intolleranze («Ho abbastanza esaminato il di dietro del teatro, e so assai bene quanto sconce, sudice e puzzolente siano quelle tele medesime che rapiscono di piacere e di meraviglia la credula e ingannata platea ...», ma talvolta ci sembra di cogliere l'eco di un mal dissimulato rancore. Non si tratta soltanto delle frequenti esperienze sul prepotere dei «musici», largamente intesi, ma di qualcosa che lo colpiva più a fondo nella sua suscettibile sensibilità di poeta. L'ammirazione e, più ancora, l'adulazione universale sembrano isolarlo, al di sopra delle contese, in una situazione privilegiata: certo, egli era sovrano nella sua arte, ma sempre o quasi costretto ad esser apprezzato ed esaltato attraverso la mediazione della musica, com'era pur trionfalmente avvenuto sin dalla rivelazione della Didone abbandonata. E questo era per lui motivo di delusione, di diffidenza, di cruccio. Non per nulla Riccardo Bacchelli, con risoluto giudizio, ne deduce «una innata disposizione misomusicale».
Della musica il Metastasio ebbe a suo modo conoscenza diretta, tale da consentirgli l'esame immediato di taluna composta su suoi versi («Non ho avuta la tolleranza di aspettar un maestro di cappella ed i necessari violini: sono andato trimpellando subito il cimbalo da me medesimo e canticchiando sotto voce come una zanzara ...; ma ne ho pure decifrato tanto che basta per figurarmi qual debba essere non defraudato de' suoi accompagnamenti e cantato da persona meno inesperta», lettera del 16 dicembre 1754). Di più, egli era in grado di inventare melodie per le proprie rime e le testimonianze riguardano la celebre Libertà, a Nice («Quella che si canta è la mia, con la quale è nata … Pregate quelle signorine di non deciderne finché non l'abbiano provata più volte, perché la maniera di cantare la rende assai tollerabile ...», lettera del 29 agosto 1739); la Palinodia, che nell'invio alla contessa di Sangro, 15 aprile 1747, viene presentata come «cosa rara a' tempi nostri essendo musica d'un poeta»; e la canzonetta Ecco quel fiero istante che al fratello Leopoldo il poeta consiglia di chiedere «se la volete legittima ... al signor Jommelli maestro di cappella di S. Pietro, ed egli ve ne darà anche la musica ch'io ci ho fatta», lettera del 27 aprile 1750. Ma la testimonianza più significativa è quella offerta in un passo della lettera del 21 febbraio 1750: «Sa già Vostra Eccellenza ch'io non so scriver cosa ch'abbia ad esser cantata, senza (o bene o male) imaginarne la musica. Questa che le trasmetto è stata scritta su la musica che l'accompagna. È musica per verità semplicissima: ma pure, quando si voglia cantar con quella tenera espressione ch'io ci suppongo, vi si troverà tutto quel che bisogna per secondar le parole. E tutto quello che vi si aggiungerà di più ricercato potrà forse produrre maggiore applauso al musico; ma produrrà certamente minor vantaggio all'amante».
Queste notizie sono offerte nel tono di amabile noncuranza così frequente nell'epistolario metastasiano anche in più gravi argomenti, e naturalmente lasciano in noi la curiosità di quelle melodie scritte come assimilazione e risonanza di musiche accolte da una sensibilità pronta e genuina: quella di chi tuttavia apertamente riconosceva di non essere «musico se non quanto basta ad un poeta» (lettera del 26 agosto 1747). Del Metastasio, che fu educato alla musica dal Porpora per incarico della Romanina, abbiamo del resto una raccolta di trentasei canoni a tre voci che per la natura della composizione attestano una certa conoscenza tecnica accompagnata ad una musicalità semplice e disadorna; mentre la notizia di arie sciolte e coro con sinfonia a noi non pervenuti, prolunga l'interrogativo sulle qualità propriamente inventive del poeta che Aurelio de' Giorgi Bertola, per le tre canzonette a Nice, riassumeva in «una musica facile e gentile».
Dalle testimonianze dirette e indirette, quasi tutte ben note e commentate, il Metastasio «musico» era senza dubbio un conservatore, talvolta mal disposto, più spesso francamente ostile a tutto quel che nella musica sembrava discostarsi, non dico da una problematica tradizione, ma più semplicemente dal suo gusto; il quale ci apparirebbe stranamente statico nel corso di così lunga esperienza, se non fosse di un poeta che nella stessa sua arte non conobbe svolgimenti o rivolgimenti essenziali. Era un gusto, per sua indole e necessità insieme, rimasto naturale ed istintivo, cui le successive occasioni di confronti con la realtà in moto recavano la conferma dei princìpi sui quali era poggiato; ogni diversa esperienza, più che arricchire, turbava la sua coscienza: il suo non poteva essere che l'«ottimo gusto della vera musica» (lettera del 17 marzo 1753) e quindi ostinato a respingere tutto quel che gli fosse disforme.
Per altre ragioni dunque che quella artistica, il nostro interesse sarebbe ovviamente eccitato dal riascoltare anche una sola intonazione metastasiana: sopra tutto per il modo col quale egli concepiva il passaggio o trasfusione dal suono della poesia a quello della musica o viceversa, verificando le qualità e la resistenza dei suoi versi e delle sue strofe nell'immersione in una melodia da lui stesso modellata. Era sostanzialmente una prova che riguardava la tempra del verso in una sorta di analisi immediata dell'articolazione interna vista attraverso la trasparenza, non certo la densità dell'espressione sonora: come un'insostituibile esperienza personale della resistente «musicalità» della poesia, che gli ascoltatori, nei suoi valori avvincenti e nei suoi giochi sottili, trovavano più difficile da percepire, in sala e sopra tutto in teatro. Qui finivano per prendere il sopravvento la vaghezza, l'eleganza, la destrezza con le quali le situazioni sentimentali e drammatiche venivano addensate e disciolte.
Si pensi che cosa questo significhi per un poeta dai sensi ormai tediati e viziati dalle innumerevoli intonazioni che portavano a mutevoli trattamenti del testo; il quale ne usciva, per le mani di tanti compositori mediocri e minori, per così dire disintegrato nel suo valore poetico, logorato da una ripetizione mnemonica che ormai ignorava, o peggio contaminava, la dizione originaria, quella cioè che la virtù poetica fa risorgere nel lettore come una nuova fresca creazione.
Nel secolo che forse più d'ogni altro ha esaltato per una dolcezza di universale gradimento la vocalità e la cantabilità della musica, non può meravigliare che il poeta, a sua volta esaltato come il massimo rappresentante di quell'ideale trasfusione, fosse geloso della «musicalità» originaria e costitutiva della propria poesia. Quali riserve nascano dall'uso, proprio o metaforico, di questo termine, ancor troppo sovente scambiato per «sonorità», può essere mostrato non in un senso generale, ma ogni volta secondo il mutare del temperamento del poeta e delle situazioni storiche. È doveroso ricordare che un'interpretazione rigorosa è stata svolta dal Flora in pagine penetranti, in cui egli sostiene che «il luogo comune della musicalità metastasiana dev'essere capovolto». Il Metastasio «fu nell'arte della parola teatrale quel che i virtuosi nel canto: ebbe la rara virtù dei passaggi senza fatica, e l'indifferenza vocale per la retorica materia trattata ... Fu poeta per musica, proprio perché non riuscì a risolver nel verso la propria melodia. Limpido, esatto, metrico, egli non fu veramente musicale». A noi tocca piuttosto di tener conto del permanente disagio in cui venne a trovarsi il Metastasio per non poter essere, nonostante la sua disposizione naturale, il compositore dei propri drammi: sino alla contradizione, per lui acuita e forse mal tollerata, di aver accettato di scriverli non per la propria poesia, ma per la musica degli altri.
