Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fra gli ultimi decenni del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento Perugino è uno dei più celebrati e richiesti artisti italiani. Il suo stile è caratterizzato da una grande purezza formale, il colore è chiaro e luminoso, le composizioni spaziali sono equilibrate. Il paesaggio non presenta più le asprezze gotiche, ma si ispira alle armoniose quinte naturali dell’Umbria e della Toscana. L’arte di Perugino rappresenta il trait d’union fra la cultura prospettica del primo Rinascimento umbro e toscano e il classicismo di Raffaello.
Pietro Vannucci nasce intorno al 1450 a Città della Pieve, in provincia di Perugia, da una famiglia piuttosto facoltosa.
Nella prima metà del Quattrocento gli artisti perugini sono influenzati dalla tradizione tardo-gotica senese: il cammino degli artisti umbri verso il Rinascimento è guidato da Domenico Veneziano (a Perugia nel 1438), da Benozzo Gozzoli, e dal Beato Angelico. Il giovane Perugino conosce sicuramente le opere di questi artisti, ma il suo primo vero apprendistato è da collocare nel settimo decennio del secolo ad Arezzo, con Piero della Francesca, del quale percepisce i nuovissimi principi luministici e spaziali.
“Con animo di farsi eccellente” – così scrive Giorgio Vasari – intorno al 1470 il Vannucci si reca a Firenze dove entra nella bottega di Andrea del Verrocchio, crocevia degli artisti più aggiornati: frequenta il Ghirlandaio, Lorenzo di Credi, Filippino Lippi, Leonardo da Vinci e Sandro Botticelli, di qualche anno più anziano di lui. Il periodo di apprendistato si conclude nel 1472, con l’iscrizione del Vannucci come “dipintore” nella fiorentina Compagnia di San Luca.
Il catalogo delle opere giovanili dell’artista è stato ricostruito sulla base di attribuzioni. La prima opera documentata di Pietro, infatti, è solo del 1478, quando il pittore ha già quasi 30 anni (affreschi nella cappella della Maddalena nella chiesa di Cerqueto, a sud di Perugia).
Per quanto riguarda la sua prima attività, la grande tavola con l’Adorazione dei magi (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria, 1475) rappresenta un’efficace sintesi del suo apprendistato pierfrancescano, delle frequentazioni fiorentine, delle suggestioni fiamminghe.
Fra le opere che meglio rappresentano l’ambiente umbro degli anni Settanta – influenzato, oltre che da Piero della Francesca e dai fiorentini, anche dalla cultura architettonica di Francesco di Giorgio Martini a Urbino – va segnalato il ciclo di otto dipinti a tempera su tavola, del 1473, con i Miracoli di san Bernardino, conservato a Perugia presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, eseguito da sodali di Perugino come Fiorenzo di Lorenzo e Pinturicchio.
L’esordio romano di Perugino risale al 1479, quando affresca la Cappella della Concezione nel coro della basilica di San Pietro. Distrutti nel 1609 in occasione del rinnovamento della basilica, gli affreschi dovettero incontrare il gradimento del papa, che l’anno seguente affida alla direzione di Perugino quella che, a conti fatti, è la più importante impresa di tutta la sua carriera artistica.
Papa Sisto IV della Rovere, che aveva dato grande impulso al rinnovamento architettonico romano, fa ricostruire la cappella di cerimonia annessa al palazzo vaticano entro il 1480, quando ha inizio la decorazione ad affresco delle pareti. Le pareti della grande aula, lunga 40 metri e larga 13, vengono divise in tre zone orizzontali: in alto sono allineati i ritratti dei papi (ne restano 28), fino a Marcello I; nella parete di destra della zona mediana delle pareti sono affrescate le storie di Cristo, mentre di fronte, a sinistra, quelle di Mosè (ne rimangono 14 delle originarie 17). Al centro, nella parete di fondo – dove oggi c’è il Giudizio Universale di Michelangelo – Perugino dipinge una pala d’altare su muro raffigurante la Vergine Assunta (perduta), cui era dedicata la grande cappella papale. Perugino affresca la Nascita e il Ritrovamento di Mosè (perduti), il Viaggio di Mosè, la Natività di Cristo (perduto), il Battesimo di Cristo, la Consegna delle chiavi. La terza fascia delle pareti, quella inferiore, è decorata con cortine dipinte.
