PIETRO PICCOLO DA MONTEFORTE
Nacque con ogni probabilità tra il 1306 e il 1308, ossia prima che a Carlo II d'Angiò, il sovrano che proprio nel 1306 promulgò solennemente le Consuetudini di Napoli revisionate da Bartolomeo da Capua (v.), succedesse il figlio Roberto. Nonostante che P., al pari di altri giuristi coevi, possa essere legittimamente considerato uno dei grands commis del Regno angioino, la ricostruzione della sua biografia è resa particolarmente ardua dalle traversie belliche che hanno irrimediabilmente segnato le fonti archivistiche capaci di documentare le vicende delle strutture apicali napoletane dell'epoca. Supplisce in parte a questa penuria di notizie un'autorevole tradizione che, partendo da Luca da Penne, passa per gli scritti di Aniello Arcamone, di Tommaso Grammatico, di Matteo d'Afflitto (v.), e che, dopo i brevi cenni dovuti all'eclettica penna cinque-seicentesca del giurista napoletano Bartolomeo Chioccarelli (Napoli, Biblioteca Nazionale, B. Chioccarelli, De illustribus viris, c. 57), si stabilizza nelle stringate schede bio-bibliografiche di Lorenzo Giustiniani (1788, p. 62) e di Camillo Minieri Riccio (1844, p. 271). Un consistente incremento alla fama di P. si deve, nell'Ottocento, all'attenzione di Bartolomeo Capasso per la storia giuridica del Regno (1869, in partic. p. 87), nonché agli studi storico-letterari di Faraglia (1889, pp. 343-346, poi in Id., 1893, pp. 101-149). Sulla scia di questi ultimi studi, a metà del Novecento, ha visto la luce, a opera di Giuseppe Billanovich, una puntuale ricostruzione dei rapporti che intercorsero tra P. da un lato e Petrarca e Boccaccio dall'altro (1955).
Le frammentarie notizie sulla sua formazione culturale vogliono P. allievo di Bartolomeo da Capua (Grammatico, 1562, c. 163v). Indizi di sicura consistenza lasciano intravedere la centralità di interessi grammaticali e retorici finalizzati all'acquisizione di abilità argomentative indispensabili nel foro come negli ambienti di corte e della diplomazia. Questa preparazione dominata dal trivio gli consentì di figurare tra i primi intellettuali del Regno che avvertirono la portata innovativa della Commedia dantesca (Billanovich, 1955, p. 17), come pure di aggirarsi con disinvoltura tra i classici dell'antichità. P. appare altresì, all'analisi attenta di Billanovich, retore sottile, appassionato consultatore di dizionari e stilista educatissimo (ibid., p. 44 n. 133). Si tratta di aspetti che trovano una naturale collocazione sullo sfondo dello Studio federiciano di Napoli, dove, come avvertiva già Monti agli albori del XX sec., alla grammatica, alla retorica e alla dialettica, in età angioina era attribuito un risalto negato alle artes del quadrivio (1924, p. 25). Proprio nell'Università partenopea, negli anni 1346 e 1347, P. figura tra i docenti di diritto civile (ibid., p. 83). Questa presenza non costituisce di per sé la prova di un suo particolare impegno scientifico e, ancor meno, didattico ‒ visto l'uso di inserire, a titolo meramente onorifico, nei ruoli dei professori i nomi dei titolari dei maggiori apparati giudiziari e burocratici del Regno ‒, ma vale piuttosto a confermare la tendenza meridionale a configurare la cattedra come il trampolino di lancio verso le alte carriere amministrative e giudiziarie. Certo è che il suo inserimento nel collegio dei dottori, organo voluto da Giovanna I e Luigi d'Angiò Taranto all'indomani della loro incoronazione (Pentecoste del 1352), nel quadro di riforme amministrative pensate per restituire smalto alla compromessa immagine della monarchia, lascia intravedere una solida credibilità accademica (Id., 1937, p. 482). Nel prestigioso consesso, dove spicca in qualità di priore il maestro razionale della Magna Curia, Matteo da Porta da Salerno, i sovrani lo collocano accanto ad altri giuristi di punta della Napoli trecentesca, tra i quali occorre ricordare almeno il viceprotonotaro e maestro razionale Sergio Donnorso, il rettore dello Studio generale Lorenzo Poderico, canonista che morirà canonico della cattedrale nel 1358, il giudice Napodano (rectius Napoletano) Sebastiani e Giovanni Seripando, anch'egli magistrato. Va osservato che i citati personaggi risultano, al pari dei loro meno celebri colleghi, insigniti del titolo professorale, e che una consolidata tradizione fa di P. il maestro di Napoletano Sebastiani, destinato a divenire il glossatore delle Consuetudini di Napoli (Grammatico, 1562, c. 142v).
