CELESIA, Pietro Paolo
Nacque a Genova il 1° ott. 1732 da Giovanni Battista e da Geronima Gnecco. Il padre, mercante di buona voce, era stato uno dei trentasei eletti, il 15 dic. 1746, all'Assemblea del popolo e si era adoperato attivamente a mantenere la migliore intesa tra l'organo del popolo insorto e il vecchio apparato oligarchico. Queste sue benemerenze gli valsero, poco più di un anno dopo, il 3 genn. 1748, l'ascrizione nel Libro d'oro. Non era che un mezzo acquisto: la nobiltà non poteva essere trasfusa nei figli già nati. Il C. aveva sortito da natura il corpicciolo più grottesco che si possa immaginare: gobbo, la testa oblunga, il mento e il naso irregolari, gli occhi scerpellini. Il vaiolo, verso i tredici anni, aveva compito l'opera. A chi lo guardava la prima volta metteva orrore. La madre stessa aveva preso, dopo l'ultima disgrazia, a detestarlo. In compenso, aveva doti d'intelletto e di cuore non comuni: "una più bell'anima della sua - sentenziò il Baretti - io non l'ho ancora trovata". Conquistava tutti con il suo spirito e la sua dolcezza inalterabile. Tutti: anche le donne. Ne trovò anzi che lo amarono al punto di "fare ancora dei sacrifizi per lui". Il C. aveva reagito come meglio non poteva alla tentazione della disperazione. Pochi uomini più socievoli di lui nel pur socievolissimo Settecento: "parmi che non sia bastevole a formare un uomo la compagnia dei morti, anzi necessarissima quella di molti e varj viventi".
La sua prima formazione fu toscana. Crebbe, si può dire, in casa di Camillo Piombanti; frequentò negli anni 1743 e 1744 il seminario arcivescovile di Pisa (una scuola per adolescenti di buona famiglia più che altro) e dal 1748 al 1751 lo Studio, dove seguì, per volontà paterna, i corsi di legge. Negli anni universitari annodò un gran numero di amicizie sia tra i condiscepoli (A. M. Bandini, G. Pelli, A. Menafoglio, A. Durazzini, G. A. Bartoli, F. Fossi, A. Tolomei, C. A. Collini) sia tra i lettori (F. R. Adami, O. Cametti, C. Fromond, T. Perelli, A. M. Vannucchi, G. A. Gatti, S. M. Fabbrucci, C. A. Guadagni, A. Cocchi). Ad allargare la rete delle sue relazioni contribuì il soggiorno a Pisa, a partire dal 1751,di A. Lomellini. Attraverso di lui riuscì a entrare in rapporto epistolare con d'Alembert (febbraio 1751).
Nei coetanei che si raccoglievano intorno a lui cercava di eccitare una coscienza combattiva nei confronti delle vecchie generazioni: "è necessario che i giovani addetti allo studio che vengono su ora si reggessero tra di loro e facendo, per così dire, lega offensiva e deffensiva potessero e imporre al publico e sventare le mire di quelli che ci vogliono dominare, insomma non esser la dupe du jeu come siamo finora". Verso l'ambiente universitario si fece sempre più critico. Se continuava a stimare i professori dello Studio per il loro sapere, come uomini prese a detestarli: "son gente maligna, interessata e colle quali non si può legar società". Nessuna meraviglia che quei presuntuosi, quelle "ranocchie", avessero fatto nel 1752 una così cattiva accoglienza al Galiani. Inalterati rimasero invece i suoi sentimenti verso i compagni di studio (Mebafoglio, Pelli, Bandini, Bartoli). Cercò anzi di rendere col tempo il loro legame più intenso e fecondo. Costretto a separarsene, continua per lettera le discussioni pisane, dà e chiede notizie di tutto e di tutti, si prodiga per favorirli, prega e prega che vengano a Genova, città "barbara", a Roma o dovunque egli si trova. Progetta viaggi di studio in comune. Non vuole che il loro sodalizio si sciolga. I rapporti di amicizia lo esaltano: "Io sono di quelli che fanno gran conto delle amicizie". Purtroppo, non sono eterne: "Se un bene certo vi à, questo è per certo l'amicizia; ma anche questa à fine". La morte di un amico lo annienta. Il mondo, vuotato di colpo dei suoi colori, gli appare per quello che è: un "vasto nulla". Naturalmente, il suo codice dell'amicizia è esigente. Si spazientisce se trova gli altri più freddi o meno assidui di lui.