I lavori, regolati da un severo contratto, iniziano nel 1480 e terminano nel 1482. Il coordinatore dell’impresa è Perugino, che, nel Battesimo di Cristo, lascia l’unica firma presente nell’intero ciclo sistino. Sotto la direzione del Vannucci lavora un’équipe di artisti toscani molto affermati – Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli –, e di collaboratori umbri del Perugino, Andrea d’Assisi e Pinturicchio.
La Consegna delle chiavi è considerato l’affresco più importante dell’intera serie, e non solo all’interno della carriera di Perugino ma anche per il ruolo di cerniera fra passato e futuro che svolge nell’arte italiana dell’epoca. Al tempo di esecuzione dell’affresco, la cultura prospettica e il linearismo figurativo sui quale Pietro si è formato sono ormai in crisi: Perugino inaugura con quest’opera una sorta di nuova naturalezza nel dipingere che farà grande impressione sui contemporanei, e che l’artista replicherà con diverse declinazioni lungo tutta la sua lunga carriera.
Nella Consegna delle chiavi lo scheletro della composizione è costruito su un impianto simmetrico, con un procedere della narrazione dal primo piano allo sfondo scandito con ritmi pausati, retaggio delle composizioni del maestro di Perugino, Piero della Francesca. La scena si svolge in una grande piazza, dominata da una costruzione a pianta centrale, che vuole evocare il tempio di Salomone, e da due archi di trionfo ispirati a quello di Costantino.
In primo piano, Cristo porge la chiave d’oro e quella d’argento a san Pietro inginocchiato. Le due schiere di personaggi affrontati – gli apostoli e alcuni contemporanei, fra i quali lo stesso Perugino –, e le figurine guizzanti in lontananza sono vivacizzate grazie al linguaggio ritmico che Pietro ha imparato dagli artisti toscani, Verrocchio, Pollaiolo, Botticelli. Nella rappresentazione circola un’inedita luce aurorale, diffusa e pacata, che fa da legante fra le figure e le cose. La linea scattante e dura che anima i protagonisti dei vicini affreschi di Botticelli e Ghirandaio si è trasformata, nei personaggi di Perugino, in movimento molle e quasi danzante. La Consegna delle chiavi si chiude, in lontananza, con un paesaggio arcadico che prelude a una nuova classicità, quella di Raffaello.
Nel decennio successivo agli affreschi sistini, Perugino concentra la sua attività a Firenze. Qui, anche grazie al milieu artistico legato alla corte di Lorenzo de’Medici (1449-1492), nascono le sue invenzioni più moderne.
Nelle pale d’altare, ad esempio, le figure, massicce ed estatiche, sono inserite in grandi vani architettonici aperti su squarci di cielo, che contengono le figure e le immergono in una luce naturale. Avviene nella monumentale Ultima Cena affrescata nel convento fiorentino delle monache di Foligno, dove la scena, che vantava precedenti locali illustri – Andrea del Castagno, Ghirlandaio –, si svolge sotto un portico ombroso e areato, scandito da pilastri che ritmano la composizione. Nella Visione di San Bernardo, conservata all’Alte Pinakothek di Monaco, il dialogo fra il santo e la Vergine, sostenuto dall’equilibrato rapporto fra architettura e natura, è fatto di gesti accennati ma eloquenti, avvolto nei viola e nei verdi che rendono il racconto pittorico intimo ed elegante. La natura prende decisamente il sopravvento nel prezioso Apollo e Dafni del Louvre, immerso nel clima di nostalgica rievocazione dell’antico della corte di Lorenzo de’Medici.
Dopo dieci anni, nel 1491, Perugino è di nuovo a Roma, chiamato da Giuliano della Rovere, il futuro papa Giulio II, a lavorare per il suo palazzo dei Santissimi Apostoli. Di questa prestigiosa committenza rimane un importante polittico, oggi nella collezione Albani-Torlonia. Perugino adatta il suo stile al gusto romano, dominato dal suo ex allievo Pinturicchio. Non rinuncia al grande portico luminoso aperto sul paesaggio, e al dolce languore dei personaggi, ma la scala umana è ridotta, e la sensazione di chi guarda è di essere davanti ad una grande pagina miniata.