La pratica giudiziaria di P., il quale ci è noto anche nella sua veste di avvocato (Capasso, 1869, p. 88), oltre a favorire l'ascesa sociale che gli consente di entrare in rapporto con Boccaccio e di seguire con competenza la produzione petrarchesca, si traduce soprattutto in due opere: il De forma appretii in Regno declarata, stampato per la prima volta a Napoli nel 1572, e la Glossa super constitutionibus Regni (Giustiniani, 1788, p. 62). Stando alla testimonianza di Bartolomeo Chioccarelli, la prima delle due fatiche favorì addirittura l'identificazione dell'istituzione descritta, il catasto, con il nome dell'autore, come dimostra, tra le altre cose, la sua forte presenza nell'Opusculum VII di Pedro Enriquez, giurista spagnolo della seconda metà del Cinquecento (Maffei, 1995, p. 327* n. 6). Essa è tràdita anche da un manoscritto della Brancacciana di Napoli (Miola, 1918-1921, p. 74). La seconda opera consta di adnotationes composte dopo la glossa di Bartolomeo da Capua, verso il 1350, e successivamente sempre stampate con essa. Tali adnotationes si inscrivono nell'ambito di quella produzione fiorita attorno ai nuclei fondamentali dello ius proprium meridionale dovuta alla penna di giureconsulti quali Biagio da Morcone, Luca da Penne, Napoletano Sebastiani, Aniello Arcamone, Sergio Donnorso, Agnello de Bottis, Diomede Mariconda, Tommaso Grammatico (Capasso, 1869, p. 119; Pescione, 1924, p. 37). Analoghe considerazioni valgono per la Glossa super capitulis Regni et ritibus Magnae Curiae Vicariae, anch'essa destinata alla stessa sorte editoriale delle citate adnotationes (Capasso, 1869, p. 88). Sempre testimoni della produzione giuridica napoletana, più legata al mondo dei funzionari che alla sfuggente esistenza dello Studio, sono le Additiones ad singularia Andreae de Capua, che Giustiniani annovera nella produzione di P., connettendole all'Aureum compendium omnium decisionum Regni Neapolitani di Giovanni Battista di Toro (Giustiniani, 1788, p. 62).
Che P. non si lasciasse irretire dalle seduzioni antiquarie ed erudite del diritto romano, a lui non certo ignote, è provato dalle impronte che le sue opinioni lasciarono nell'attività consulente, o comunque eminentemente operativa, di Luca da Penne ‒ il quale, sebbene ammiratore del giurista di Monteforte, non risulta a lui legato da significativi vincoli di amicizia (Wronowski, 1925, p. 12) ‒, di Aniello Arcamone e di Matteo d'Afflitto. Tutti questi autori lo citano per illuminare fattispecie riguardanti per lo più il diritto longobardo, quello feudale, alcuni aspetti processualistici. Affrontando il tema della testamentifazione attiva della donna meridionale, d'Afflitto precisa, fedele all'insegnamento di P. e sulla scorta di quanto era stato tramandato da Arcamone, il ruolo svolto dal consenso del mundualdo nelle di-sposizioni di ultima volontà (d'Afflitto, 1788, dec. CCLX, 3, c. 202r).
Già in precedenza era stato Luca da Penne a porre in risalto le opinioni di P., come quando il commento del lemma arbitrio della costantiniana l. Nemo iudex, C., De decurionibus (C. 10, 31, 13) gli aveva offerto il destro per marcare la forza vincolante della decisione arbitrale iniqua ma conforme alla legge (Da Penne, 1582, ad X lib. Cod., tit. XXXI, p. 134a). È sempre il giurista abruzzese a riferire il giudizio dell'acuto "dominus Petrus" circa la validità del giuramento prestato dalla donna sottoposta al diritto longobardo (ibid., ad XII lib. Cod., tit. XLIX, p. 938b).