Quando il Metastasio parla della migliore riuscita della rappresentazione senza musica dei suoi drammi, vuol riportare l'attenzione al centro vitale della sua opera, anche nella prospettiva della realizzazione scenica. Ma nonostante qualche dispersa veduta di regìa, purtroppo non ci illumina su fatti e modi essenziali per intendere il suo ideale, la sua concezione interpretativa: i pochi accenni restano generici, non prescrivono e nemmeno suggeriscono quelle esigenze d'esecuzione che sogliono dirsi di tecnica, ma nascono dal prendere coscienza dell'arte nell'intimo processo del suo farsi.
Per questo importante aspetto sembra sottinteso l'abbandono all'estro dell'attore, che il Metastasio continua a valutare anche nel cantante che porta al trionfo immediato i suoi drammi; ma oltre all'estro egli avrà certamente mirato ad accertare con sensibile orecchio la capacità dell'attore-cantante a rendere la preminente efficacia della parola articolata nel suono. Nella nota lettera del 15 luglio 1765 al cavaliere di Chastellux, così importante per l'esposizione delle proprie idee, il Metastasio esplicitamente scrive: «Quando la musica... aspira nel dramma alle prime parti in concorso della poesia, distrugge questa e se stessa ... I miei drammi in tutta l'Italia, per quotidiana esperienza, sono di gran lunga più sicuri del pubblico favore recitati da' comici che cantati da' musici, prova alla quale non so se potesse esporsi la più eletta musica d'un dramma, abbandonata dalle parole». Sorvolando su quest'ultima impossibile alternativa, pur rivelatrice dei veri umori del poeta, non può sfuggire il tono perentorio con cui è messa in rilievo l'indipendenza creativa ed esecutiva dei drammi, che per sé soli offrivano frequenti occasioni di lusinghieri confronti da parte dei contemporanei con quelli di Corneille e di Racine. E pertanto importa rilevare che, al fine dell'esecuzione senza musica, egli aveva tenuto in maggior equilibrio le parti poi musicalmente usate come «recitativo» e quelle usate come «arie». In questo seguiva lo Zeno nel suo disegno di svincolare le prime dalla superiorità espressiva conferita alle seconde, che sempre più s'era venuta imponendo nella seconda metà del Seicento e poi ancora accresciuta con l'approfondirsi di una frattura destinata a minare l'unità organica dell'opera seria.
La mancanza di precise indicazioni sullo stile della rappresentazione ci lascia nel dubbio che nel Metastasio s'insinuasse la convinzione che la recitazione dei comici fosse, non so se più ricca, mobile ed intensa, ma artisticamente superiore all'intonazione musicale. In tal caso si avrebbe un singolare capovolgimento del rapporto, se addirittura il poeta fosse tratto a pensare che l'intonazione musicale, in certo modo fissando una versione melodicamente univoca, togliesse al testo il valore determinante rispetto alle virtualità interpretative; le quali nell'età romantica acquisteranno poteri germinali e misteriosi, che il Metastasio s'accontenta di ricondurre all'ordine di una costante verifica razionalistica. Al pari di tanti suoi contemporanei, letterati e teorici, egli affida alla poesia il compito supremo dell'«espressione dell'affetto», che secondo la dottrina dominante del secolo la musica può immergere in un'atmosfera più dolce o vibrante, in gradazioni di coloriti aggiunti al disegno: ma ove questo, giusto secondo le parole indirizzate al Chastellux, può sostenersi e significare da solo, non viceversa. Con che non viene radicalmente negata la qualificazione di «dramma per musica», ma con accondiscendente intenzione conciliatrice velato il contrasto fra atteggiamenti e pensieri disformi se non contradittori.
Le notizie che abbiamo sono indirette e per così dire in direzione inversa: non dall'attore al cantante, ma da questo a quello. Una testimonianza di G. B. Mancini, trattatista insigne che nel 1777 pubblicò a Milano le Riflessioni pratiche sul canto figurato, mette in rilievo la necessità per il cantante di essere ben addestrato nella recitazione e nell'azione. Per la prima, in un capitolo egli mostra perché «non è … la sola bellezza ed agilità di voce, che distinguono con singolarità un artista, ma anche un eccellente modo di recitare» (p.218); per la seconda «le regole generali vengono dettate dai maestri; le particolari s'imparano dalla pratica, dall'osservare gli altri valenti attori, e dall'istruzione di qualche intendente, consultato sopra quel preciso caso, in cui occorre qualche particolare azione, o gesto» (pp. 246-7) e fra i nomi citati di questi «intendenti» «il nostro celebre Metastasio a' giorni nostri in Vienna; e quanto egli sia capace in quest'arte, ce lo dimostrarono chiaramente la Sig.ra Teresa de Reuter, ed Angelo Maria Monticelli, che sì bene appresero, ed eseguirono le di lui istruzioni» (p. 247).
Può darsi ed è anzi probabile che il Metastasio abbia conosciuto quel che Louis Racine racconta nelle memorie sulla vita di suo padre a proposito della recitazione della Champmeslé, alla quale il grande tragico francese «dictait les tons, que mème il notait»; cosicché il sagace Lulli, trasferendo nel proprio recitativo musicale l'ideale della declamazione tragica raciniana, riassumeva il suo desiderio in una battuta famosa: «Si vous voulez bien chanter ma musique, allez entendre la Champmeslé». La Champmeslé del Metastasio fu la cantante Bulgarelli, la quale, dice il Mancini, «si rese celebre . . . perché era ottima attrice, ed era la Comica (scil. arte) sua così perfetta, che meritò per fino, che l'immortale Abate Metastasio scrisse appostatamente per lei, la Didone» (p. 233). Orbene, quando il poeta scriveva i drammi vagheggiandone la musica, che altro faceva se non prefigurare una dettatura ideale dell'intonazione più confacente?
La scarsezza estrema di notizie sulla rappresentazione senza musica dei drammi metastasiani indurrebbe a credere che si trattasse di caso assai infrequente: e la conferma ci giunge ancora dal Mancini che racconta come Gaetano Casali, il capocomico ricordato dal Goldoni, deluso per l'insufficiente guadagno ricavato dalle recite delle solite commedie, sperò di riportarlo dalle rappresentazioni delle opere del Metastasio. «Nacque impensatamente il caso, che non ebbe incontro la prima rappresentazione in Musica dell'Artaserse nel Teatro di S. Giangrisostomo. L'accorto Casali espose la mattina seguente nel cartello, che dalla sua Compagnia verrebbe quella sera recitato lo stesso Artaserse. Vi accorse a folla il popolo, condotto piuttosto dalla curiosità d'una cosa insolita, che dalla speranza di riuscita. Ma rimase sopraffatta, e convinta Venezia, poiché quegli attori seppero sì ben caratterizzare col solo gesto, e recitativo parlante que' personaggi, che rappresentavano, che ne riportarono l'universale applauso, ed a tal segno, che furono obbligati a replicare con molte recite l'Opera stessa» (p. 235).
Ed allora c'è da chiedersi se il Metastasio, proprio all'interno delle chiusure metriche del verso, non lavorasse sottilmente ed un po' a freddo la parola per indicare all'attore prima che al cantante (anche se riuniti poi nella stessa persona) la modulazione della voce in quel gioco di sospensioni, di arresti, di riprese indispensabili per interrompere, deviare e variare il flusso dell'«espressione dell'affetto» che tendeva ad una troppo cadenzata risoluzione simmetrica. La ristrettezza dello spazio strofico delle brevi quartine fa pensare ad un'interna varietà melica delle parole virtuosamente cercata dal Metastasio per attenuare od evitare la tendenza del verso a disindividualizzarsi e scorporarsi nel rapido schema metrico più sensibile nella sua chiusura tronca e per restituire nella viva fluente dizione della voce la libera coerenza della linea ritmica.
Così operando il poeta stesso finiva per aprire la poesia ad un'aspirazione musicale quando alla razionalistica precisione dell'immagine, alla chiarezza del pensiero nitidamente espresso preferisce la sospensione, con poche parole evasive preannuncio dello sgomento sentimentale del personaggio che si rifugia nel silenzio, che si salva nell'assenza. È in realtà una tensione sospensiva finemente calcolata dal poeta che esclude, perché inammissibile alla propria sensibilità, qualsiasi tono di violenza. L'ultima parola pronunciata prima dello spezzarsi della frase non è resa incompiuta dall'interruzione, ma vuol rimandare e non chiudere lo scioglimento della situazione, talvolta proprio abusando di un evasivo trasferimento alla parola di quel quid indefinito che metaforicamente suol dirsi musicale: sopra tutto quando il Metastasio teme, per dirlo in termini moderni, che alla propria intelligenza sfugga «le pouvoir d'immobiliser l'émotion dans le langage, sans la tuer». Ma sempre il poeta vagheggia di conservare al testo il suo valore preminente nella tenuità della melodia, appena sensibile nel vago contorno trasparente di un disegno leggermente disteso nei colori di un acquarello.
Il Metastasio non era temperamento tale da considerare i propri testi aperti ad una libera interpretazione e nella famosa lettera allo Hasse mostrava com'egli intendesse la collaborazione del poeta col musicista. Assai meno o per nulla si preoccupava dei compositori mediocri e minori, che non potevano certo essere i meno numerosi; l'evidenza del testo nelle diverse intonazioni non escludeva in senso assoluto una polivalenza espressiva, ma una disponibilità «librettistica» del resto inutile alle musiche edonistiche, spersonalizzate, trascorrenti nella vibrazione sonora in cui subito si spegnevano. Tutto conferma che nulla era più lontano dal Metastasio di una concezione drammatica che sollecitasse la creazione di musiche disformi da uno spirito congeniale o tanto meno ammettesse una libertà per così dire dionisiaca dell'ispirazione. Sono favolosamente lontani i nietzschiani tempi a venire, ma persino quelli goethiani pur così legati allo spirito apollineo della poesia, in cui tuttavia il demonico era la balenante, intravista premessa di una germinazione musicale da certe insondate e pur avvertite profondità dell'animo umano. Il Metastasio curava che nei suoi drammi il valore o più semplicemente la funzione emotiva dei suoni fosse vigilata da un senso innato o da una volontà acquisita di ridurli ad un'armonia di sillabe disposta nel limite stretto della strofe in modo da anticipare, per contenerla e guidarla, ogni aggiunta musicale successiva. Priva di canti e di suoni musicali com'era pervenuta la tragedia greca, egli l'ammirava in una personale ed approssimativa visione, poiché a lui premeva che la musica non recasse un turbamento capace di alterare l'ordine, la chiarezza di espressioni «purificate» dalla ragione.
Il Metastasio, in un passo fantasioso dell'Estratto citato, tenta di giustificare la preferenza per l'aria, come erede musicale del coro antico: «Or che altro son mai le ariette de' nostri drammi musicali, se non se le suddette antiche strofe? E perché mai tanto si grida contro queste visibili e patenti reliquie del teatro greco?». Cosicché sembra ch'egli accetti e difenda il mutamento avvenuto nella pratica operistica riconoscendo, proprio lui drammaturgo, la supremazia dell'aria sul recitativo: «La considerabile differenza che corre fra coteste due musiche si rende sensibilissima ne' recitativi e nelle arie de' nostri presenti drammi musicali; poi che limitandosi per lo più l'arte ne' recitativi alla sola cura di contenere le voci fra i confini dell'armonico sistema, lascia ad esse campo assai libero per imitar cantando le modificazioni del parlar naturale: onde hanno tanto i recitativi dall'arte, quanto basta per esser musica, ma non tutto quello che bisognerebbe per meritare il nome di melodia. Or cotesta musica istessa, che non è ne' recitativi se non se sola e semplice armonia, cangia nome, e melodia diventa quando, spiegando l'arte tutte le sue facoltà, l'adorna con le sempre nuove, artificiose, periodiche combinazioni di movimenti e di tempi, le quali ritmi o numeri si chiamano, e compongono le innumerabili idee, motivi e soggetti delle arie, che tutte distinte fra loro hanno per la varietà de' tempi, come le fisonomie de' volti per la varietà de' tratti, proprio, riconoscibile e differente carattere».
A confronto delle idee metastasiane è utile riferire una testimonianza del grande Tartini, per esteso recata dal Mancini, a proposito di un'esperienza del 1714, sull'effetto poi sempre riconfermato nelle successive esecuzioni, di «una riga di recitativo non accompagnato da altri strumenti» per cui «tanto in noi professori, quanto negli ascoltanti, si destava una tale, e tanta commozione di animo, che tutti si guardavano in faccia l'un l'altro per la evidente mutazione di colore, che faceva in ciascheduno di noi. L'effetto non era di pianto (mi ricordo benissimo, che le parole erano di sdegno) ma di un certo rigore, e freddo nel sangue, che di fatto turbava l'animo». Mirabile compensazione ideale: il poeta più attento al valore musicale dell'aria, il compositore al valore espressivo del recitativo. Ma in realtà la concezione metastasiana risulta di più delicata e complessa interpretazione.
Innumerevoli notizie e testimonianze attestano che il punto dolente era in quel tempo costituito dal recitativo, in particolar modo quello teatrale «che, per essere inesorabilmente accompagnato dall'azione del cantante, obbliga il maestro d'istruir lo scolaro d'una certa imitazione naturale, che non può esser bella, se non è rappresentata con quel decoro col quale parlano i principi, e quegli che a' principi sanno parlare». Chi scrive queste parole è un altro musico pratico, Pier Francesco Tosi, autore di un importante trattato Opinioni de' cantori antichi e moderni pubblicato a Bologna nel 1723, scritto con una vivacità che significa la vittoria dell'esperienza viva ed appassionata sulle astrazioni dei teorici. Si legga come la situazione viene efficacemente còlta in un passo ch'è necessario riportare nel suo movimento concitato: «Sono senza numero i difetti, e gli abusi insoffribili, che ne' recitativi si fanno sentire e non conoscere da chi li commette. Procurerò di notarne diversi teatrali, acciò il maestro possa emendarli. V'è chi canta il recitativo della scena come quello della chiesa o della camera. V'è una perpetua cantilena che uccide. V'è chi per troppo interessarsi abbaia. V'è chi lo dice in segreto e chi confuso. V'è chi sforza l'ultime sillabe e chi le tace. Chi le canta svogliato e chi astratto. Chi non l'intende e chi noi fa intendere. Chi lo mendica e chi lo sprezza. Chi lo dice melenso e chi lo divora. Chi lo canta fra i denti e chi affettato. Chi non lo pronunzia e chi non l'esprime. Chi lo ride e chi lo piange. Chi lo parla e chi lo fischia. V'è chi stride, chi urla, chi stuona. E cogli errori di chi s'allontana dal naturale, v'è quel massimo di non pensare all'obbligo della correzione». È un elenco di «difetti» che per ogni stile in vario modo possono ritornare in ogni tempo; ma qui, in una precisa situazione storica, si ricordava la necessità di nuovamente riconoscere il recitativo come modello primo della naturalezza dell'espressione, per riportarlo all'alta dignità espressiva per la quale era stato «inventato» alle origini del dramma musicale secentesco ed in confronto alla quale ormai troppo in basso era disceso.