A questo punto della carriera, Perugino è riuscito a inventare un linguaggio pittorico “universale” che supera gli stili locali: i critici moderni lo hanno definito “proto-classico”. Secondo le parole dei cronisti del tempo, piaceva “l’aria angelica e molto dolce” delle sue figure, e “la grazia che ebbe a colorire in quella sua maniera”. Inoltre Perugino, verso la fine del secolo, soddisfa il bisogno di un’arte che esprima le nuove propensioni pietistiche e devozionali, in una società turbata dalle prediche di Savonarola e dall’invasione degli eserciti francesi.
Fin verso i 50 anni, Perugino è molto operoso e mobile. I suoi dipinti sono richiesti contemporaneamente in città diverse, e riscuotono grande successo anche nel Nord Italia (Pavia, Bologna, Cremona). L’artista a volte apre un atelier provvisorio nel luogo della committenza: qui assume pittori locali, o invia suoi stretti collaboratori a terminare il lavoro da lui impostato. Oppure il dipinto viene lavorato in bottega e inviato a destinazione, come nel caso della Vergine col Bambino e santi per la chiesa di Sant’Agostino a Cremona, del 1494. La sua residenza professionale rimane Firenze almeno fino al 1501, quando aprirà stabilmente bottega a Perugia.
Tra il 1494 e il 1497 i documenti registrano la presenza di Perugino a Venezia: nuove modulazioni coloristiche e iconografie tipicamente venete riflettono nella sua pittura l’esperienza lagunare. In questi anni l’artista è in grado di utilizzare contemporaneamente diversi registri pittorici: figure massicce e pigmenti smaltati (Pala dei Decemviri, Pinacoteca Vaticana), oppure colori stesi velocemente, trasparenti e sfrangiati (predella della Pala di Fano), ma anche nuove sofisticate riflessioni sullo stile analitico dei fiamminghi (Ritratto di Francesco delle Opere, Firenze, Uffizi).
Alla fine del secolo una delle più potenti corporazioni delle arti di Perugia, quella del Cambio, commissiona a Pietro gli affreschi per la sala dell’Udienza nel Palazzo dei Priori. È un ciclo molto articolato dal punto di vista iconografico: si tratta di una galleria di personaggi storici, mitologici e sacri, frutto tardivo dell’enciclopedismo medievale, che Perugino e i suoi collaboratori dipingono alternando grande diligenza, a volte un po’ fredda, a spunti geniali, per esempio nelle Sibille.
Il terzo capitolo della parabola artistica di Perugino è segnato da alcuni episodi frustranti. Importanti commissioni – la Lotta di Amore e Castità per il camerino di Isabella d’Este (1474-1539), la pala per l’altare maggiore della chiesa della Santissima Annunziata a Firenze, gli affreschi del 1508 nella volta della Stanza dell’Incendio in Vaticano per Giulio II – vengono aspramente criticate.
Il suo stile sembra ormai cristallizzato in una serie di cliché. Il suo allievo Raffaello con la pala Baglioni dipinta a Perugia nel 1507 (Roma, Galleria Borghese), e ancora prima, nel 1504, Leonardo, coetaneo di Perugino, e Michelangelo, con i cartoni per le battaglie di Cascina e di Anghiari, avevano mostrato una nuova e rivoluzionaria strada, che Perugino decide di non seguire.
L’artista si ritira in Umbria, al riparo da contestazioni, libero di riutilizzare gli amati cartoni infinite volte. Ripropone le composizioni che determinarono la sua fortuna, riscattando la ripetitività e il limitato aggiornamento con una nuova e bellissima qualità pittorica, quasi “impressionistica”. Esiste quindi un’evoluzione nell’arte dell’ultimo Perugino, esemplificata dalla grandiosa impresa del polittico di Sant’Agostino, costituito da quasi 30 tavole disposte un tempo sul recto e sul verso di una grande macchina d’altare (conservate in parte alla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia).