POMPONAZZI, Pietro
POMPONAZZI, Pietro (Petrus Pomponatius Mantuanus, de Pomponatiis). – Nacque a Mantova il 16 settembre 1462 in una famiglia agiata, da tempo legata ai Gonzaga, come sostiene una sua lettera del 1505 a Francesco II: «duecento anni li miei progenitori siamo sub numine de la casa Gonzaga» (Fiorentino, 1868, p. 11, n. 4). Il padre, Giovanni Nicola, era già scomparso nel 1493; da un fuggevole cenno contenuto nel De nutritione (I, 6, p. 2142) sembra che la madre, il cui nome è ignoto, fosse ancora in vita attorno al 1488. Un fratello, Pietro Giovanni, legum doctor e notaio, morì sul finire del 1520, lasciando i due figli, Marco e Giulio, affidati alla tutela dello zio; una sorella, Paolina, nel 1524 era monaca nel monastero di S. Silvestro di Mantova; di un altro fratello, Bernardino, iuris peritus, si hanno notizie fino al 1494 (Nardi, 1965, p. 224). Pomponazzi si sposò tre volte: del 14 dicembre 1500 è il contratto di nozze con Cornelia Dondi dall’Orologio che gli dette due figlie, Lucia e Ippolita; rimasto vedovo dopo il 1504, si coniugò nel 1507 con Ludovica di Pietro da Montagnana, che gli morì nel 1511; la terza moglie fu la vicentina Adriana della Scrofa, sposata poco prima della primavera del 1515, che gli sopravvisse.
Il 12 gennaio 1484 «Petrus Pomponatius Mantuanus» risulta già immatricolato come artium scholaris all’Università di Padova (Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini, 2001, p. 694, n. 1; il 16 aprile 1485 sembra ricordato anche con il suo secondo nome, «Petrus Martir de Pomponatiis de Mantua», p. 750, n. 1). Nel ginnasio patavino seguì le lezioni di metafisica in via Thomae del domenicano Francesco da Nardò e forse quelle in via Scoti del francescano Antonio Trombetta, quelle di filosofia naturale di Pietro Trapolino e di Nicoletto Vernia e quelle di medicina di Pietro Roccabonella. Del magistero di questi precettori conservò un ricordo rispettoso e devoto – con eccezione del Vernia, sul quale amava raccontare irriverenti aneddoti durante le lezioni (Nardi, 1958, pp. 95-126). Nel giugno del 1487 era già dottore in artibus e nell’autunno del 1488 iniziò il suo insegnamento in qualità di professore straordinario di filosofia secundo loco con lo stipendio di 50 fiorini, riscuotendo «multa gratia de li auditori», come riferisce una lettera di Francesco II Gonzaga, indirizzata l’anno seguente a Tommaso Lippomano (Fontana, 1869, p. 83). Nel 1492 il Senato veneto gli concesse un aumento di stipendio, portandolo a 80 fiorini, «il che significava promuoverlo alla lettura ordinaria di filosofia secundo loco» (Nardi, 1958, p. 157); dall’ottobre 1495 occupò la cattedra di filosofia ordinaria primo loco, avendo come concorrente Agostino Nifo.