Lo spettro dei suoi interessi è amplissimo. Poco lo attrae l'antiquaria; ma per il resto legge di tutto. Nell'estate del 1749: le poesie di Quevedo, le Istituzioni analitiche dell'Agnesi, la dissertazione di Clairaut sulla figura della Terra, l'Essay on criticism di Pope, e naturalmente le novità francesi: l'Esprit des lois (che giudica non solo "molto buono" ma anche "disposto con metodo molto esatto e ben seguito") e Zadig ("benché sia un romanzo non manca di avere del buon senso"). Fa un estratto del De cive di Hobbes ("l'ho castrato così bene che sembra non cattolico, ma papista"); lavora per suo esclusivo diletto a un ghiribizzo letterario (un resoconto storico-politico dell'università di Menfi steso da Talete Milesio); fa orologi solari, tira meridiane, discute d'algebra con Lomellini e Asdente; va perlustrando vecchie librerie. Lo studio delle scienze va unito a quello del mondo umano, se pure non predomina.
Impaziente di affermare se stesso, si adoperò al principio del 1750 per ottenere nello Studio una lettura straordinaria dei giorni festivi di diritto civile. Alla fine gli riuscì di ottenerla. Passò tutta l'estate di quell'anno a stendere l'orazione inaugurale da leggersi nella Scuola maggiore dello Studio. La recitò il 17 dicembre in maniera che parve a molti "troppo ardente e trasportata". Era una brillante e volenterosa, anche se poco convinta, difesa della codificazione giustinianea e dell'opera di Triboniano: un buon pretesto per esibire la propria larga conoscenza del mondo bizantino e le copiose letture fatte degli ultimi storici e giuristi. Se l'enfasi con la quale era stata pronunciata dispiacque, più ancora dispiacque alla maggioranza dei presenti la prolusione in se stessa. Ma quelli che agli occhi del C. contavano di più (Adami, Fabbrucci, Terenzoni, Bandiera, ecc.) gli furono benevoli. Incoraggiato dalle loro lodi, pensò di pubblicarla. Ripulita che l'ebbe, la mandò in effetti alle stampe in aprile (De Vindiciis Iustinianeae legislationis, Florentiae 1751). Ad essa andavano unite le tesi che doveva sostenere (e che sostenne senza troppo disonore) il 23 maggio contro gli arguenti a conclusione delle sue dodici lezioni. L'operetta fu segnalata con parole lusinghiere dal Lami (Nov. lett.,XII [1751], col. 385) e da F. A. Zaccaria (Storia lett. d'Italia, III, Modena 1752, p. 573). E tanto valse a ripagarlo della malignità dei lettori pisani che gli avevano fatto negare il pagamento della piccola pensione di 17 scudi assegnata dagli statuti ai lettori straordinari.
