FRANZESI, Pietro Paolo
Nacque a Monte San Savino, a circa 20 km da Arezzo, il 29 giugno 1713 da Napoleone e da Vittoria Mostardini di San Gimignano.
La famiglia, di antica origine magnatizia fiorentina, dovette trasferirsi a San Gimignano dopo la congiura dei Pazzi e qui risiedette stabilmente, vivendo "sempre con poche sostanze e per lo più con umili parentadi". A metà Settecento, in effetti, poco rimaneva degli antichi splendori familiari se non alcuni diritti di patronato ecclesiastico sul castello di Staggia in Val d'Elsa. Nonostante ciò, al momento della legge toscana sulla nobiltà e cittadinanza i Franzesi vennero ascritti al rango delle famiglie patrizie di Firenze (quartiere S. Maria Novella) con decreto del 25 marzo 1754.
Il F. fu il terzogenito, essendo nato dopo Filippo e Girolamo (futuro commissario regio di Pitigliano), e prima di Antonio (futuro canonico della collegiata di San Gimignano) e di Laura. Nulla sappiamo circa i suoi primi studi. Il 29 giugno 1737 fu ordinato sacerdote; poi conseguì la laurea in utroque iure all'università di Pisa (15 giugno 1745).
Ricoprì l'ufficio di vicario generale prima nella diocesi di Borgo Sansepolcro e poi in quella di San Miniato. Fu eletto vescovo di Montepulciano il 3 genn. 1757 e consacrato a Roma il 16 seguente dal cardinale G.A. Guadagni.
Le sue prime cure furono rivolte a moralizzare le diverse componenti diocesane. Cominciò col dettare norme precise per l'esame dei confessori che doveva vertere "non in materie speculative ed astratte" ma su quelle "più ovvie e più necessarie". Poco dopo (17 luglio 1757) pubblicò un editto sulle modalità di ammissione degli ecclesiastici ai vari gradi dell'ordinazione sacra. In particolare prescrisse, tra i requisiti intellettuali, la frequenza della scuola di filosofia e di teologia, convalidata dall'esame del candidato davanti allo stesso vescovo e agli esaminatori sinodali, e, tra i requisiti morali, l'attestato di ottimi costumi, avvertendo che sarebbero stati esclusi coloro che avessero frequentato "i pubblici ridotti, le bettole, i giochi proibiti dai sacri canoni, la conversazione di persone di diverso sesso, il vagare la notte, e cose simili".
Nei riguardi dei fedeli il F. si impegnò perché fossero maggiormente rispettati gli obblighi canonici riguardanti la quaresima, venisse praticata la devozione al S. Cuore di Gesù (a tale scopo il 17 maggio 1766 ottenne da Clemente XIII il permesso di celebrarne in diocesi la festa il venerdì dopo l'ottava del Corpus Domini) e partecipassero alle periodiche missioni di carattere ascetico-penitenziale.
Per quanto sommari, questi elementi forniscono un'idea della distanza che correva fra questo progetto pastorale e quello dei vescovi toscani legati al riformismo religioso di Pietro Leopoldo. Il retroscena della risposta al granduca sui cinquantasette Punti ecclesiastici, che il F. si attribuì ma che in realtà era opera del domenicano E.D. Cristianopulo, docente nello Studio della Minerva di Roma, chiarisce poi l'atteggiamento di riluttanza mostrato di fronte ad alcune riforme ecclesiastiche ricciano-leopoldine, come la soppressione delle antiche confraternite e la loro sostituzione con la Compagnia della carità in ciascuna parrocchia.
Altri provvedimenti granducali vennero, tuttavia, accolti con favore dal F. in quanto irrobustivano l'organizzazione diocesana. La soppressione dell'ex collegio della Compagnia di Gesù a Montepulciano divenne, ad esempio, l'occasione propizia per trasferire nell'annessa chiesa la parrocchia di S. Bartolomeo apostolo, nei locali scolastici il seminario diocesano (che risultò così notevolmente potenziato), in altre parti dei locali la casa canonicale e le scuole pubbliche erette per legato testamentario Parri.