Poco prima del marzo 1496 si addottorò in medicina. Nell’ottobre di quell’anno rinunciò all’incarico per recarsi presso Alberto Pio di Savoia, signore di Carpi, con cui condivise l’esilio a Ferrara. La ricca biblioteca del suo patrono gli offrì l’occasione di entrare in contatto con una cultura filosofica e letteraria molto lontana dalla sua preparazione scolastica; ma la lettura di Marsilio Ficino, di Giovanni Pico (zio per parte materna di Alberto Pio) e di qualche altro ‘platonico’ (forse il cardinale Giovanni Bessarione) non esercitò una significativa influenza sul suo modo di affrontare i problemi antropologici e metafisici. Neppure la frequentazione personale con i letterati e gli umanisti raccolti attorno al principe di Carpi gli trasmise l’entusiasmo per la ricostruzione filologica dei testi antichi, anche se nelle sue lezioni talvolta informava gli allievi di avere consultato validi grecisti per farsi tradurre un passo o per ricevere conferma del significato di una parola. Durante questo soggiorno Pomponazzi tenne lezioni di logica e discusse le dottrine dei calculatores di Oxford, William Heytesbury e Richard Swineshead, sulla misurazione del processo di alterazione qualitativa (intensio et remissio formarum) – tema ‘fisico’, che aveva assai interessato la generazione immediatamente precedente dei maestri padovani (Iacopo da Forlì, Giovanni Marliani), ma per il quale Pomponazzi mostrò sempre una profonda avversione teorica. Dell’attività svolta in questi anni sono testimonianza la riportazione manoscritta delle lezioni Super libros Peryhermeneias Aristotelis (Bologna, Biblioteca Universitaria, 301, ff. 482r-498v), il trattatello De maximo et minimo ad Laurentium Molinum, che lasciò manoscritto (edito da Poppi, 1966-1970, II, pp. 219-242) e il Tractatus utilissimus in quo disputatur penes quid intensio et remissio formarum attendantur nec minus parvitas et magnitudo (Bononiae, per Hyeronimum Platonidem de Benedictis, die X decembris 1514), dedicato al signore di Carpi in ideale prosecuzione delle loro passate conversazioni.
Nel 1499 per interessamento di Bernardo Bembo, visdomino a Ferrara, il Senato veneto lo richiamò a Padova per occupare la cattedra di filosofia ordinaria rimasta vacante dopo la morte di Nicoletto Vernia; l’incarico fu rinnovato negli anni seguenti con significativi aumenti di stipendio. Durante quel periodo didattico ebbe come concorrenti Antonio Fracanzano (nel 1499 e di nuovo dal 1502 al 1506) e gli averroisti sigieriani Tiberio Bacillieri (dal 1500 al 1501) e Alessandro Achillini (dal 1506 al 1508); tra i tanti allievi che seguirono le sue lezioni padovane furono Gaspare Contarini, Andrea Mocenigo, nipote del doge, Antonio Surian, Domenico Grimani, Marcantonio Zimara, Lazzaro Bonamico e Paolo Giovio.
Nei suoi corsi Pomponazzi era tenuto a esporre il De anima, i Physicorum libri, il De caelo et mundo di Aristotele e i rispettivi commenti di Averroè seguendo la rotazione quadriennale prescritta dallo Statuto per le letture ordinarie (ai giorni festivi era riservata la lettura degli altri tre libri naturali: De generatione et corruptione, Meteorologica, Parva naturalia). Fu particolarmente nell’ambito della psicologia che le sue lezioni attrassero l’interesse degli uditori: già nel corso sul De anima del 1503-04 Pomponazzi dedicò una serie di importanti quaestiones al problema dell’intelletto (Poppi, 1966-1970, II, pp. 1-217), esponendo simpateticamente l’opinione materialista di Alessandro di Afrodisia (l’anima umana è forma del corpo, generabile e corruttibile come tutte le forme materiali) e non soltanto mostrandone la sostenibilità di ordine teorico, ma anche risolvendo le obiezioni di ordine ‘morale’ che sembravano conseguire dall’ipotesi della mortalità dell’uomo. La dottrina averroista dell’intelletto unico e separato venne invece respinta come fatua et bestialis per quel suo spezzare l’intima unità dell’essere umano, secondo una valutazione che Pomponazzi condivise con Tommaso d’Aquino. A quella data, tuttavia, Averroè gli appariva ancora l’interprete fedele di Aristotele: alla dichiarazione della mortalità dell’anima umana, che pure era giudicata coerente con la ragione e con l’esperienza e compatibile con la fondazione della virtù, mancava ancora la garanzia dell’auctoritas (Poppi, 1970).