Più interessanti i richiami si fanno affrontando alcuni aspetti nevralgici del diritto feudale, le cui controversie raggiungono l'apice della conflittualità soprattutto nelle fattispecie concernenti le successioni mortis causa. Prendendo ancora una volta le mosse da una pagina di Luca da Penne, lo scorgiamo alle prese con le opinioni di P., annoverato tra i doctores preclarae auctoritatis, in merito alla portata di una fonte sveva, la costituzione Si quando. De hominibus Baronum possidentibus terram hominis demanii (Const. III, 2), che l'esegesi di Luca inserisce in una nuova e più ariosa dimensione rispetto agli approcci precedenti (Da Penne, 1582, ad X lib. Cod., tit. XXXV, p. 217b). L'abito feudistico di P. mantiene la propria brillantezza nel corso dei secoli: d'Afflitto, rispondendo al quesito se la figlia del primogenito premorto al padre possa succedere all'avo a preferenza dello zio, avvalendosi dello ius repraesentationis, giungerà a riportare pressoché integralmente un consilium del giurista trecentesco (d'Afflitto, 1598, lib. III, rub. XXVIII, nrr. 10-18, pp. 592-594), ove questi mostra di sapersi orientare anche nei labirinti dell'esegesi biblica, come quando evidenzia l'impossibilità di trasferire nell'ambito dell'argomentazione giuridica l'episodio della vendita della primogenitura a Giacobbe da parte del fratello Esaù (Gen. 25, 29-34). Nel parere in esame la risposta negativa al quesito riposa su un tessuto argomentativo condiviso da d'Afflitto, che invita il lettore ad ammirare le "bonae rationes et utiles" percorrendo le quali tale "summus doctor" era riuscito a rintuzzare le pretese di un soggetto inidoneo all'esercizio delle funzioni civili e militari (d'Afflitto, 1598, pp. 594b-595a). L'interesse di P. per la feudistica, così come era stato nel caso di Bartolomeo da Capua, derivava inequivocabilmente dal ruolo che i rapporti vassallatici rivestivano nel diritto pubblico di un Regnum che si presentava come feudo della Chiesa, e dove si assisteva frequentemente alla coincidenza tra vertici del ceto baronale e alti officiales al servizio della Corona.
Oltre al volto meramente operativo di P., i giuristi che si appellano alla sua autorità non mancano di restituire l'immagine di un filologo capace di indagare sulla genuinità dei passi del Corpus giustinianeo. Luca da Penne, ad esempio, si dichiarerà debitore della perspicacia di "Dominus Petrus de Monte Forte", il quale aveva ritenuto scorretta la lectio di una prescrizione giustinianea (C. 6, 30, 22, 2) laddove essa imponeva, nella confezione dell'inventario ereditario, la presenza di testimoni che conoscessero l'erede. Proiettando sul testo il suo vissuto di pratico, P. trovava più logico il riferimento a "testes qui haereditatem cognoscunt", piuttosto che a persone fisiche cui fosse noto l'erede per conto del quale si redigeva l'inventario. Solo l'esatta conoscenza dell'asse ereditario da parte di terzi era difatti in grado di impedire, a chi ne avesse la materiale disponibilità, la sottrazione dei beni che lo costituivano (Da Penne, 1582, ad XI lib. Cod., tit. XXII, pp. 420b-421a). Tra i giuristi che P. cita devono essere annoverati Nicola Rufolo (Constitutionum Regni Siciliarum, 1773, p. 170b), Argentino Pansalio (ibid., p. 166a) e il più noto Niccolò Capiscrofa (ibid., p. 204b).