Finite le sue "ladre fatiche" presso lo Studio pisano, ricevuto dottore in utroque dal Collegio della Repubblica il 20 agosto, l'inquieto abatino s'interroga sul suo futuro. L'importante è non restare a Genova. Qualsiasi altra città - Firenze, Bologna, Milano, Roma - gli va bene. Nel settembre segue G. L. Pallavicini a Milano. Vi trascorrerà un mese, ospite carezzatissimo della colonia toscana (Neri, Piombanti, C. Rossi). Ritornato di Lombardia, opta per un soggiorno biennale a Roma: a fine di studio principalmente, ma anche per cercarvi impiego in qualche nunziatura. Vi s'incammina alla fine dell'anno, passando per Firenze. Riverisce il Lami ("disse infinite coglionerie") e il Cocchi, conosce lo Stosch e il Mozzi. Al principio del 1752 è a Roma, alloggiato in un collegio per giovani arcinobili di mezzo mondo. Ci sta a disagio, come del resto in quella città ipocrita: "Una pena è questa di dover continuamente portare una maschera". Frequenta quanti più letterati può: il Mamachi, i due Assemani, il Garampi, il Passionei, il Foggini, il Vernazza (che lo aiuta a perfezionarsi nel greco), R. Venuti, ma soprattutto il padre Jacquier, col quale bramerebbe esser "a tutte le ore"; più tardi, il Boscovich. È qui che conosce, poco dopo il suo arrivo, l'abate Galiani; e stringe con lui un'amicizia che, vinta l'iniziale diffidenza ("mi parve non esser egli buon amico"), durerà tutta la vita. Sempre più attratto dallo studio dei meccanismi del mondo politico ("gli ordigni che fanno muovere la scena") gli cade tra le mani la Scienza nuova. Ne è colpito: quel "libro curiosissimo" contiene "cose assai buone". Trascorre la vita nelle grandi biblioteche e fa, di tanto in tanto, lunghe villeggiature: a Frascati, a villa d'Este, a Castel Gandolfo. Interrompe un soggiorno così piacevole per portarsi alla metà d'aprile a Napoli. Vi rimarrà circa due mesi e mezzo, frequentando assiduamente il Galiani, il Genovesi, l'Intieri, il Niccolini, il duca di Noia, il principe di San Severo; i salotti di Corilla e di M. A. Ardinghelli. Della "stufa" intieriana diverrà un attivo propagandista. Stanco di colpo dell'aria di Roma, alla fine di giugno lascia per sempre la città.
Ormai non desidera altro che visitare Londra. Ma il padre esita: "è pronto, non è pronto; vuole, non vuole". Intanto il C. cerca compagni per il viaggio: vorrebbe che Pelli o Galiani si unissero a lui. Il Galiani accetta, ma all'ultimo momento si toglie dalla partita. Il C. muove dunque tutto solo per Parigi il 13 giugno 1754. Vi incontra il decrepito Fontenelle, pranza con d'Alembert e Raynal. Ma non sa ancora "abbandonarsi" a Parigi. La sua destinazione è Londra. Vi mise piede il 10 luglio.
Profittando della stagione ("la città è quasi deserta e la campagna ride") risolse di fare un giro nella provincia. In trentasei giorni andò da Londra a Portsmouth, da Portsmouth a Salisbury, da Salisbury a Weymouth, di qui nuovamente a Salisbury, da Salisbury a Oxford, da Oxford a Buckingham e a Cambridge, e di nuovo a Londra. Visitò i più bei giardini e case di campagna, i centri più famosi per la fabbricazione dell'acciaio e della lana, i cantieri navali, le università: sempre in compagnia d'inglesi, e parlando la loro lingua. Era entusiasta delle cose viste e dell'ospitalità degli inglesi: "sono umani, politi, obbliganti". Vivendo con loro ne apprezza il valore: "Egli è oro coperto, non orpello". Ammira soprattutto nella loro costituzione politica, civile e familiare la naturalezza. Non vi erano in Inghilterra modelli unici proposti all'imitazione di tutti, meridiane "su cui ognuno deve regolare il proprio orologio", com'era a Parigi la corte. Meridiana era la stessa natura. Gli uomini vi apparivano come erano, nella loro verità: "In Francia il vizioso passa per onest'uomo e ne à la corteccia; in Inghilterra, generalmente parlando, è conosciuto per quello che è ed egli stesso si mostra a viso scoperto". In breve: ciascuno vi viveva a suo modo. Lodava altamente il patriottismo inglese, effetto sicuro della libertà, ossia della partecipazione dei cittadini al governo: "Viva dunque la libertà, viva i governi dove la ragione non è sottoposta al capriccio e la razza umana onorata con ispeciale considerazione". Invitava Pelli a brindare alla salute di "Liberty and property". Aveva frequentato personaggi cospicui del mondo politico e letterario: Dodington, Dashwood, lord Shaftesbury, lord North; osservato i diplomatici accreditati a corte ("buona gente che fanno gran passeggiate, giocano al faraone, fan la caccia alle sgualdrine, e muoiono di sonno").
Alla metà d'ottobre lasciò l'isola per l'Olanda. Visitò Rotterdam, L'Aia, Amsterdam fissandosi infine a Leida per compiere in quell'università studi di diritto pubblico sotto la guida di Andreas Weiss. Il paese gli piacque; ma non l'avrebbe mai eletto per viverci, "attesa la piattitudine ed uniformità che vi regna in tutte le cose". Alla fine di febbraio del 1755 fece ritorno a Londra, dove rimase ancora fino al 20 aprile. Preferì imbarcarsi per Dunkerque e non per Calais per poter fare una diversione a Lilla a vedervi la "stufa" e le altre operazioni granarie del Maréchal e soddisfare la curiosità propria, del Galiani e dell'Intieri. Ora poteva godersi Parigi. Prevedeva di fermarcisi sei mesi. Ma dopo due settimane ordini imperiosi del padre lo costrinsero a partire. Poco o nulla riuscì a vedere. Ma l'incontro con quel "gran quadro dell'umanità" era solo differito: "del resto poi so dov'è Parigi, e se campo la metà di una vita legale rivedrò l'occidente". A compenso dei progetti frustrati mutò la via del ritorno: il 16 maggio era a Ginevra in casa di Voltaire "per imparare quivi il suo catechismo". Rimase a "Les Délices" due giorni: due giorni indimenticabili ("Due giorni che ò passato seco mi sono parsi un momento"). La conversazione con il gran vecchio gli fece perdere addirittura la memoria degli amici. Non rimpiangeva la partenza affrettata: "ò fatto a Ginevra in quattro giorni quello che non avrei fatto a Parigi in quindici". Da Ginevra attraverso Chambéry giunse a Torino il 28 maggio. Dall'amico Gastaldi fu scortato nella società torinese, che non gli piacque: "qui vedo e parlo con mezza la città, non converso però con alcuno". Presentato a corte, trovò i principi "graziosi e umanissimi". Carlo Emanuele III e il duca di Savoia gli fecero l'onore d'interrogarlo "sopra molte cose". In quella città alquanto tediosa conobbe però il Caracciolo, che rimase da questo momento suo costantissimo amico e corrispondente. Ritornò a Genova dal suo gran viaggio alla metà di giugno.
Alla metà di agosto, la Repubblica, in difficoltà con i suoi sudditi di Sanremo, ricorse a lui, fresco di studi di ius germanicum, per formare una scrittura dove si mostrasse l'infondatezza delle pretese imperiali su quella città. Il C. prese la cosa molto sul serio. Fu un'occasione per addentrarsi nella gran selva dei secoli bui. Non voleva comporre una scrittura legale, ma ricostruire una pagina di storia. Riprese in mano il Codex diplomaticus di Leibniz, riaperse le raccolte muratoriane. Ne concluse che nel 1130 vi era stata "vera conquista" di Sanremo da parte di Genova; e che di conseguenza Sanremo, essendo luogo suddito della Repubblica e non città libera dell'Impero, godeva sì di certe autonomie, ma non poteva dirsi in alcun modo Stato sovrano (Sanremo, Sottosezione dell'Archivio di Stato di Genova, Mss. 169 e 170).