Nel giugno del 1509 le truppe imperiali della Lega di Cambrai in guerra contro Venezia entrarono in Padova; un mese più tardi, il 17 luglio, i veneziani riconquistarono la città e lo Studio dovette sospendere l’attività didattica: molti professori, che non erano stati ostili agli occupanti, fuggirono per timore delle rappresaglie; altri si allontanarono nel settembre, quando le milizie imperiali posero nuovamente l’assedio. Pomponazzi, che era tornato a Mantova, in ottobre accettò l’offerta dell’Università di Ferrara. Il trasferimento era stato fortemente caldeggiato da Alfonso d’Este, che per vincere le esitazioni di Pomponazzi, richiesto anche da Firenze e Pavia, aveva sollecitato l’intervento della sorella, Isabella Gonzaga, affinché intercedesse presso «messere Pedreto, almeno che per questo anno voglia satisfarmi», e si era molto impegnato per far approvare dai Riformatori dello Studio la lauta retribuzione di 300 ducati d’oro che era stata richiesta dal maestro (Luzio - Renier, 1899, pp. 37-40). La permanenza presso il ginnasio estense durò un solo anno; nel 1510 Pomponazzi fece ritorno nella sua città natale.
Nell’ottobre del 1511 i Riformatori dello Studio di Bologna, dando seguito a una proposta già approvata due anni prima, gli offrirono l’insegnamento di filosofia ordinaria con lo stipendio di 900 lire di bolognini; ma Pomponazzi, trattenuto a Mantova dalla morte della moglie e da problemi di salute, prese servizio soltanto qualche tempo dopo (Costa, 1903, pp. 298 s.). L’insegnamento bolognese, che manterrà fino alla morte, si inaugurò tra la fine di novembre e i primi di dicembre con la expositio del XII libro della Metafisica. La reportatio del corso conserva testimonianza dell’atmosfera di incertezza che in quel travagliato momento storico regnava in città, riverberandosi anche sulla vita universitaria: Bologna, da ottobre occupata dai francesi, attendeva la prevedibile reazione di Giulio II, che infatti di lì a poco (gennaio 1512) la strinse d’assedio con l’appoggio delle truppe spagnole, riuscendo ad averne ragione in maggio; da gennaio a maggio Pomponazzi sospese le lezioni «propter Hispanos tunc Bononiam machinis infestantes», come annotò lo studente (Paris, Bibliothèque nationale, lat. 6537, f. 148r), e si rifugiò a Mantova, dove in seguito lo raggiunsero i ripetuti richiami dello Studio, che aveva ripreso la propria attività didattica almeno da aprile. Pomponazzi era di nuovo a Bologna nel maggio del 1512.
Nel 1514 fu colpito da una denuncia di eresia, originata dalle disinvolte affermazioni fatte a lezione: nel commentare il prologo di Averroè al III libro della Fisica Pomponazzi si era infatti dilungato con particolare enfasi sugli ostacoli che i pregiudizi dell’educazione religiosa (consuetudo) frappongono alla mente umana nel suo cammino conoscitivo (Nardi, 1965, pp. 132-137). Pur esposto con i toni più spregiudicati che la veste di ‘commentista’ gli consentiva, si fa qui riconoscere un motivo costante del pensiero pomponazziano, ovvero la caratterizzazione di filosofia e religione come ambiti metodologicamente incompatibili e destinati a finalità del tutto distinte: mentre la filosofia si muove utilizzando gli strumenti della ragione allo scopo di acquisire la verità, la religione ha il compito di educare alla virtù mediante i suoi apologhi ‘né veri né falsi’ che rappresentano l’unica forma di insegnamento morale accessibile ai simplices. L’accusa non ebbe seguito e l’anno accademico successivo Pomponazzi ribadì la stessa prospettiva nel corso sul De anima, di nuovo affermando la maggiore sostenibilità filosofica dell’interpretazione materialista di Alessandro di Afrodisia (di contro all’esegesi averroistica, ancora identificata con la posizione di Aristotele) e riservando alla pura fede la certezza dell’immortalità dell’anima.