L'atteggiamento spiccatamente filoromano del F. si espresse durante l'assemblea dei vescovi toscani del 1787. Ancora una volta egli si mosse di conserva con gli esponenti moderati dell'episcopato. Il 18 marzo 1787 scrisse, infatti, all'arcivescovo di Firenze, pregandolo di scegliere per suo conto "tra il suo clero uno o due consultori" per l'assemblea, "giacché in questa mia distretta e miserabile diocesi - egli notava - non ho soggetti sufficienti per servirmi di consultori in tal occasione" (Prato, Bibl. Roncioniana, ms. P-II-1, c. 46). Giovandosi delle competenze del rettore del seminario fiorentino, Antonio Dell'Ogna, il F. poté contrapporsi al gruppo ricciano specialmente sulla questione liturgica della recita del canone della messa.
Nella sessione XIII (21 maggio) egli presentò una lunga memoria circa la recita silenziosa del canone fondandosi sulle opere del padre P. Le Brun, mentre nella sessione XIX (5 giugno) rispose alla contromemoria che era stata elaborata dai vescovi S. de' Ricci, G. Pannilini e N. Sciarelli.
Le relazioni col granduca furono, almeno in quegli anni, punteggiate da sospetti e da difficoltà. Il 6 giugno 1787 il F. smentì pubblicamente, con una lettera al granduca, di essere l'autore o semplicemente l'editore di una Risposta ai 57 punti comunicati da S.A.R. a mons. P. F. vescovo di Montepulciano (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria di Gabinetto, n. 33 ins. 10). Sei mesi dopo il vicario diocesano Mariano Vanni fu dimesso per ordine sovrano senza che fossero rese note le cause del provvedimento. Il F. propose come successore il primicerio Giuseppe Volpi e, in seconda battuta, il canonico Antonio Contucci. Essendo tuttavia ritenuto il primo candidato "di massime romane et appassionato gesuitico", fu preferito il Contucci (ibid., n. 41 ins. 7 B).
Approfittando anche delle precarie condizioni di salute del F., il vescovo di Chiusi e Pienza, Pannilini, appoggiato dal gruppo filoricciano, il 18 apr. 1788 propose al granduca che - alla morte del F. - la diocesi poliziana venisse incorporata nella sua (ibid., n. 42 ins. 4). Il provvedimento sarebbe stato ideato dallo stesso granduca "per sistemare le cose", ossia per eliminare l'influenza della Curia romana in quella diocesi (lettera di V. Palmieri al Ricci, 13 febbr. 1788 in Carteggi di giansenisti liguri, II, p. 77). Ma la sopravvivenza del F. impedì l'attuazione di questo progetto.
Benché infermo, egli continuò a osteggiare le riforme ecclesiastiche ricciano-leopoldine negli anni seguenti (ibid., p. 144). Il 16 apr. 1791 subì una ricaduta e fu costretto ad affidare il governo diocesano prima al vicario e poi al provicario.
Morì il 7 dic. 1799 a Montepulciano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Deputazione sulla nobiltà e cittadinanza, n. 9; Firenze, Bibl. Moreniana, ms. 230/III, ins. 8-9; Pietro Leopoldo d'Asburgo Lorena, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, I, Firenze 1969, p. 69; R. Tanzini, Istoria dell'assemblea degli arcivescovi e vescovi della Toscana tenuta in Firenze l'anno MDCCLXXXVII, Firenze 1788, pp. 26 s.; Carteggi di giansenisti liguri, a cura di E. Codignola, II, Firenze 1941, ad Indicem; M. Rosa, Riformatori e ribelli nel '700 italiano, Bari 1969, pp. 192 s.; I. Marcocci, Medaglioni. I vescovi di Montepulciano 1561-1964, Siena 1975, pp. 65 s.; R. Ritzler - P. Sefrin, Hierarchia catholica…, VI, Patavii 1958, p. 296.