La stesura dell'opera lo impegnò molto più di quanto credesse. A complicare le cose giunse il 13 sett. 1755 la nomina a ministro della Repubblica a Londra. I Serenissimi non volevano lasciarlo partire prima che avesse ultimato lo scritto. Ma finirono per rassegnarsi. Vi lavorò attorno a terminarlo e a voltarlo rimaneggiato in francese ancora un anno e più. Per la traduzione si servì prima dell'abate Yvon e poi della sua amante francese. Lo consegnò infine tra il maggio e il giugno del 1757. Il frutto di tante fatiche finì miseramente negli archivi.
La promozione a "postilla del corpo diplomatico" non lo entusiasmò: l'onore non era grande e del tutto insufficiente l'onorario, benché la Repubblica glielo avesse aumentato di un terzo rispetto al predecessore. Per mantenere il suo decoro, il padre s'era dovuto impegnare a contribuire di suo con 600 scudi l'anno per un triennio. Partì da Genova il 18 o 19 dicembre. Il 3 gennaio 1756 egli si trovava a Parigi.
Fu presentato al re e alla corte; ricevuto dai ministri Machault e Rouillé; festeggiato dal corpo diplomatico. Ma doveva affrettarsi: la guerra - quella guerra che egli aveva lucidamente previsto sin dal 1755 - era imminente. Giunse a destinazione il 23 gennaio. Il 26 fu ricevuto graziosamente dal re. Fox lo tranquillizzò sul punto della Corsica: l'Inghilterra non prendeva alcun interesse in quei torbidi. Ma conduceva di fatto una politica indecisa. Ogni velleità d'intervento sarà invece accantonata dal nuovo ministero. Pitt giudicava "superiori al prezzo della cosa" i mezzi necessari per compiere l'impresa: la Gran Bretagna poteva - disse - "con molto maggior vantaggio impiegare la sua attenzione altrove". Per tutto il tempo che rimase in carica, il C., non avendo da negoziare grandi affari, rivolse tutta la sua attenzione a osservare la scena politica inglese. Vide con suo stupore la nazione lentamente mobilitarsi e indurire sempre più la propria volontà di lotta, sotto la guida energica di Pitt. Era un tratto tipico della storia inglese: "un uomo fermo, risoluto e amato dal popolo quando si trova in questo paese alla testa degli affari fa cambiare col tempo l'aspetto delle cose". In considerazione della qualità dei suoi servigi, il 24 genn. 1759 il C. fu ascritto alla nobiltà. Raggiunto il principale obiettivo, non pensò più che a liberarsi dalla sua incombenza.
Il 4 luglio 1759 chiese il richiamo; l'ottenne il 4 agosto. Riuscì a imbarcarsi a Gravesend il 6 ottobre. Nel viaggio di ritorno si fermò una decina di giorni a Parigi, dove rivide il Galiani, e quindi a Lione in attesa che la moglie partorisse. Il C. non era infatti più solo: il 23 marzo 1758 aveva contratto segretamente matrimonio con Dorothy Mallet, la giovanissima primogenita del letterato scozzese David.
Una vicenda sentimentale che aveva fatto, nei circoli diplomatici e intellettuali della città, un certo rumore. Ascritto nel 1756 alla Royal Society e alla Society of Antiquaries, frequentatore del salotto di lady Hervey, amico del Gibbon, dell'Hollis, del Wood, il C. non era un ignoto nella Londra del tempo. Tra le nuove amicizie c'erano gli italiani più in vista della città: Baretti, Mazzei, Martinelli. A rendere più piccante la vicenda del suo matrimonio, una ex monaca avignonese - autrice di romanzi e di satire politiche -, Marianne-Agnès Fauques, si querelò contro di lui per rottura di promessa; e gli avventò contro un pamphlet ferocissimo che rivelava al pubblico ogni particolare della loro vita in comune: Mémoire de Mme F. de la C. [epède] contre Mr C. M.[inistre] de la R.[épublique] de G.[ênes]Londres 1758. Il processo si celebrò nel gran salone di Westminster gremito di pubblico alla fine del settembre del 1759.Gli amici inglesi accorsero numerosi a testimoniare in suo favore. Fu assolto. Ma s'impegnò a corrispondere alla vendicativa ex amante una pensioncina. L'incidente fece sì che si diffondessero sulla sua partenza da Londra le più sinistre notizie. Da molti fu creduto che egli fosse "precipitato" e che fosse stato richiamato per aver tradito gli interessi del suo paese. Il matrimonio con Dolly fu felice. Ventidue anni dopo, costei riconosceva che il suo caro "Horatio" mai le aveva procurato volontariamente "un moment de chagrin". Gli diede quattro figli, due maschi e due femmine. I primi morirono in tenera età; sole sopravvissero le figlie, Geronima ed Elisabetta, entrambe sposate in Francia e rimaste devotissime alla memoria del padre.