Entrato in contrasto con i Riformatori nel 1514 sul rinnovo dell’incarico in scadenza l’anno successivo, Pomponazzi meditò per qualche tempo di accettare l’offerta di Firenze, che lo voleva lettore a Pisa: non se ne fece di niente e la conferma della condotta a Bologna fu firmata il 13 ottobre 1515; ma gli Ufficiali dello Studio fiorentino gli intentarono una causa per inadempienza presso la corte di Roma, che fu composta soltanto nel 1519. È del 1515 la stampa del Tractatus de reactione (Bononiae, in aed. Benedicti Hectoris, die quinta septembri 1515), dedicato all’ex allievo Gaspare Contarini, in cui Pomponazzi riprese la polemica contro i calculatores a proposito del rapporto tra potenza attiva e potenza passiva; allo scritto, che aveva destinazione universitaria, Pomponazzi accompagnò la Quaestio an actio realis immediate fieri possit per species spirituales, dedicata al medico mantovano Ludovico Panizza, che gli aveva chiesto di illustrargli la posizione di Aristotele in merito agli effetti medici e magici prodotti dall’immaginazione.
Nel frattempo la politica ecclesiastica nei confronti delle Università aveva abbandonato la linea della non ingerenza, fino allora osservata, registrando una significativa inversione di tendenza. La bolla Apostolici regiminis, il cui testo era stato approvato dall’ottava sessione del Concilio Laterano V nel dicembre 1513, non aveva soltanto definito formalmente l’immortalità dell’anima individuale nei termini della psicologia tomistica e rinnovato la condanna di qualsiasi esegesi mortalista; ma aveva altresì riaffermato il presupposto della consonanza tra ragione filosofica e fede rivelata sui preambula fidei, stabilendo anche per i docenti universitari una serie di disposizioni disciplinari intese a limitare la diffusione di interpretazioni teologicamente inammissibili: i professori, che per obbligo didattico commentassero testi in tutto o in parte contrastanti con la fede, avrebbero dovuto concludere l’esposizione delle tesi contrarie alla posizione della Chiesa (l’eternità del mondo, la mortalità dell’anima, l’unità dell’intelletto) rendendo manifesta e persuasiva la verità cristiana e impegnandosi personalmente (pro viribus) a confutare gli argomenti contrari all’ortodossia (Bianchi, 2008, pp. 127-130). La brusca modifica degli equilibri di autonomia didattica indusse Pomponazzi a intraprendere un confronto critico con la costruzione teologica e politico-religiosa di Tommaso d’Aquino e, più in generale, a sottoporre a un ripensamento profondo il ruolo del cristianesimo all’interno della società contemporanea.
Nel Tractatus de immortalitate animae (Bononiae, per Justinianum Leonardi Ruberiensem, die sexta novembris 1516), dedicato a Marcantonio Contarini, Pomponazzi affrontò nuovamente il problema dell’anima alla luce di un’esegesi complessiva dei testi di Aristotele, che erano adesso definitivamente ricondotti a coerenza da una lettura in senso mortalista. Pur tributando la propria formale sottomissione alla dottrina cristiana, sancita dalla Rivelazione, Pomponazzi affermava che la ragione, l’esperienza, la lettera del testo aristotelico trovano piena soddisfazione solo nel rovesciamento della tesi tomistica: l’anima è mortale per essenza, perché anche la sua operazione più alta, il pensiero, non può fare a meno del corpo, richiedendo sempre la presenza di una rappresentazione della fantasia come motore per iniziare la sua attività; perciò l’intelletto individuale si pone in rapporto con il corpo secondo una modalità che non lo immerge totalmente nella materia, ma neppure gli consente di astrarsene del tutto. Rimettendo il problema del destino spirituale dell’uomo alla competenza esclusiva della fede, in cui la ragione non ha voce, Pomponazzi rivendicava nel contempo l’autonomia della filosofia, legittimata ad applicarsi all’indagine sulla realtà con i propri strumenti dimostrativi e senza subordinazione all’autorità dogmatica della Chiesa.