L'esigenza di un pronto ritorno a quella dignità ispirata all'antica tragedia greca era in modo chiaro e conciso riassunta, per addurre un solo esempio, in un passo del Saggio sopra l'opera in musica (1755 e 1762) dell'Algarotti: «Il recitativo era vario, e pigliava forma ed anima dalla qualità delle parole. Correva talvolta con rapidità eguale al discorso; tale altra procedeva lentamente, e faceva sopra tutto bene spiccare quelle inflessioni, e quei risalti, che la violenza degli affetti ha forza d'imprimere nell'espressione. Lavorato a dovere era udito con diletto; e si ricordano ancor molti, come certi tratti di semplice recitativo commovevano gli animi dell'udienza in modo, che niun'aria a' giorni nostri ha saputo fare altrettanto». A tal risultato erano riusciti «gli studj de' passati Maestri», ma ora la situazione era assai mutata: il desiderio di quel ritorno nasceva dalla nostalgia di un felice tempo perduto.
Nella seconda metà del Seicento e particolarmente nell'opera veneziana, in quel tempo preminente con i suoi libretti che miravano ad effetti grossolani congiunti agli artificiosi intrichi dell'azione, la declamazione d'alta intonazione s'era svuotata di vigore musicale ed assottigliata a certi limiti estremi nel cosiddetto recitativo secco. Com'è noto, questo consisteva in una recitazione del cantante seguita dal maestro al cembalo con una sorta di rada interpunzione di accordi e cadenze elementari e schematici, che nel caso frequente di una sommaria ed improvvisata esecuzione non potevano non risultare logori e convenzionali. Correlativamente a siffatto impoverimento aveva per contrasto preso gran rilievo l'invenzione melodica già configurata nell'aria, sempre più sulla via di diventare scopo a se stessa; questo distacco fra un testo frettolosamente e distrattamente recitato ed un testo smarrito ed irriconoscibile nell'effusione doviziosamente sonora, era diventata la prova anche troppo vistosa di una prevalenza, come presto fu detto, del senso sullo spirito e dell'elemento ambiguamente definito «musicale» su quello drammatico. Sotto la spinta delle reazioni avverse a quel distacco s'era venuto affermando un altro tipo di recitativo, quello accompagnato dagli strumenti, scritto dal compositore e pertanto detto «obbligato»: con un suo andamento ad inflessioni melodicamente più articolate ed «ariose», esso sembrava gettare un ponte verso la musica allo scopo di recuperare l'impegno drammaticamente espressivo ch'era andato perduto nell'inefficienza del recitativo secco. «Una qualche commozione pare che cagioni presentemente il recitativo, quando esso sia obbligato» così proseguiva il passo dianzi citato dell'Algarotti: «E forse non disconverrebbe, che una tale usanza si facesse più comune ancora ch'ella non è. Qual calore, e qual vita non viene a ricevere infatti un recitativo, se là dove si esalta la passione sia rinforzato dall'orchestra, se ogni sorta d'arme, per così dire, assalga il cuore ad un tempo, e la fantasia? Non se ne può dare a mio giudizio la più manifesta prova, quanto adducendo in esempio la maggior parte dell'ultimo atto della Didone del Vinci, che è tutta lavorata a quel modo. È da credere che se ne sarebbe compiaciuto lo stesso Virgilio, tanto è animata, e terribile. Un altro buon effetto seguirebbe da simile usanza; che non ci saria allora tanta la gran varietà, e disproporzione tra l'andamento del recitativo, e l'andamento delle arie, e verrebbe a risultarne un maggior accordo tra le differenti parti dell'Opera. E già non pochi debbono essere stati più di una volta offesi a quel subito passaggio, che si suol fare da un recitativo andantissimo e liscio a un'arietta delle più lavorate e composte».
La citazione di un musicista dai contemporanei riconosciuto come tipicamente «metastasiano» chiama direttamente in causa il poeta, il quale non al Vinci, ma allo Hasse aveva avuto occasione di chiarire in proposito il suo pensiero. Con una lieve, ma ben sensibile ombra di resistenza il Metastasio s'era indotto a consentire un uso cauto e discreto: «Per venire poi, come voi desiderate, a qualche particolare, vi parlerò de' recitativi che, secondo me, possono essere animati dagl'istrumenti; ma io non pretendo accennandoveli di limitare la vostra libertà» e tuttavia, con l'abituale puntigliosa precisione, aveva indicato e motivato (e persin descritto gli effetti che se ne attendeva) i «siti ne' quali gl'istrumenti possono giovarmi» in alcune scene dell'Attilio Regolo. «Dove il mio concorre col voto vostro, vaglia per determinarvi; ma dove siete da me discorde non cambiate parere per compiacenza» aveva con amabile condiscendenza premesso; e tuttavia, con piglio autorevole se non perentorio, ancora una volta aveva finito per cedere la parola a quel nascosto Metastasio musicista interprete fedelissimo del Metastasio poeta, che la sorte non aveva concesso di fondere in una sola figura - quella idealmente vagheggiata di un drammaturgo musicale.
Il Metastasio era a fondo persuaso della necessità di una diversa funzione espressiva del recitativo e dell'aria, in cui egli mirava ad armonizzare le ragioni dell'intelligenza con quelle della sensibilità. Così, non può meravigliare che fra i due tipi di recitativo la sua preferenza andasse al recitativo secco, perché, come s'è visto, lascia alle voci «campo assai libero per imitar cantando le modificazioni del parlar naturale». Rigorosamente legato al rilievo della parola, esso era congeniale all'elemento razionalistico del suo dramma, in quanto indicava le lucide premesse della situazione; cosicché attraverso la chiarezza degli endecasillabi e dei settenari eleganti e snodati nelle battute dialogiche si preparava e si addensava la tensione che conduceva l'arte metastasiana a trovare il compimento nell'espressione risolutiva delle arie.
Già il Tosi aveva osservato che lo scadimento del recitativo secco «non sempre procede dalla insufficienza de' maestri, né dalla trascuraggine de' cantanti, ma dalla poca intelligenza di certi compositori moderni, i quali (a riserva de' meritevoli) li concepiscono così privi di naturale e di gusto, che non si possono né insegnare, né agire, né cantare». Quando si presentò l'occasione, secondo l'attestazione del Mancini, il Metastasio s'impegnò direttamente in un insegnamento pratico per concorrere al processo della rigenerazione del recitativo; ma è pur vero ch'egli considera le arie come i momenti risolutivi del suo «dramma per musica» ed in esse riconosce quei caratteri propri e diversi che consentono di distinguerle «come le fisonomie de' volti per la varietà dei tratti». E nella lettera allo Hasse, inducendosi «a spiegare i caratteri» dell'Attilio Regolo. dopo la descrizione dei personaggi puntualmente ribadisce: «Queste sono in generale le fisonomie che io mi era proposto di ritrarre» e subito soggiunge: «Or tocca a voi … l'abbigliare con tal maestria i miei personaggi che, se non da' tratti del volto, dagli ornamenti almeno e dalle vesti siano distintamente riconosciuti». Ove crudamente al «non meno eccellente artefice che perfetto amico» ricorda che, seguendo la delineazione dei volti da parte del poeta, il musicista debba concorrere al riconoscimento dei personaggi mediante l'aggiunta di tratti complementari convenienti alla loro fisonomia. Dunque, è di fondamentale importanza ribadirlo, anche nella pienezza musicale delle arie il Metastasio suggeriva, o meglio vagheggiava, una dizione lieve che meglio disponesse intorno alla parola un'atmosfera sonora limpida e pura nella quale ancora continuassero a vibrare i sentimenti e le immagini evocati dalla poesia.