Ritornato in patria nel marzo del 1760, non pensò più a impieghi all'estero. Nell'ambasciata londinese aveva rimesso 38.000 lire. Ma cominciò a intristire: "sono divenuto - diceva nel 1762 - indolentissimo, e vedendomi privo di libertà, d'incoraggiamento e di speranze vivo senza progetti e quasi senza disegno". Morto in quell'anno il padre, decise di continuare col fratello Giuseppe l'"antica ragione di negozio", lui, che mercante di granaglie proprio non ci si vedeva. Dopo il 1770 riconsiderò la possibilità di rientrare in diplomazia. Ma le sedi che lo attraevano - Parigi in primo luogo, ma anche Napoli o Madrid - erano troppo ambite o troppo care. A parte qualche gita (i due mesi trascorsi nel 1767 a Milano con Menafoglio, Beccaria e Frisi; il viaggio a Pisa nel 1769 e quello a Firenze nel 1775; la missione a Milano presso il Verri e il Firmian nel 1774), per un ventennio la sua vita si svolse senza scosse tra le occupazioni del negozio e, a partire dal 1771, le riunioni del Consiglietto. A rompere tanta monotonia, c'erano per fortuna le visite degli amici: italiani (Baretti, Galiani, Mazzei, Caracciolo, Bettinelli) e stranieri (Gibbon, Garrick, Huntingdom, Chastellux, Gleichen, Ennery). C'era la conversazione con i pochi spiriti illuminati di Genova (Lomellini, Negroni, Gastaldi, D. Grimaldi, F. Pallavicini, Lilla Grimaldi); e c'era soprattutto la corrispondenza con gli amici lontani: Galiani, Pelli, Caracciolo, Mazzei. È in effetti nel giro volubile della lettera che il C. meglio esprime la folla delle sue riflessioni e dei suoi sentimenti. Tuttavia due volte in questi anni, nel '67 e nel '68, si provò a comporre scritti più meditati: due discorsi da recitare in altrettante sessioni dell'Arcadia genovese. Il secondo soprattutto (che a Genova notarono di "libertinismo"), sulla libertà necessaria agli uomini di lettere, egli ebbe caro e partecipò agli amici: a Menafoglio, a Beccaria e al Pelli, che lo giudicò "scritto prezioso" e conservò con gran cura (il che non valse a salvarlo dalla dispersione).
Nell'agosto del 1780, cedendo infine alle insistenze della moglie, decise di portarsi a Parigi per cercarvi, diceva, un Emile per la sua primogenita. Vi rimase con qualche interruzione fino all'agosto del 1784. Pur angustiato da mille affari domestici, vi trascorse un soggiorno "delizioso", accolto come vi fu calorosamente dagli amici di Galiani e di Caracciolo: Mme d'Epinay, i Necker, Grimm, d'Holbach, Marmontel. Il 21 febbr. 1784 fu nominato ministro in Spagna con l'emolumento di lire 20.000. Raggiunse San Ildefonso nel settembre. Tenne l'incarico fino al luglio del 1797, allorché il governo democratico lo richiamò in patria. La moglie rimase con la figlia minore a Parigi e vi morì due anni dopo, il 27 aprile 1786.