La pubblicazione del De immortalitate animae destò ampio scandalo: molti professori disapprovarono la sua linea esegetica, che accantonava tanto la lettura averroistica quanto quella tomasiana della psicologia aristotelica; durante la predicazione quaresimale del 1517 a Mantova il vescovo Ambrogio Fiandino, suffraganeo di Sigismondo Gonzaga, tuonò contro l’autore del libercolo (che non nominava), accusandolo di sostenere tesi erronee e inconsistenti; a Venezia i frati lo denunciarono per eresia presso il patriarca, Antonio Contarini, e convinsero il doge, Lorenzo Loredan, a ordinare il rogo del libro sulla pubblica piazza; richieste pressanti di un procedimento inquisitoriale furono inoltrate a Pietro Bembo, segretario ai brevi di Leone X. Mentre infuriava la polemica e Agostino Nifo preparava una sua ponderosa confutazione del De immortalitate animae, Pomponazzi stese e fece stampare l’Apologia (Bononiae, per Justinianum Leonardi Ruberiensem, die 3 februarii 1518), dedicandola al vescovo Sigismondo Gonzaga. Nei tre libri, che esaminano le critiche di amici e colleghi (particolarmente articolata è la risposta alle misurate osservazioni dell’ex allievo Gaspare Contarini, che occupa l’intero I libro) e respingono le censure delle autorità religiose (III libro), Pomponazzi non solo ribadì l’indiscutibile validità filosofica della tesi mortalista, ma sostenne in forme ancora più esplicite la legittimità del giudizio morale sullo stato presente della Chiesa, divenuta incapace di svolgere il suo ruolo di strumento educativo nell’edificazione di un’etica pubblica condivisa.
Dalla vicenda Pomponazzi uscì indenne grazie all’influente appoggio di Pietro Bembo presso il pontefice: l’atteggiamento indulgente, che secondo l’Apologia (III, 2, p. 1494), sarebbe stato tenuto anche dal maestro del Sacro Palazzo, Silvestro Mazzolini, fu da questi decisamente smentito (De strigimagarum demonumque mirandis, Romae 1521, I, 5, f. C4r). L’ingiunzione di ritrattare, che il 13 giugno 1518 Leone X gli fece recapitare (von Ranke, 1854, pp. 73 s., n. 1), non ebbe alcun seguito; né ci furono ripercussioni sulla sua carriera accademica: per scongiurare il rischio di un suo trasferimento a Firenze, nel dicembre del 1518 i Riformatori dello Studio bolognese gli rinnovarono il contratto a condizioni assai vantaggiose, concedendogli anche l’esonero dall’obbligo del concorrente e il privilegio di scegliere a suo arbitrio i testi da leggere ogni anno.
Nel 1519 Pomponazzi scrisse e pubblicò il Defensorium (Bononiae, per Justinianum Leonardi Ruberiensem, die 18 maii 1519), dedicato al vescovo Lorenzo Fieschi in segno di gratitudine per la protezione che gli aveva elargito nel convulso periodo appena trascorso. La pubblicazione dell’opera – che contiene una replica puntuale della confutazione del Nifo, stampata a Venezia nell’ottobre dell’anno precedente – fu autorizzata dall’inquisitore Giovanni de Torfaninis e dal vicario generale Alessandro de Peracinis a condizione che includesse la solutio degli argomenti contrari alla dottrina di fede: Pomponazzi ne incaricò il domenicano Crisostomo Javelli, reggente dello Studio domenicano di Bologna, che stese le Solutiones rationum animi mortalitatem probantium quae in Defensorio contra Niphum excellentissimi domini Petri Pomponatii formantur, poste in appendice al Defensorium. Ai numerosi altri che scrissero contro di lui tra il 1518 e il 1524 (Girolamo Amidei, Ambrogio Fiandino, Bartolomeo Spina, Luca Prassicio, Marcantonio Zimara, Battista Fiera) Pomponazzi non rispose.