A questo principio essenziale il Metastasio rimane sempre fedele senza perplessità e senza ripensamenti; nell'equilibrio fra recitativo ed aria, almeno proposto come ideale, quel che poteva risultare come un trasferimento del peso di gravità espressivo nell'aria, era perentoriamente condizionato dai motivi fondamentali di una precisa concezione personale. E cioè nell'intangibile unità poetica del dramma il rapporto fra recitativo ed aria era determinato dalla diversa natura e funzione loro assegnata dal poeta, non alieno dal riconoscere al primo quella particolare «musicalità» da molti teorici del Settecento ravvisata come originario elemento comune al canto ed al linguaggio parlato. Così il recitativo secco, sulla scorta del discorso poetico, rientrava nell'unità dell'espressione musicale, se il compositore coglieva e realizzava le possibilità primamente offerte dal testo poetico mediante la viva articolazione delle inflessioni ritmiche, cadenzali e melodiche.
Soltanto i musicisti più dotati e consapevoli intesero la coerenza unitaria della concezione metastasiana; la grande maggioranza trascurò, od ammise in modo meramente esteriore e formalistico, di riconoscere al recitativo la particolare funzione proposta dal poeta. La conseguenza, assai grave per la dignità dell'opera seria, fu l'attenuazione o addirittura la rinuncia di quella finalità drammatica al cui recupero miravano teorici e musicisti, sia pure con motivi e ideali diversi.
E l'«opera metastasiana», proprio contro la concezione del poeta, finì per diventare ai moderni il simbolo del cedimento del dramma di fronte alla musica; mentre il Metastasio aveva del proprio «dramma per musica» una visione ben diversa fondata su di un difficile equilibrio poetico-musicale ch'egli soltanto avrebbe potuto idealmente realizzare. Il testo metastasiano concede, più che un compimento, un prolungamento musicale a venire, ma di questo il poeta d'altra parte diffida, al pensiero che la melodia integratrice offuschi, disperda ed annulli la preminente linea conduttrice del verso. Se si tiene presente questo, si può comprendere come il valore espressivo del dramma per lui dovesse prendere il sopravvento sull'antitesi irriducibile recitativo-aria, avvolta in un'inestricabile confusione fra disformi realtà di fatto e non meno mutevoli illusioni di mito. Nell'unità poetica del dramma metastasiano è dato cogliere come una sorta di superamento di quell'antitesi, secondo la quale troppo rigidamente il primo dei termini non poteva significare che svolgimento dell'azione, il secondo l'indugio sull'effusione lirica; ossia di momenti resi impermeabili e dissociati l'uno dall'altro.
Al Metastasio fu invece ascritta la responsabilità d'aver favorito l'inclinazione dei compositori, correlativa al gusto del pubblico, a liberarsi del recitativo come di un fastidioso intralcio all'immediato e non di rado autonomo sfogo del loro inventivo estro melodico. Il biasimo era aggravato da una colorazione moralistica perché in tal modo sembravano altresì favoriti i cantanti che nell'aria avevano lo strumento ormai unico per il trionfo, ad un tempo, della loro arte e della loro vanità.
Con la frattura rigorosa da parte dei compositori tra recitativo ed aria, l'opera seria si frantumava in un mosaico di arie fra le quali lo spazio neutro del recitativo che le separava l'una dall'altra concorreva a rilevarne l'isolamento, cosicché risultava inasprito l'irrigidirsi formalistico della struttura melodrammatica. Nell'opera comica invece la recitazione era vivificata dal gioco sciolto ed estroso dell'attore-cantante felice erede e continuatore della tradizione della commedia dell'arte, maestra all'Europa della più comunicativa ed avvincente arte scenica: ove non solo il dinamismo d'azione e d'espressione metteva in rilievo l'efficacia del recitativo, ma esercitava un riflesso benefico sulle arie medesime che risultavano più semplici e libere, mobili e pertinenti, assai spesso pregiate e additate a modello per quel «naturale» e «verisimile» ch'erano una delle passioni del tempo.
Con la preminenza assegnata dai compositori all'aria in un modo pressoché assoluto più o meno candidamente desunto o giustificato dalle stesse suggestioni metastasiane, quella forma finì per riassumere tutta la gloria e tutta la decadenza dell'opera italiana del Settecento. La storia di questa, oltre le utili ed accertate indicazioni sinora raccolte, è per gran parte in attesa di una ricerca impegnativa e sistematica che troppi autori e centri artistici e teatrali attendono da gran tempo. Sui risultati di quella ricerca si fonderanno l'interpretazione e la valutazione critica, sinora impostate su linee che già risultano, non soltanto approssimative, ma condizionate da prospettive non corrispondenti alla realtà di situazioni e problemi diversamente lumeggiati da accertamenti di recente avviati con più concreto e aderente senso storico.
Un esempio significativo di un diverso apprezzamento ci è offerto proprio nei riguardi dell'aria, sinora per lo più presentata e giudicata come la prova di un'autonomia musicale scopo a se medesima, intollerante d'ogni elemento che potesse in altro modo partecipare e concorrere alla creazione dell'opera seria. Orbene, nel «puramente musicale» s'è cominciato ad intravedere, anche da qualche studioso straniero, un diverso aspetto e significato dell'espressione in un contesto artisticamente legittimo: quasi a testimoniare la liberazione dagli eccessi di una drammaturgia e di una psicologia, non raramente intese come valori superiori a quelli musicali, in cui entrambe devono per necessità giustificarsi e risolversi. E forse la diversità di gusto più facilmente atta a trasformarsi in opposizione e rifiuto è la concezione di un dinamismo drammatico e psicologico che il romanticismo ha posto in primo piano nelle individuazioni irripetibili dei personaggi e delle situazioni, sottoposti ad uno svolgimento continuo, da cogliere ed esprimere nel loro ininterrotto divenire. Questa esigenza deforma, anzi impedisce la comprensione del dramma metastasiano, al cui prestigio corrispondeva una certa accettazione di limiti da parte dei compositori, i quali di volta in volta nell'aria conclusiva della scena erano indotti a riassumere il momento dominante. Alla proposta del poeta toccava al compositore rispondere ovviamente nella libertà della propria reazione personale; ma non c'è dubbio ch'essa attestava una spontanea adesione all'impostazione del testo metastasiano, che nei casi maggiori si manifestava con una congeniale disposizione di spirito: salvo, come s'è detto, ad accentuare una risoluzione musicale istintivamente, e non programmaticamente, più sciolta dagli espliciti presupposti unitari cui s'ispirava la concezione poetica metastasiana.
A questo proposito occorre rimettere nel più acuto rilievo il fatto singolarissimo che, mentre le innumerevoli intonazioni si susseguono rapidamente in una vita effìmera che conosce poche eccezioni - e forse tra le più significative è quella dell'Artaserse di Leonardo Vinci -, il testo metastasiano continua ad esercitare per decenni il suo alto prestigio. E quando, più vicino alla prima rappresentazione, la stessa opera musicata è portata su altre scene, non di rado viene sottoposta a notevoli modificazioni sopra tutto in relazione al tipo delle voci degli esecutori. Cosicché, col diffondersi di questa consuetudine, sembra che le costellazioni musicali nuove o modificate ruotino intorno alla stella fissa del testo metastasiano. Non è dunque da sottovalutare questo fatto certamente unico nella storia dell'opera, in cui le intonazioni sullo stesso testo si contano a centinaia; non solo dal punto di vista pratico e di costume, ma sopra tutto per lo scarso o nullo rilievo che la novità dell'argomento drammatico aveva per il compositore medesimo e per il pubblico, pur se a quest'ultimo accadeva di ascoltare, per il suo stesso rinnovarsi col ritmo delle generazioni, soltanto qualcuna delle molte intonazioni eseguite in Italia e fuori per lo più nei teatri e centri artistici maggiori.
