MILETI, Pietro
MILETI, Pietro. – Nacque a Grimaldi, presso Cosenza, il 22 febbr. 1793. Apparteneva a una famiglia di patrioti che cospirando attivamente testimoniò nel 1798-99 la propria insofferenza verso la monarchia borbonica.
Il M. venne arrestato una prima volta nel 1815, a soli 22 anni, e fu condannato a morte, ma ottenne la grazia nel 1820. Affiliato alla carboneria di Catanzaro, partecipò alla rivolta della provincia di Salerno del 1828. In seguito a questi fatti, fu obbligato a risiedere a Cosenza, dove si mantenne insegnando tecnica della scherma presso il collegio reale. Dopo la spedizione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera del 1844, venne condannato a otto mesi di carcere nonostante fosse del tutto estraneo all’insurrezione. Liberato, ottenne anche di poter lasciare Cosenza. Nel settembre del 1847 prese parte ai moti scoppiati nella regione e fu di nuovo arrestato: venne condannato a morte, ma ebbe la pena commutata in ergastolo. In carcere, però, rimase ben poco: nel gennaio del 1848, infatti, beneficiò dell’amnistia disposta in occasione della concessione della costituzione da parte di Ferdinando II di Borbone. Perché potesse lavorare gli fu rilasciata una licenza per aprire una scuola di scherma.
Per nulla intimidito dalle precedenti prigionie e sempre interessato alle vicende politiche come promotore di una lega costituzionale, il M. si fece notare nella ripresa delle agitazioni liberali per una particolare propensione ad animare con la parola nei giovani lo spirito di rivolta. Nel maggio del 1848, infatti, era a Napoli tra i dimostranti che protestavano fuori dalla sede del Parlamento. Successivamente si imbarcò insieme con altri patrioti su una nave francese, il cui capitano, però, si rifiutò di sbarcare lui e gli altri in Calabria, la terra in cui con B. Musolino aveva individuato il luogo dal quale far ripartire l’insurrezione. Fu così costretto, insieme con alcuni suoi compagni di viaggio e di battaglie, a raggiungere Malta; da lì, dopo un breve scalo in Sicilia e a bordo di un’altra imbarcazione, finalmente arrivò, nei primi giorni di giugno, a Reggio di Calabria e poi a Cosenza. Risalendo la regione, il M. e gli altri rivoluzionari ebbero ovunque accoglienze entusiastiche: esaurita la sollevazione costituzionale, nel Regno si era passati alla lotta armata.
A Cosenza venne subito costituito un Comitato di salute pubblica che, nel suo primo bollettino, ordinò l’organizzazione di una colonna mobile di mille uomini, da affidare al comando del M., con il compito di occupare la montagna di Paola e controllare il prospiciente litorale, per proteggere la città in caso di un eventuale sbarco di soldati borbonici. Membro del Comitato di guerra di Paola, il M. agì con grande energia, organizzando presidî armati. Lanciò anche un proclama «Ai popoli della Calabria ultra», esortandoli alla difesa della «patria comune». Nacquero tuttavia alcune divergenze sulla tattica difensiva (Settembrini avrebbe definito il M. «buono a combattere, ma di corto vedere e facile ad accendersi») che a metà giugno portarono alla sostituzione del M. con G. Mosciaro, ricco proprietario terriero e membro del Comitato della provincia, una specie di governo provvisorio. Spostatosi il teatro dei combattimenti nella valle del Crati e nel Nord della regione in seguito a uno sbarco di Borbonici a Sapri, il M., che aveva dimostrato di essere un bravo organizzatore incline però a prendere iniziative non concordate con i capi, si trasferì nell’area compresa tra Spezzano Albanese e Castrovillari. Da qui, quando ormai la situazione per i rivoluzionari era compromessa, lanciò un ultimo, disperato proclama alla popolazione sullo stesso tono del precedente, affermando che si stava combattendo una guerra tra oppressori e oppressi.
Ma, a quel punto, era chiaro che la rivoluzione era fallita. Mentre gli insorti indietreggiavano sotto la spinta dell’esercito regio, il M., datosi alla fuga, tentò di trovare riparo nelle campagne intorno a Grimaldi, che conosceva bene e dove sperava di ricevere aiuto e protezione da parte dei contadini. Fu tutto inutile: con la popolazione ostile agli insorti, criticato per l’inettitudine al comando e l’incapacità di far rispettare le leggi anche da D. Mauro, commissario civile, il M. il 12 luglio 1848 fu costretto ad affrontare, in un bosco lungo il corso del Savuto, prima un’avanguardia di soldati regi e di civili e poi un corpo di circa 200 cacciatori agli ordini del capitano G. Ghio. Con la pistola scarica e allo stremo delle forze, continuò a difendersi con la sciabola finché non cadde. Il cadavere fu poi decapitato e la testa fu portata a Cosenza ed esposta in pubblico «per ispirarvi terrore» (Esposito, p. 21). Dopo la sua morte si continuò a lungo a parlare di lui: i suoi compagni sopravissuti alla dura repressione borbonica, infatti, non lo dimenticarono facendolo assurgere a simbolo della resistenza calabrese all’oppressione borbonica.
Fonti e Bibl.: G. Marulli, Documenti storici riguardanti l’insurrezione calabra preceduti dagli avvenimenti del 15 maggio 1848, Napoli 1849, pp. 234 s.; L. Settembrini, Ricordanze della mia vita e scritti autobiografici, a cura di M. Themelly, Milano 1961, p. 237; R. De Cesare, Una famiglia di patrioti. Ricordi di due rivoluzioni in Calabria, Roma 1889, pp. XLIV s., LI, LV, LIX; G. Pizzuti, La morte di P. M. e la seconda cattura di Giuseppe Pacchione, in Calabria nobilissima, V (1951), pp. 17-33; E. Esposito, C. M. e la democrazia repubblicana nel Mezzogiorno, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, L (1983), p. 19; M. Pezzi, P. M. e la rivoluzione calabrese del 1848, in Studi storici meridionali, IV (1984), pp. 61-93; Dizionario del Risorgimento nazionale, III, s.v. (G.M. De Stefano).
P. Posteraro