Nel 1520 sottoscrisse il De incantationibus e i cinque libri De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione (rispettivamente il 16 agosto e il 25 novembre). L’autore ne permise la precoce circolazione manoscritta tra studenti e sodali, ma non consegnò al tipografo nessuna delle due opere: indizi interni fanno sospettare che i codici conservino la testimonianza di una riflessione ancora non conclusa – non soltanto dal punto di vista metodologico e concettuale, bensì anche da quello della rifinitura formale. Può darsi che a queste motivazioni interne si siano aggiunte in seguito anche considerazioni esterne (l’allontanamento dalla corte pontificia del suo influente protettore Pietro Bembo, l’intensificarsi dell’attività inquisitoriale e, soprattutto, la morte di Leone X nel 1521) che infine convinsero Pomponazzi a rinunciare del tutto alla stampa; le due opere videro la luce molto più tardi (nel 1556 e nel 1567) per cura del medico bergamasco Guglielmo Grataroli, esule a Basilea per motivi di religione.
Il De incantationibus è dedicato a Ludovico Panizza, per il quale cinque anni prima era stata composta la Quaestio an actio realis: all’origine del De incantationibus vi sarebbe stata la sollecitazione dell’amico, che chiedeva a Pomponazzi di spiegare l’eziologia dei fatti magici, chiarendo la posizione dei peripatetici sia rispetto alla risposta cristiana, che si appella all’intervento dei demoni, sia rispetto alla teoria avicenniana, che attribuisce all’anima umana il dominio sulla materia e la capacità di esercitare una attività in distans. La riflessione di Pomponazzi venne però ampliandosi nel corso della stesura e, sconfinando dai termini proposti dall’interlocutore, si risolse nella critica serrata della demonologia inquisitoriale e nella ricerca di una spiegazione ‘secondo natura’, cioè coerente con i principi della fisica e della metafisica peripatetiche, per la totalità dei mirabilia di cui si nutriva l’immaginario collettivo del tempo: il movimento astrale, principio di ordine e di regolarità di tutto il divenire, esplica il disegno impersonale delle cause universali nel mondo sublunare, contraendosi alla particolarità delle vicende individuali. Nel De fato Pomponazzi propose un ripensamento della nozione aristotelica di libertà conducendolo da due punti di vista diversi: nei primi due libri domina il punto di vista teorico-filosofico, che affronta la questione del rapporto di libertà e necessità, anche in connessione con la discussione sulla validità esplicativa dell’astrologia (nel 1494 erano uscite le Disputationes adversus astrologiam divinatricem di Giovanni Pico della Mirandola); nei tre libri successivi subentra invece il punto di vista teologico-pratico, che si interroga sul rapporto di libero arbitrio e grazia, rilanciato dalla rinascita agostiniana del tardo Quattrocento e dalla crisi luterana. Dal punto di vista speculativo la libertà intesa in senso cristiano (come potenza di fare gli opposti) è presentata come un controsenso filosofico in via Aristotelis: anche l’anima umana, essendo forma materiale, è sottoposta alla legge di causalità che governa la natura. La libertà dell’uomo è ridotta alla capacità di usare la ragione come mezzo ordinato al fine dalla causa superiore; ma il suo retto uso (e dunque la stessa virtù) dipendono dalla configurazione stellare che ha presieduto alla formazione dell’individuo, anche se l’azione che ne consegue non deriva da una costrizione ‘esterna’ in senso proprio e resta dunque moralmente valutabile, lasciando intatto il sistema di premi e punizioni terreni che consente il mantenimento della società. Esclusa la sostenibilità di una formulazione dimostrativa (filosoficamente impossibile) della libertà, della provvidenza e della predestinazione dei teologi, Pomponazzi ne propose però una riformulazione ‘ragionevole’ (libri III-V), che si muoveva nell’ambito non filosofico dei dati della fides cristiana e si ingegnava a fornire – da un punto di vista pratico-politico – una soluzione accettabile dal senso comune dei vulgares e perciò capace di esplicare tutte le potenzialità socialmente utili della credenza religiosa.
