POLANI, Pietro
POLANI, Pietro. – Nacque presumibilmente a Venezia nel 1098, figlio di Domenico, residente nella parrocchia di S. Luca. Proveniva da una famiglia ‘nuova’, probabilmente immigrata da Pola (via Chioggia) alla metà dell’XI secolo, dedita al grande commercio internazionale.
Il padre, Domenico, aveva conosciuto una rapida affermazione economica a Costantinopoli, dove si era distinto non solo per la sua intraprendenza commerciale, ma anche per i servizi resi alla compagine imperiale, tanto da essere insignito, malgrado la sua condizione di straniero, del titolo di protonobelissimos. Anche Pietro si dedicò precocemente al commercio con la Romània bizantina; lo troviamo, ancora adolescente, a bordo della nave che aveva trafugato da Costantinopoli, nel 1110, il corpo di santo Stefano protomartire. Le fortune commerciali furono il volano della sua rapida ascesa sociale in patria, tanto da ottenere in sposa, in una data imprecisata, una figlia del doge Domenico Michiel, Adelasa. Dal matrimonio nacquero due figli, Guido e Naimerio. Ad accrescerne il prestigio personale contribuì la partecipazione alla fortunata spedizione crociata nel 1122-24, conclusasi con la conquista di Tiro e l’acquisizione da parte di Venezia di importanti privilegi commerciali nel Regno di Gerusalemme.
Quando nel 1129 il vecchio doge Domenico Michiel, stanco e ammalato, decise di abdicare e di ritirarsi a vita monastica, la scelta del successore cadde sul suo giovane genero. L’elezione rispondeva a logiche di coerenza e stabilità, stante la parentela acquisita con la famiglia dogale; allo stesso tempo, però, trattandosi di un uomo ‘nuovo’, Pietro Polani rappresentava una soluzione di discontinuità, gradita ai più, in specie a quanti temevano una influenza prevaricatrice del clan dei Michiel sulla compagine di governo. Polani godeva, infatti, di un consenso diffuso, derivatogli dai suoi successi personali, ma anche dalla sua capacità di cogliere e valorizzare i cambiamenti istituzionali in atto, pur nel rispetto degli assetti costituiti. In tal senso, appare significativa la sua cerimonia di elezione, dalla quale per la prima volta scomparvero il bastone e lo scettro, simboli di regalità, spia evidente di un regime ducale che si voleva meno accentrato e più condiviso.
Sin dall’inizio del dogado in effetti Polani allargò la base di governo, introducendo a corte nuove famiglie e adottando modelli di potere più partecipati; e che fossero in atto profondi cambiamenti è confermato dall’avvio in città dell’esperienza comunale. A partire dal 1141, infatti, compaiono per la prima volta a fianco del doge e della sua corte dei sapientes; dal 1143 risulta operativo un Consiglio di savi, cui il popolo doveva fedeltà e obbedienza; dal 1144 il termine comune si impone con sempre maggior frequenza nella documentazione pubblica. Il nuovo Consiglio andava a interporsi tra il duca e il populus, sino allora unici depositari della potestà pubblica, sottraendo poteri a entrambi; esso nasceva dalla domanda dei gruppi eminenti di una maggiore partecipazione al governo cittadino, nonché dalla volontà di limitare la potestà ducale e controllarne le decisioni.
Non appena divenuto doge, Polani dovette confrontarsi con la delicata questione dello scisma scoppiato nel 1130, con l’elezione contemporanea di due papi, Innocenzo II e Anacleto II. Per qualche tempo, preferì non schierarsi apertamente con alcuna delle due parti, sebbene rimanesse aperto il problema dell’assegnazione della cattedra del patriarcato di Grado, allora vacante. La successiva scelta a favore di Innocenzo II fu in qualche modo obbligata, in quanto Anacleto II era troppo invischiato con i Normanni di Sicilia, da tempo divenuti una minaccia per Venezia, viste le loro aggressive pretese di controllo sull’Adriatico meridionale e i disegni di conquista dell’impero bizantino. Così, quando nel 1132 Innocenzo II convocò un concilio a Piacenza, Polani vi mandò i propri rappresentanti, palesando apertamente le sue preferenze; fu anche un modo per sbloccare la faccenda di Grado, visto che la cattedra fu di lì a breve assegnata a Enrico Dandolo, gradito sia al pontefice sia allo stesso doge (al quale interessava che il nuovo patriarca riconoscesse i diritti di Giovanni Polani, suo parente, eletto vescovo della diocesi suffraganea di Castello).