La Spagna degli ultimi anni di regno di Carlo III e di Carlo IV lo ebbe attento cronista: i suoi dispacci, lunghi e fittissimi, sono oltre tremila. Molto legato al rappresentante statunitense, Carmichael, e in rapporto col Jefferson, fu lui ad adoperarsi nel 1791 alla creazione in Filadelfia di un consolato genovese. A quello Stato nuovo guardava in effetti sin dal 1776 con grande aspettazione: "Se questo nuovo Stato si forma - aveva confidato al Pelli - avrà grandissimi vantaggi sopra gli antichi, nati più a caso che per disegno in tempi d'ignoranza e di barbarie: una repubblica che si erigga di pianta sopra larghissima base da Franklin e compagni verso la fine del 18ºsecolo parmi che prometta molto". Salvo poi a ricordare al Mazzei, sei anni dopo, che un buon governo dipende, più che dalla forma della costituzione, dal carattere e dai talenti degli uomini che lo compongono. Il precipitare della crisi in Francia non lo sorprese. Sin dal tempo della caduta di Turgot aveva formulato con nettezza il dilemma della monarchia francese: "L'appoggio della corona à egli da essere riposto nella aristocrazia feudale o in una agiatezza generale tendente al democratico?". E giudicava incontrastabile - l'"impeto veemente" che trascinava tutti i popoli verso la libertà civile. Il fermento che serpeggiava da tempo in tutte le nazioni d'Europa doveva prima o poi mettere capo a un governo rappresentativo: la forma più adatta ai tempi nuovi. Anche la Repubblica di Genova, da almeno un secolo dilaniata da una "guerra civile tacita", doveva piegarvisi. Se lo avesse fatto prima, la Corsica sarebbe stata "probabilmente ritenuta nel nostro patto sociale". Ma giudicava severamente ogni misura contro la proprietà.
Eletto nel 1797 a far parte della Municipalità provvisoria genovese, riorganizzò l'ospedale di Pammatone e gli altri luoghi di beneficenza pubblica; entrò a far parte dell'Istituto delle scienze nuovamente creato. Nel maggio del 1799 cessò dal suo impiego. Vedeva con timore salire al potere uomini nuovi, i quali "impazienti d'aspettar che la natura, secondata da' moderni instituti, operi da sé", mostravano "le più vive premure di portare il livello dell'uguaglianza anche sopra la proprietà". I "vapori nitrosi e sulfurei" che ondeggiavano nell'atmosfera europea contagiavano i suoi stessi familiari: il nipote quindicenne e le sue due sorelle. L'inasprirsi della lotta politica lo feriva: "la patria vuole un alveare, non un nido di vipere". Attesi il suo "genio moderato" e il declino delle forze, era deciso a ritirarsi dalla scena: "non ò vocazione né forza per scendere in una palestra spesso ingombra da energumeni e talvolta da gladiatori". Ma contro la sua volontà fu trascinato ancora agli affari. Durante l'assedio, Massena lo chiamò a far parte della Commissione provvisoria di governo. Altrettanto fecero gli Austriaci il 6 giugno. Ma non fu nelle loro mani lo strumento docile che desideravano: si oppose con fermezza all'adozione di violente misure di polizia. Di lì a poco, Marengo. Nel luglio Napoleone, che lo stimava, lo incluse nella Consulta legislativa che doveva elaborare la nuova costituzione. Il C. accettò, ma senza calore: tanto, pensava, la costituzione "scenderà dall'Olimpo". E dall'Olimpo in effetti calò nel giugno del 1802. Il C. fu incluso tra i trenta senatori, ne divenne anzi il decano. Inutilmente sperò in una giubilazione. Nel giugno del 1805, aggregata la Liguria all'Impero, venne nominato presidente del Consiglio del circondario di Genova. Il 5 luglio ricevette dalle mani stesse dell'imperatore la Legion d'onore. Ormai si occuperà soltanto dell'amministrazione dell'università. È divenuto un vecchio "orgasmico", "vaporoso" e bisbetico, "somigliante al dottor Fastidio della commedia napoletana". Lo esaspera soprattutto l'attivismo delle nuove generazioni, per le quali "le famose sette giornate sembrerebbero lunghe se pur non venissero anche riputate pigrizia". Si ritrova a suo agio soltanto con i superstiti dell'età delle riforme, qual era appunto F. M. Gianni, allora esule a Pegli.