Una volta introdotto nei circoli vicini al trono, P. è costretto a nette scelte di campo politico che lo portano a sostenere, assieme a Barbato da Sulmona e a Giovanni Barrili, altissimo funzionario del Regno angioino e amico di Petrarca, la regina Giovanna contro re Luigi e il suo consigliere Niccolò Acciaioli (Billanovich, 1955, p. 9 n. 11). L'adesione di P. a questo gruppo è testimoniata dalla lettera a lui indirizzata che accompagna il commento barbatiano alla Familiare XII, 2 del Petrarca (Iantandem), conservatoci dal ms. Parigino latino 14845 e di cui Faraglia pubblicò il proemio e la parte iniziale (Faraglia, 1889, pp. 353-357, poi in Id., 1893, pp. 154-157; la lettera di Barbato a P., prima inedita, fu segnalata all'attenzione del pubblico da Attilio Hortis, 1879, pp. 347-348). Un elaborato di taglio scolastico, quello del Sulmonese, che tuttavia denuncia una buona conoscenza dello stoicismo e dove è viva l'esortazione a non comunicare ad altri il contenuto dello scritto, eccezion fatta per alcuni amici come Tommaso de Ioha. In effetti la cautela si rendeva necessaria, poiché dalle righe del commento affiora il ricordo di eventi drammaticamente vissuti e un atteggiamento anticonformista nei confronti della corte e di Luigi di Taranto in particolare. Ci è ignoto il grado di condivisione nutrito da P. di fronte alle tematiche della "Institutio regia", come anche viene intitolata la citata epistola petrarchesca. Noto è che, saputo dell'imminente incoronazione di Luigi, autorizzata da Clemente VI il 19 gennaio 1352, Petrarca aveva indirizzato la ricercata missiva ad Acciaioli invitandolo ad assumere la guida spirituale del giovane sovrano, secondo la disposizione dello spirito umanistico incline all'idealizzazione della realtà e della storia, attraverso l'elaborazione di programmi i quali, pur non escludendo contenuti politici, miravano a una più alta esemplarità (Dotti, 1992, p. 246). Prova ulteriore dell'adesione di P. al partito della regina è che, morto Barrili alla fine del 1355, egli si affrettava a darne notizia a Barbato, invitandolo a chiedere a Petrarca una composizione in onore del defunto, secondo quanto emerge da un'epistola indirizzata da Barbato al poeta toscano (Vattasso, 1904, p. 33). Lo stesso P., inoltre, risulta autore di un epitaffio composto in ricordo di un principino della dinastia angioina, figlio di Filippo, fratello del re Luigi, e di Maria, sorella della regina Giovanna (Camera, 1889, pp. 200-202). Al servizio di quest'ultima, nella primavera del 1344, egli aveva soggiornato ad Avignone, membro di una legazione regia presso Clemente VI (Léonard, 1932, I, pp. 346-347, 585; II, p. 473).
Insignito dei titoli di giudice della gran corte di Vicaria (il suo nome, stando alla testimonianza di Giustiniani, compare nei ruoli dell'autorevole consesso almeno a partire dal 1345), di professore di diritto civile, qualifica con la quale sottoscrive i propri pareri, nonché di consiliarius, familiaris e fidelis della regina, il 26 febbraio del 1357 P. riceve l'incarico di esaminare in grado d'appello la causa tra Niccola d'Avellino, figlio di Maria Alopo, e Gentile Fayella (Faraglia, 1889, p. 344 n. 1).