Cambiavano i cantanti, le scenografie, i costumi, i balli e persino i modi dell'esecuzione in rapporto alle modificazioni subite dalle musiche: era come una continua, insaziabile richiesta di novità anche da parte di chi non era in condizione d'istituire confronti fra le differenti versioni; era come un rifrangersi nelle più diverse luci e nei più diversi luoghi ed ambienti dell'irradiazione centrale metastasiana. E soltanto in relazione a questi fatti, qui appena accennati ma innumerevoli e di varia natura, meglio si comprende come il poeta potesse con verità sostenere la compiuta autonomia della recitazione dei propri drammi, questa volta non intesa per motivi d'ordine estetico, ma confermata dalle constatazioni delle rappresentazioni musicali correnti, ove tanto spesso tutto sembrava precario, salvo appunto il testo drammatico; anche se pur esso non sfuggiva a manipolazioni di vario genere ed estensione, quali spostamenti, soppressioni e sostituzioni di arie e di scene. Persino i rifacimenti più o meno fedeli al testo primario s'imponevano per la qualificazione di prestigio che ad essi conferiva la confidenza nella bontà dell'originaria fonte metastasiana: il suo potere d'illusione era tale che la spersonalizzazione frequente del linguaggio musicale dei mestieranti riusciva a celarsi, sia pure in modo effìmero, nello sfigurato residuo prestigio di vaghe, indirette reminiscenze.
Del testo metastasiano il compositore accettava con gradimento pieno e costante sopra tutto la delineazione dei personaggi nel carattere che perdurava e si riaffermava nel passaggio da una situazione all'altra; e qui, in una visione d'insieme, meglio si presenta la fisonomia dell'«opera metastasiana». Se l'originalità dell'argomento non interessava il poeta, il compositore ed il pubblico, maggiormente colpisce la mancanza di svolgimento nei caratteri e nelle situazioni: sono questi gli elementi che rendono più difficile la comprensione di un'opera così lontana dalla concezione e dal gusto moderni. La mancanza dell'analisi psicologica e del dinamismo drammatico non è sentita dal compositore, il quale è anzi favorito dall'assenza del divenire soggettivo e individuale a giustificare e valorizzare la funzione totalmente diversa dell'aria. E questa è particolarmente atta ad una resa omogenea e sintetica di tipiche immagini sentimentali disposte in una successione di contrasti elementari prontamente percepiti nella loro coerente e razionale giustificazione emotiva. Anche in situazione mutata l'aria conclusiva della scena finiva per essere musicalmente modulata sopra un costante «timbro» espressivo, perché al compositore sembrava che il poeta avesse provveduto ad una sorta di armonia prestabilita nella delineazione di un carattere che non cambiava dal principio alla fine: armonia ch'era paradossalmente confermata dalle decisioni, dai riconoscimenti, dalle rinunce che rientravano nella precisa figurazione del personaggio, come se ogni tratto riempisse una traiettoria predeterminata, cosicché l'azione risultava come la «dimostrazione» dei caratteri nobilmente costanti e condizionati nella diversità delle situazioni. Ed ancor meglio conveniva al compositore la colorazione non troppo differenziata dei personaggi maschili e femminili, di volta in volta ripresentati in una situazione che non comportava indugi particolarmente analitici, anzi si prestava ad una rapida oggettività riassuntiva sulla quale il compositore si sentiva libero, secondo l'estro o soltanto l'inclinazione del momento, di far crescere un'invenzione melodica, anch'essa scarsa di indugi e di variazioni psicologiche, ma pronta ad effondersi in un'espansione canora atteggiata e contenuta nei limiti di un contrasto elementare tra la prima e la seconda strofa dell'aria.
Per questi motivi risultava in genere accentuata la staticità delle arie metastasiane, le quali, prevalenti nel loro rigore d'espressione solistica, sembrano nella musica trasformarsi in duetti alternativi invece che simultanei, trasferiti nella successione temporale da una scena all'altra come se l'eco della voce precedente si prolungasse e si fondesse nella voce presente. In tal modo si giungeva ad una sorta di conservazione parallela di varietà, se non di contrasti, del tutto disforme dal superamento dialettico della drammaturgia romantica d'inarrestabile flusso dinamico e disposta invece a stabilizzarsi nella limpida aura serena del «bel canto».
Anche per questo verso la mancanza dell'analisi e dello svolgimento dei caratteri non era sentita come un ostacolo od una difficoltà da superare. Il compositore anzi apprezzava come un compenso la possibilità di disporre una successione musicale di arie che di quei caratteri concedevano come una sorta di variazioni compiute all'interno di una situazione; cosicché il personaggio era presentato nel suo rapporto costante con le altre figure, verso le quali la variazione assumeva ad un tempo il duplice importante ufficio di realizzare musicalmente il reciproco coesistere e contrapporsi. Strumento indispensabile e sempre più apprezzato n'era divenuto il cantante, il quale entro certi limiti poteva partecipare a quella realizzazione quasi nell'aspetto di un concorso creativo; come nel caso esemplare del Farinelli fra tutti celebrato dal Metastasio, che a lui non lesinò lodi ed espressioni di affettuosa ammirazione. E la spiegazione del fatto è da ravvisare nelle qualità che distinguevano il cantante di eccezionale temperamento, per le possibilità artificiosamente e crudelmente ottenute e portate al massimo mediante un'educazione tecnico-espressiva che consentiva un pieno e sottile controllo sulla voce: nella chiarezza dell'emissione la vocalità plastica e flessibile ad un tempo sembrava rivelare in tutta la sua pienezza la vibrazione della parola poetica in tal modo riattinta nell'unità originaria di una sorgente comune.
Non può meravigliare che nella delicatezza e complessità di tanti rapporti poetici, musicali, esecutivi e conseguente alternarsi di luci ed ombre, anche gli evidenti aspetti positivi dell'«opera metastasiana» fossero discussi e persino con asprezza negati in successivi momenti storici, contrassegnati da sensi e ideali interamente disformi. Basterebbe ricordare, per un esempio di radicale opposizione, i giudizi scritti in Opera e dramma, e non solo per antitesi di temperamento, da Riccardo Wagner nel clima ardente del suo tempo. Per lui la fama del Metastasio era derivata dal fatto che il poeta non offriva mai al musicista il minimo imbarazzo («die mindeste Verlegenheit»), non poneva mai dal punto di vista drammatico un'esigenza insolita («eine ungewohnte Forderung»), sino al punto da diventare il più devoto ed utilizzabile servitore («der allerergebenste und verwendbarste Diener») del compositore. Tanto dispregio nasceva da un'orgogliosa certezza di superiorità artistica e morale fondata su presupposti indiscutibili ed intangibili, ed era un dispregio altrettanto unilaterale ed ingiusto come le esaltazioni iperboliche quanto effìmere: ne derivavano reazioni individuali e di pubblico, di gusti e di ideologie, che si affrontavano a blocchi contrapposti, per insofferenza di climi e di temperamenti, per intransigenze altezzose, persino inclini da reazioni istintive a corrompersi in torbide teorie di superiorità predestinate di nazioni, di culture ed ahimè di razze.
Bisognerà, e già s'è cominciato, pur rendere giustizia a quella sorta di «piacere melodrammatico» dal Settecento in poi enormemente diffuso anche se con gradazioni di percezioni qualitativamente diverse, che vanno dall'ascoltatore sprovveduto al «conoscitore» esigente e raffinato. Un piacere ch'è pur valorizzato e nobilitato con argomenti troppo ingenui o sottili, ma che è giusto riconoscere nella sua natura inizialmente pura e schietta, anche se poi troppo spesso insidiata e corrotta dallo scindersi dell'unità poetica e musicale in sterili autonomie di parole e di suoni isolati e chiusi nella facile sopraffazione dei sensi sullo spirito.
Sulla natura di quel piacere, da intendersi come reazione immediata di simpatia e di consenso e dunque come avviamento immediato ad una prima comprensione, un passo dello Stendhal vuol discoprire il motivo unitario mediante il quale il linguaggio musicale giunge al suo compimento, alla sua felicità. «Cette langue donc, pour laquelle il est d'usage d'ètre passionné, est très vague de sa nature. Elle avait besoin d'un poéte qui pùt guider notre imagination, et les Pergolèse et les Cimarosa ont eu le bonheur de trouver Métastase. Les expressions de cette langue vont droit au coeur, sans traverser, pour ainsi dire, l'esprit; elles produisent directement peine ou plaisir: il fallait donc que le poète des musiciens portàt une extrème clarté dans les discours de ses personnages; c'est ce qu'a fait Métastase». Interpretazione in parte fantasiosa ed allusiva del linguaggio musicale e che certamente s'arresta dinanzi a quel «vague» delle espressioni musicali accolto per immediata discendenza estetica settecentesca, ma congeniale nel riconoscere alla poesia del Metastasio l'ufficio di recare chiarezza al discorso dei personaggi, ossia di riportare a quella poesia la vigilanza dello spirito sul proprio prolungamento musicale.
I saggi esplorativi compiuti nel territorio immenso dell'«opera metastasiana» mostrano la necessità d'interpretazioni e di giudizi nuovi. Nel numero sterminato la maggior parte delle composizioni non può non essere caduca, ma nelle opere o nei singoli momenti di grazia inventiva un'audizione anch'essa ridivenuta congeniale ai moti creativi più schietti è indispensabile per la valutazione di risultati artistici restituiti alla loro realtà storica. Sono moti espressivi caratterizzati da andamenti morbidi e flessibili in una successione temporale di archi melodici di semplice o più ricercata eleganza, ove la trasparenza della trama musicale suggerita dal testo poetico non è superficialità, né sensualità, ma una qualità che il compositore individua e coglie nella sua intima motivazione umana e di cui è necessario riconoscere e pregiare la tempra leggera. Ancora una volta conviene ripetere che il meditativo, il fosco, il dilaniato della drammaturgia romantica non costituiscono un titolo predeterminato di nobiltà e di superiorità. Vi sono momenti di patetica tenerezza e di vaga sognante melanconia di schietta ispirazione metastasiana che gli operisti italiani, ed anche stranieri di sensibilità affine, rendono con una linea melodica di cui ogni nota è essenziale ed originale nella fermezza e nella precisione del contorno: sono i momenti di felice immediatezza espressiva, senza amplificazioni oratorie e inutili ornamentazioni virtuosistiche, quando il compositore, come osservava il De Brosses, «ne cherche ni tournures ni passages, mais de rendre avec simplicité le sentiment tei qu'il soit dans toute sa force», cosicché «ces airs ont bien moins de chant que les autres, mais bien plus de pathétique et de vérité».
Nella sua lunga durata il momento metastasiano del melodramma settecentesco si ravvisa in una sorta d'incantamento, di una vera e propria azione fascinatrice a cui sono sensibili ben si può dire quasi tutti i musicisti maggiori e minori del secolo: e basterà ricordare che la prima opera metastasiana, Didone abbandonata. composta da Domenico Sarri e rappresentata nel 1724, è ancora musicata dal Paisiello nel 1794. Non è qui possibile indicare, nemmeno per accenni fugaci, come e quanto i compositori più insigni od i più rappresentativi del tempo, accolsero le suggestioni di quel mondo poetico e drammatico in modo più personale, oltre la disposizione congeniale che presto portò a distinguere un gruppo di essi per alcuni tratti comuni di una più aperta e sensibile ispirazione metastasiana. Questa fu riconosciuta con immediato moto di consenso insieme a molti contemporanei dal poeta medesimo nell'adesione naturale e spontanea di Leonardo Vinci, Giovanni Adolfo Hasse, Leonardo Leo, appartenenti ad una stessa generazione, e del Pergolesi, nato qualche lustro dopo e pur nel medesimo tempo operante per l'ultimo tratto folgorante della sua giovane vita. La preferenza non par dubbia per i primi due e viene espressa con il giudizio inatteso, perentorio e conciso su Niccolò Jommelli: «Egli mi ha sorpreso. Ho trovato in lui tutta l'armonia del Sassone [lo Hasse], tutta la grazia tutta l'espressione e tutta la fecondità di Vinci». Intuizione viva, ma interessata del genio di un musicista che poi col passare degli anni concorse al superamento dell'«opera metastasiana» pur portando nella mente e nel cuore per decenni la Didone abbandonata, di cui ci ha lasciato tre intonazioni, ma che riuscì a conservare l'ammirazione del poeta.
Col tempo il Metastasio comincia ad avvertire l'inizio di una inarrestabile trasformazione del comportamento dei compositori verso i suoi drammi. Eppure di stagione in stagione centinaia di musiche continuano a sorgere da un testo poetico che a poco a poco viene letto e percepito con sensibilità diversa, ma sempre accolto col rispetto della sua efficienza funzionale. Questa è ancora specialmente apprezzata dai compositori di personalità minore, che quel testo avvolgono con musiche neutre e decorative in una stagnante atmosfera viziata di movenze e cadenze convenzionali. E se in qualche momento propizio in essi ritorna qualche scatto inventivo che ricorda i tempi migliori di una stagione ormai lontana, il poeta non ha più la forza di superare il rimpianto di una congenialità pur riconosciuta con ombrosa ed avara coscienza. Ed infine il Metastasio dà sfogo alla sua amarezza, nella lettera del 15 luglio 1765 allo Chastellux, ormai persuaso del crescente distacco operato dall'edonismo sonoro nei riguardi di un'alta ispirazione creativa: «Le arie chiamate di bravura . . . sono appunto lo sforzo della nostra musica, che tenta sottrarsi all'impero della poesia. Non ha cura in tali arie né di caratteri, né di situazioni, né di affetti, né di senso, né di ragione; ed ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualche gorga imitatrice de' violini e degli usignoli, ha cagionato quel diletto che nasce dalla sola maraviglia . . . Superba la moderna musica di tal fortuna, si è arditamente ribellata dalla poesia, ha neglette tutte le vere espressioni, ha trattate le parole come un fondo servile obbligato a prestarsi, a dispetto del senso comune, a qualunque suo stravagante capriccio, non ha fatto più risuonare il teatro che di coteste sue arie di bravura, e con la fastidiosa inondazione di esse ne ha affrettato la decadenza, dopo aver però cagionata quella del dramma miseramente lacero, sfigurato e distrutto da così sconsigliata ribellione». E per concludere giunge a quel dilemma ch'è, come s'è visto, un suo costante intransigente pensiero: «In fine è ormai pervenuto questo inconveniente a così intollerabile eccesso, che o converrà che ben presto cotesta serva fuggitiva si sottoponga di bel nuovo a quella regolatrice che sa renderla così bella, o che, separandosi affatto la musica dalla drammatica poesia, si contenti quest'ultima della propria interna melodia, di cui non lasceran mai di fornirla gli eccellenti poeti, e che vada l'altra a metter d'accordo le varie voci d'un coro, a regolare l'armonia d'un concerto, o a secondare i passi d'un ballo, ma senza impacciarsi più de' coturni». Anche l'espressione è divenuta più aspra: di fronte all'imperio della poesia la musica non è che una «serva fuggitiva».