Il suo corpo, avariato sin dall'infanzia, lo serve sempre meno; la sua mente è rivolta altrove, al pensiero della morte imminente: "Già da ogni parte screpola il bozzolo e la farfalla che vuol uscirne poco più prestasi ad altri intenti" Si costringe a letture edificanti: vuol morire da filosofo cristiano. Ma è rimasto un lettore esigente. Alla Bibbia commentata da Le Maître de Sacy finisce per preferire il Génie du Christianisme.
Morì a Genova il 12 genn. 1806.
Fonti e Bibl.: Due grossi fascicoli di sue carte sono conservati presso la Bibl. Mazziniana di Genova (di estremo interesse le 59 lettere indirizzate al padre). Il quasi centinaio al Galiani, conservate a Napoli presso la Biblioteca della Società di storia patria, sono state interamente edite a cura di S. Rotta (L'Illuminismo a Genova: lettere di P. P. C. a F. Galiani, I-II,Firenze 1973-76). Cinque soltanto delle centottantotto scritte al Pelli, custodite nell'Arch. di Stato di Firenze, sono state edite (Lettere a G. Pelli Bencivenni, 1747-1808, Inventario e documenti, a cura di M. A. Timpanaro Morelli, Roma 1976). Quelle al Mazzei sono conservate nell'archivio privato Maruzzi (attualmente in vendita e inaccessibile); una sola è posseduta dalla Bibl. naz. di Firenze, App. Capponi Nº 25, Carte Mazzei. Le 88 lettere al Bandini sono serbate alla Bibl. Marucelliana di Firenze (B. I. 27, IV, ff. 95-215; IX, ff. 53-76; B. II. 27, X, ff. 112-123; XI, ff. 104-121): solo frammenti di diciotto di esse sono stati pubblicati dall'Oreste. Altre lettere si trovano all'Ambrosiana, alla British Library, all'Estense di Modena (Aut. Campori). La corrisp. diplom. dall'Inghilterra è nell'Arch. di Stato di Genova. Arch. Segr. 2288-2289; quella dalla Spagna nello stesso fondo (FF. 2482-2485). Parte del copialettere celesiano dall'Inghilterra è a Parigi nella Bibl. Nat., Fonds it. 2322. Sul C. vedi: A. Bianchi, Elogio storico di P. P. C., in Mem. dell'Accad. imp. delle scienze e delle belle arti di Genova, II (1809), pp. 138-149 (pubbl. separatamente in francese a Genova nello stesso anno); L. Grillo, Abbozzo di un calendario stor. della Liguria, Genova 1846, pp. 19-23; A. Neri, G. Baretti a Genova, in Gazz. di Genova, XC (1923), pp. 13-16; G. Oreste, P. P. C., in Boll. ligustico, VII (1955), pp. 1-32; S. Rotta, Documenti per la storiadell'illuminismo: lettere di A. Lomellini a P. Frisi, in Miscell. di storia ligure, I, Genova 1958, pp. 277-279; Id., Il viaggio di Gibbon in Italia, in Riv. stor. ital., LXXIV (1962), pp. 340-348; Id., La corrisp. di G. Ravara, console gen. della Rep. di Genova presso gli StatiUniti (1791-1797), in Italia e America dal Settecento all'età del Risorgimento, Padova 1976, I, pp. 169-217.