Non solo magistrato e diplomatico, quanto piuttosto uomo poliedrico e introdotto nei più esclusivi ambienti dell'epoca, egli mostra anche il volto di un aristocratico intellettuale capace di condividere i gusti umanistici che affiorano tra i più significativi cultori trecenteschi del diritto (cf. Ascheri, 1977, pp. 43-73, ora con aggiornamenti in Id., 1991, pp. 105-116). Analogamente a quanto era accaduto a Giovanni d'Andrea, autore della glossa ordinaria al Liber Sextus di Bonifacio VIII e alle Clementine che con il suo Hieronymianum aveva rivelato la nuova sensibilità storiografica di cenacoli come quello di Albertino Mussato a Padova, e a quanto accadrà a Luca da Penne, P. mostra attenzione per Valerio Massimo (Cortese, 1995, p. 383; Id., 2000, p. 363). Appartenne infatti a lui il Vat. Lat. 1919, lussuoso manoscritto su buona pergamena che contiene i Dictorum et factorum memorabilium libri IX (Billanovich, 1955, p. 32) e che fu trasformato dal suo proprietario in un agile prontuario, al quale furono posti i numeri e i titoli dei capitoli nonché i numeri degli exempla. Egli si sforzò altresì di apportare continui miglioramenti al testo con correzioni e varianti. Abituato al complesso lavorio di esegesi e commento esibito dai monumenti legislativi, dispose nei margini e tra le linee una catena continua di notabilia, di spiegazioni e di citazioni. Il modello rappresentato dalla produzione giuridica si traduce anche in una particolare attenzione per ogni riferimento al diritto e alle pene giudiziarie, e di certo non è ad esso estranea neppure la preferenza accordata a Tito Livio, vasta miniera di notizie sulle istituzioni del mondo romano. È difatti manifesto il nesso tra la professione di P. e i contenuti dei Memorabilium libri, non solo "prontuario della morale in atto", ma anche raccolta di exempla concepita a uso delle scuole di retorica e, di conseguenza, a vantaggio di quanti, nell'esercizio dell'attività forense e letteraria, necessitassero di un repertorio di significativi ritratti e aneddoti. Nel citato manoscritto la cultura classica sunteggiata in età tiberiana incontra le sollecitazioni mistiche del Medioevo, quando P. riempie la mezza pagina finale con un carme in distici leonini dedicato alla Vergine (ibid., pp. 30-31). Al favore accordato a Valerio Massimo è dovuta sicuramente l'attenzione riservatagli da Petrarca, amico di Giovanni d'Andrea e di Barbato da Sulmona. Fu quest'ultimo a presentare P. all'intellettuale toscano, definendo l'amico giurista "homo devotissimus tuus, iurium doctor egregius et praecipuus Pyeridum amator" (Vattasso, 1904, pp. 32-33).
Non risulta tuttavia che sia nato alcun rapporto significativo tra il poeta e P., sebbene Barbato, morto nel 1342 l'agostiniano Dionigi da Borgo S. Sepolcro, rimanesse nell'Italia meridionale il più attivo diffusore della fama e degli scritti di Petrarca. La radice di questo insuccesso si rinviene senz'altro nella diffidenza nutrita da Petrarca nei confronti dei giuristi, considerati più ostici dei dettatori di cancelleria, dei maestri di scuola e degli ecclesiastici. Miglior fortuna arrise ai rapporti con l'anziano Boccaccio, che P. conobbe quando, dall'autunno del 1370 al maggio del 1371, questi trovò rifugio a Napoli sotto la protezione del conte Ugo di Sanseverino. I colloqui e le relazioni intercorsi tra i due ci sono noti da una lettera scritta da P. a Boccaccio, rimasta a lungo sepolta nel manoscritto 146 B del Balliol College di Oxford, e da una responsiva del maturo novellista, datata 5 aprile 1373 (Billanovich, 1955, pp. 11-13; Boccaccio, 1965, pp. 1212-1230).
P., all'apice della propria carriera, scrive il 2 febbraio 1372, circostanza che dimostra infondata l'opinione secondo la quale Boccaccio, dopo il soggiorno napoletano durato dall'autunno del 1370 al maggio del 1371, avrebbe fatto ritorno nella capitale meridionale l'anno successivo. L'epistola mostra un intellettuale maturo che nel proemio entra nella disputa concernente i titoli di "dominus" e di "magister", più che in ossequio alla moda erudita della corte angioina, percorrendo un locus piuttosto frequentato dai giuristi dell'età di mezzo. Non solo infatti il suo pensiero corre all'ammonizione biblica "Unus Deus, unus Dominus", ma si modula sul ricordo di una costituzione di Costanzo (C. 1. 31. 