L'immersione e l'annullamento del testo calato in illusorie scenografie sonore, in cui il personaggio valeva come semplice pretesto all'effusione canora astrattamente autonoma e risolta in se stessa, erano l'aspetto più vistoso della degenerazione melodrammatica: e la protesta del Metastasio si univa, tanto più autorevole, a quella di molti altri contemporanei. Ma i valori della poesia non erano soltanto offesi e travolti dagli eccessi del virtuosismo vocale: al poeta non sfuggiva certo che s'affermavano ideali drammatici e musicali disformi o contrastanti coi propri e pareva opportuno non andar oltre osservazioni e constatazioni di carattere generale, sino a chiudersi in un riserbo che parrebbe inspiegabile se non fosse volontario. Il Metastasio veniva a trovarsi di fronte a un diverso momento della fortuna della propria opera, quando con sempre maggiore frequenza il compositore legge il dramma come un semplice libretto, ormai lontano o indifferente alle suggestioni personali dell'autore pur tanto prestigioso. Ed allora, in un modo che può parere paradossale e non è, il testo metastasiano è restituito alle virtualità di una libera suggestione che supera quel che la sensibilità ed i gusti mutati fanno sentire come limite od imposizione, ossia quel «metastasianesimo» ormai accettato per convenzione più che per convincimento. Altri motivi, altre esigenze trovano consenzienti librettisti e musicisti, cosicché questi ultimi non si faranno scrupolo di preferire nuovamente verseggiatori mediocri a poeti veri, di ricorrere alla loro mediazione per «ridurre» a libretti tragedie e drammi antichi e moderni d'alto valore artistico. È il lungo tramonto contemporaneo al declino creativo del Metastasio e i drammi sembrano invecchiare con lui in un'atmosfera spenta, in un gusto attardato o inattuale: i musicisti nuovi ad essi ancora possono rivolgersi, e li travolgono e li rianimano, quando, per citare il caso più complesso e diffìcile, si tratti di un Cristoforo W. Gluck. Ma ormai il poeta è distratto o indifferente, se non ostile. Un primo giudizio sul grande musicista ancora all'inizio dell'esperienza italiana e pur già alla ricerca di se stesso, era stato inesorabile, senza possibilità di consensi: «Sappiate che la Semiramide va alle stelle, mercé l'eccellenza della compagnia e la magnificenza delle decorazioni, a dispetto d'una musica arci- vandalica insopportabile» (lettera del 29 giugno 1748). Pochi anni dopo gli riconosce «un fuoco maraviglioso, ma pazzo» (lettera del 6 novembre 1751); ed a proposito del Re pastore, «la musica è del Gluck maestro di cappella boemo, a cui la vivacità, lo strepito e la stravaganza ha servito di merito in più d'un teatro d'Europa appresso quelli ch'io compatisco, e che non fanno il minor numero de' viventi...» (lettera dell'8 dicembre 1756).
In questo come in altri casi, anche se non altrettanto vistosi, si ha la conferma di un'invincibile resistenza metastasiana verso la musica che sembra sottrarsi alla chiarezza ed alla compostezza plastica della poesia, perché la sensibilità della prima deve nascere dall'intelligenza della seconda. Assunta in un'enunciazione generica ed astratta, questa esigenza parve tuttavia ad alcuno comune tanto al Metastasio come al Gluck, sino a proporre il poeta come «precursore» di princìpi riformatori poi portati a compimento dal musicista. Ma gli esiti musicali, assai più che il confronto delle idee teoriche, dimostrano in modo perentorio la diversità irreducibile delle due concezioni. Ranieri de' Calzabigi e Lorenzo da Ponte non scrivono le loro opere per la poesia, ma per l'unico servigio della musica di Gluck e di Mozart di cui sono come una congeniale anticipazione drammatica e fuori della quale non hanno trovato altra autonoma vita. E così il loro valore e significato si risolvono senza residuo nell'unica realtà della sintesi artistica compiuta da quei due grandi.
L'«opera metastasiana» diffusa ed acclamata in tutta Europa segna una delle grandi stagioni del melodramma italiano e vive sinché i compositori, anche quelli di maggior coscienza artistica, sentirono il loro impegno creativo stimolato e soddisfatto da quel mondo poetico ch'essa rappresentava. Resistette a lungo nelle scelte dei compositori fino a quando prevalsero un'inquietudine e un'insofferenza sorte da altre disposizioni di sensi e di spiriti. Era la fine di una cultura, anzi di una civiltà particolarmente negata e spregiata nel formarsi di un nuovo ordine sociale, di una nuova concezione della vita e dell'arte. Di questo congedo uno dei primi ad averne coscienza fu il poeta stesso, ed a sentirne tutta la malinconia: ma non a presentirne il giudizio troppo aspro ed ingiusto che ne seguì. Ora è assai significativo che il ritorno alla comprensione muova proprio con forse maggiore risolutezza dalla diversa esperienza culturale e storica succeduta a quella ch'era stata più intollerante. Non più integrali e preventive riprovazioni moralistiche, ma più libere e sensibili percezioni di una modellazione melodica ispirata da sentimenti filtrati in una forma chiara, semplice, razionale, pervenuta nei risultati più alti ad una fusione esemplare attuata ghermendo a volo nel momento felice, immune da spessori o da rarefazioni disequilibranti, la pienezza trasparente dell'immagine. Si preferì insistere invece nella più facile e numerosa constatazione del momento negativo: quando il compositore falliva o malamente riusciva ad illudere sulla felicità di quella fusione, quando cioè avveniva la divergenza fra il testo e la musica in una indipendenza o addirittura antitesi di finalità espressive che fu l'arma più risolutamente puntata contro la legittimità del melodramma, settecentesco in particolare.
La conciliazione di quell'antitesi, quando avvenne negl'incontri felici del poeta con i «propri» musicisti, sembrò, al di fuori d'ogni intesa volontaria o programmatica, il risultato di una reciproca azione armonizzatrice: e cioè, fra una premessa poetica ed una conferma musicale, in cui le due arti cercavano di piegarsi agli estremi limiti flessibili di una corrispondenza spontaneamente integrativa. Razionalismo verbale e sensualismo sonoro si scioglievano negli esempi più alti in una sintesi lineare elettivamente melodica, ispirata da moti sentimentali raccolti ed alternati in una privilegiata modellazione poetica. Questa apparve esemplare anche agli ammiratori di tutta Europa, che quell'unità percepirono come un originale «sentimento della forma» italiano. E quando questo non cadeva nell'insidia di una separazione o frattura dal «contenuto», essi sentivano nell'«opera metastasiana» il fascino di un'esperienza con altre incomparabile: perché la coglievano nella viva voce modulata dei suoi canti, nel limpido ed agile timbro di vibratili strumenti umani che sembravano poter fiorire soltanto in un paesaggio sereno e luminoso, ove ancora una volta pareva nella realtà attuarsi la ricongiunta nascita della poesia e della musica.