In realtà, i rapporti tra il patriarca di Grado e il vescovo di Castello si fecero subito molto tesi, trascinando nella contesa lo stesso doge. Erano in gioco questioni di giurisdizione: da qualche tempo il patriarca aveva spostato la sua residenza in città, interferendo pesantemente sul governo vescovile della diocesi Castellana.
I contrasti maggiori tra Dandolo e la corte ducale sorsero all’indomani degli accordi stretti da Polani con l’impero bizantino, nel 1147-48, in chiave antinormanna: l’alleanza, infatti, con i greci scismatici fu pesantemente condannata da Dandolo, inflessibile sostenitore dello spirito gregoriano, in ciò appoggiato dagli ambienti riformisti della città, tra cui la casata dei Badoer. Esasperato dall’opposizione radicale del patriarca, Polani reagì duramente, non ammettendo l’interferenza di ecclesiastici in questioni di stretta natura politica e di vitale importanza per l’affermazione della città; ordinò così l’esilio di Dandolo e dei suoi sostenitori e la distruzione delle case dei Badoer. L’indomabile patriarca, tuttavia, chiese l’intervento di papa Eugenio III, che scomunicò il doge e comminò l’interdetto sulla città.
Proseguiva intanto, in quegli anni, l’affermazione di Venezia quale potenza marittima e commerciale, e quale punto di collegamento privilegiato tra due macroeconomie – l’Occidente latino e il Levante mediterraneo – in via di progressiva integrazione. In tale ottica, il rinnovo dei patti concessi dall’imperatore germanico Lotario III nell’ottobre 1136 aveva garantito alla città una libertà di commercio e movimento nell’entroterra padano funzionale al ruolo di intermediazione economica svolto dall’emporio realtino. Forte delle intese raggiunte con Lotario, Polani si rivolse quindi a rafforzare il predominio esercitato in Adriatico. Il trattato commerciale sottoscritto nel 1139 da Polani con i Normanni, dopo anni di ostilità, oltre a spalancare ai veneziani i mercati di approvvigionamento dell’Italia meridionale, riconobbe la sostanziale sovranità di Venezia sulle acque del medio-alto Adriatico. I passi successivi consolidarono la supremazia su entrambi i litorali adriatici. Sulla costa occidentale, Polani stipulò un trattato con Fano nel 1141, che garantiva ampi privilegi commerciali ai veneziani in cambio della protezione militare della città marchigiana. Sulla sponda orientale, i legami di fedeltà e protezione delle città istriane furono trasformati in veri e propri rapporti di subordinazione e di dominio effettivo (patti con Pola e Capodistria, 1145). L’ascesa commerciale e militare di Venezia provocò però la rottura dei fragili equilibri esistenti in Terraferma. Polani dovette in particolare fronteggiare, tra il 1142 e il 1144, la grave crisi esplosa con Padova per motivi di confini e di governo delle acque fluviali. La guerra scoppiò nel 1142 a causa dei lavori intrapresi dai padovani per deviare le acque del fiume Brenta, allo scopo di realizzare una nuova via d’accesso alle lagune più rapida e agevole. Venezia, irritata per i vantaggi – in termini sia economici sia di controllo della viabilità fluviale – che la città rivale avrebbe tratto dall’intervento, mosse guerra contro i padovani, riportando una netta vittoria.
A dare un ulteriore impulso alla crescita di peso economico e militare di Venezia nel Mediterraneo concorse, nel 1147, il riacutizzarsi della minaccia normanna. Dopo qualche anno di pausa, il re normanno Ruggero II riprese i disegni di conquista dell’impero bizantino, attaccando Corfù. Anche per Venezia il pericolo era grave, dato che l’insediamento di un’unica potenza su entrambe le sponde adriatiche avrebbe potuto soffocare i traffici nell’alto Adriatico. Polani diede perciò il suo gradimento alla formale richiesta di aiuto militare da parte di Manuele I Comneno, che ratificò la collaborazione con l’emissione di due crisobolle (1147-48), in cui confermava ai veneziani gli antichi privilegi – aggiungendo l’autorizzazione a commerciare in regime di esenzione anche nelle isole di Creta e Cipro – e concedeva loro l’ampliamento del quartiere di Costantinopoli. Il doge stesso si mise a capo dell’impresa, assumendo, nella primavera del 1148, il comando della spedizione; tuttavia, nell’estate egli cadde gravemente malato, mentre la flotta sostava a Caorle in attesa di prendere il mare. La spedizione fu quindi assegnata a Domenico e a Naimerio Polani, rispettivamente fratello e figlio del doge, che avrebbero condotto la squadra navale al successo sul nemico. Polani, invece, fu riportato a Venezia, dove morì nella stessa estate del 1148 appena cinquantenne; fu sepolto nel monastero di San Cipriano di Murano.
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