1-2), da lui erroneamente attribuita a Costantino, e di altri passi del Codex disciplinanti gli officia, secondo una sensibilità per gli spunti giuspubblicistici giustinianei piuttosto diffusa nel Regno. Seguono accenni di capitale importanza per la storia del tentativo di distinguere le persone e le opere dei due Seneca, vicenda cruciale nello sviluppo della filologia dei primi umanisti, nonché la testimonianza dell'entusiasmo suscitato nel giudice partenopeo dalla boccacciana Genealogia deorum gentilium. Egli si procurò una copia del libro segnalandolo ai dotti napoletani e, in special modo, ai maestri di teologia. Riscuotendo l'opera consensi unanimi soprattutto tra i religiosi, i quali vi scorgevano una ricca miniera per i propri sermoni, P. ne fece realizzare una copia molto curata che depositò nella biblioteca della scuola teologica più importante di Napoli, quella dei Frati predicatori a S. Domenico Maggiore. Nella lettura del nutrito prontuario mitologico, nota Billanovich, egli si entusiasma di fronte agli ultimi due libri, che esprimono la lode e la difesa della poesia, preconizzando così una tendenza critica destinata ad affermarsi ampiamente (Billanovich, 1955, p. 18). Scopo principale della lettera di P., che si trasforma per questa via in un trattato "in defensione et laude poesis", è raccontare come egli si fosse schierato dalla parte della poesia contro un giovane dottore in teologia, pur senza sposare, al contrario di Petrarca, di Boccaccio e di Mussato, il pericoloso teorema che enunciava la coincidenza della poesia con la teologia. Sebbene la correttezza diplomatica e dettatoria imponesse al giureconsulto di limitarsi all'elogio della Genealogia, il suo sguardo non poteva fare a meno di tornare sull'Africa di Petrarca. Al pari di Boccaccio e di Barbato da Sulmona, anche P. ne auspica la liberazione dalla clausura alla quale l'aveva condannata il suo autore, al quale non risparmia alcune asprezze di tono, giudicandolo custode troppo geloso dei propri scritti e ostile agli autori moderni (Billanovich, 1947, pp. 286-287).
Boccaccio, in ossequio alla rigida etichetta degli ambienti letterari dell'epoca, risponde puntualmente a ogni asserzione dell'illustre corrispondente, cui riserva gli appellativi di miles e legum professor clarissimus. Apprezza la difesa della poesia sostenuta da P. contro il teologo; lo ringrazia degli elogi tributati alla sua Genealogia, avvertendo tuttavia di aver affidato il libro a Ugo di Sanseverino a patto che questi non divulgasse un'opera ancora da ritoccare e vi aggiungesse le modifiche che l'autore avesse ritenuto utile suggerire. Sostiene inoltre l'idoneità dello scritto a occupare gli scaffali di una biblioteca conventuale per il suo contenuto intimamente cristiano, volto alla condanna delle superstizioni pagane. Apprendiamo da Boccaccio stesso che egli, in un primo momento, aveva promesso a P. di fargli leggere la Genealogia. In seguito, tuttavia, aveva cambiato parere, temendo il giudizio del giurista napoletano. Informato che questi era venuto comunque a conoscenza del manoscritto in possesso del Sanseverino, lo pregava di apportare le correzioni che avesse ritenuto più opportune. Sappiamo che la lusinghiera esortazione non cadde nel vuoto, visto che reca tracce evidenti dell'intervento di P. l'autografo della Genealogia conservato nella Biblioteca Laurenziana (LXI, 2). Esso evidenzia radicali interventi che investono persino il titolo dell'opera, chiamata in un primo momento dal suo autore Genologia. Tra varianti, rasure e correzioni spicca la puntualità con cui P. si sofferma a distinguere Seneca morale da quello tragico.
La seconda parte della responsiva è dedicata alla strenua difesa di Petrarca, di cui P. mostra di conoscere la Senile II, 1, nonché al ricordo dei comuni amici Ugo di Sanseverino e Angelo da Ravello.
Gli ozi letterari del giurista napoletano lasciano una traccia indelebile nella produzione boccacciana. Le argomentazioni in difesa della poesia contenute nell'epistola di P. si trovano infatti puntualmente recepite in diverse sezioni dei due ultimi libri della Genealogia e in un ampio brano del Commento alla Commedia (C. I, I, L. III, 71-111). Nessun argomento del nostro compare invece nelle tre redazioni del Trattatello in laude di Dante (Billanovich, 1955, p. 41 n. 127).
Circa la sua famiglia, sappiamo che P. ebbe un figlio di nome Andrillo o Nicola Andrillo, anch'egli giureconsulto (Capasso, 1869, p. 88).
P. scomparve attorno al 1384 e, stando alla testimonianza di Matteo d'Afflitto, fu sepolto nella chiesa di S. Maria Donnaromita, nel sedile di Nido (d'Afflitto, 1788, c. 202r).
Fonti e Bibl.: Napoli, Biblioteca Nazionale, B. Chioccarelli, De illustribus viris, c. 57. T. Grammatico, In constitutionibus, capitulis et pragmaticis Regni Neapolitani et ritibus Magnae Curiae Vicariae additiones et apostillae […] Accesserunt etiam aliquae ultimae et pulcrae quaestiones domini Bartholomaei de Capua, et amplissimus totius voluminis index. Nunc primum in lucem aeditae, Venetiis 1562, cc. 142v, 163v; Luca da Penne, Commentaria in tres posteriores libros Codicis Iustiniani, Lugduni 1582, pp. 134a, 217b, 420b-421a, 938b; M. d'Afflitto, Super tres feudorum libros Commentaria, Francofurti 1598, pp. 592-594; Constitutionum Regni Siciliarum libri III. Cum commentariis veterum iurisconsultorum. Accedit nunc primum Domini Alfeni Vari J.C. commentarius ad Friderici II imperatoris et regis constitutionem de rebus non alienandis Ecclesiis, sumptibus Antonii Cervonii, Neapoli 1773, pp. 166a, 170b, 204b; M. d'Afflitto, Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani, Venetiis 1788, c. 202r; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli raccolte da Lorenzo Giustiniani, III, Napoli 1788, p. 62; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, ivi 1844, p. 271; B. Capasso, Sulla storia esterna delle costituzioni del regno di Sicilia promulgate da Federico II, ivi 1869, in partic. pp. 87-88, 94-96, 102, 106, 118-119 (estratto in volume dagli "Atti dell'Accademia Pontaniana", 9, 1869); A. Hortis, Studj sulle opere latine del Boccaccio con particolare riguardo alla storia dell'erudizione nel Medio Evo e alle letterature straniere. Aggiuntavi la bibliografia delle edizioni, Trieste 1879, pp. 347-348; M. Camera, Elucubrazioni storico-diplomatiche su Giovanna I di Napoli e Carlo III di Durazzo, Salerno 1889; N.F. Faraglia, Barbato da Sulmona e gli uomini di lettere della corte di Roberto d'Angiò, "Archivio Storico Italiano", ser. V, 3, 1889, pp. 343-346, 353-357 (poi in Id., I miei studi storici delle cose abruzzesi, Lanciano 1893, in partic. pp. 101-149, 154-157); M. Vattasso, Del Petrarca e di alcuni suoi amici, Roma 1904, pp. 32-33; A. Miola, Catalogo topografico-descrittivo dei manoscritti della R. Biblioteca Brancacciana, I, Napoli 1918-1921, p. 74; G.M. Monti, L'età angioina, in F. Torraca et al., Storia dell'Università di Napoli, ivi 1924 (1993), pp. 25, 83; R. Pescione, Corti di giustizia nell'Italia meridionale. Dal periodo normanno all'età moderna, Milano-Napoli 1924, p. 37; M.M. Wronowski, Luca da Penne e l'opera sua, Pisa 1925, pp. 12, 79; É.G. Léonard, His-toire de Jeanne Ière, I-II, Monaco-Paris 1932-1936; G.M. Monti, Il collegio napoletano dei dottori in diritto sotto Giovanna I, in Id., Nuovi studi angioini, Trani 1937, p. 482; G. Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, pp. 286-287; Id., Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze 1955, pp. 1-76; Giovanni Boccaccio, Epistole, in Opere in versi. Corbaccio. Trattatello in laude di Dante. Prose latine. Epistole, a cura di P.G. Ricci, Milano-Napoli 1965, pp. 1212-1230; Id., Esposizione sopra la Commedia di Dante, a cura di G. Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, VI, Milano 1965, pp. 33-43; M. Ascheri, Giuristi, umanisti e istituzioni del Tre-Quattrocento: qualche problema, "Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico in Trento", 3, 1977, pp. 43-73 (ora con aggiornamenti in Id., Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della cultura e delle fonti giuridiche, Rimini 1991, pp. 105-116); U. Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari 1992, p. 246; E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il basso medioevo, Roma 1995, p. 383; D. Maffei, Manoscritti giuridici napoletani del Collegio di Spagna e loro vicende fra Quattro e Cinquecento, in Id., Studi di Storia delle Università e della letteratura giuridica, Goldbach 1995, p. 327* n. 6; E. Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma 2000, p. 363.