Nel 1521 Pomponazzi scrisse e pubblicò il De nutritione et auctione (Bononiae, per Hieronymum de Benedictis, die 20 octobris 1521), dedicato al cardinale Domenico Grimani, su un tema topico dalla tradizione biologica peripatetica, quello dell’accrescimento dei corpi viventi, che egli intese come un processo unitario garantito dall’azione dell’anima, presente in tutto il corpo e dunque estesa e divisibile in rapporto alle sue parti.
L’11 dicembre del 1522 Ercole Gonzaga giunse a Bologna per completare gli studi. La madre, Isabella d’Este, lo aveva raccomandato caldamente a Pomponazzi, che lo affidò alle cure del grecista Lazzaro Bonamico, seguendone però costantemente i progressi, di cui tenne informata la marchesa (Luzio, 1886, pp. 374-386). Nella primavera del 1524 l’insorgere del mal della pietra lo costrinse a interrompere le lezioni per qualche mese; il 20 maggio volle dettare il suo testamento (Nardi, 1965, pp. 206-210); ma nell’inverno successivo tornò di nuovo in cattedra.
Nel marzo del 1525 fu stampata a Venezia la raccolta dei trattati pubblicati negli anni precedenti, Tractatus acutissimi, utillimi et mere peripatetici (Venetiis, sumpt. heredum Octaviani Scoti, calendis martii 1525). Nuovamente aggravatosi, si spense il 18 maggio del 1525 – lasciandosi morire di inedia, se si deve prestar fede al resoconto che ne fece Antonio Brocardo («deliberando di non mille ma una volta sola morire, quel vero philosopho disprezzatore di morte si pose a non voler mangiare […] et per prieghi, minaccie o forza che sieno state adoperate, mai non ha voluto fare altrimenti», Sanudo, 1893, coll. 387 s.).
In esecuzione delle sue volontà testamentarie, Ercole Gonzaga si incaricò di trasportare la salma a Mantova affinché fosse tumulata, come richiesto dall’amato maestro, nella chiesa di S. Francesco, dove gli fece erigere un monumento funebre, poi andato distrutto.
Opere. Le opere comprese nella raccolta Tractatus acutissimi sono ora edite in Tutti i trattati peripatetici, a cura di J.M. García Valverde, Milano 2013; il De fato e il De incantationibus hanno avuto un’edizione critica a cura, rispettivamente, di R. Lemay, Lugano 1957, e di V. Perrone Compagni, Firenze 2011. I manoscritti contenenti le reportationes dei corsi universitari sono elencati (e in qualche caso anche frammentariamente editi) da B. Nardi, Studi su P. P., Firenze 1965, pp. 54-87; molti di essi sono stati in seguito pubblicati in tutto oppure in parte: Corsi inediti dell’insegnamento padovano, a cura di A. Poppi, I-II, Padova 1966-1970; M.R. Pagnoni Sturlese, I corsi universitari di P. P. e il ms. Neap. VIII D 81, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia, s. 3, VII (1977), 1, pp. 801-842; Quaestio de nutritione ex odoribus. Quomodo ferrum moveatur ad magnetem, in F. Graiff, Aspetti del pensiero di P. P. nelle opere e nei corsi del periodo bolognese, in Annali dell’Istituto di filosofia. Università di Firenze, I (1979), pp. 110-120; Expositio super primo De anima, in L. Olivieri, Certezza e gerarchia del sapere, Padova 1983, pp. 177-195; An anima nostra sit mortalis, in S. Perfetti, «An anima nostra sit mortalis». Una «quaestio» inedita discussa da P. P. nel 1521, in Rinascimento, XXXVIII (1988), pp. 217-226; Utrum anima sit mortalis vel immortalis, a cura di W. van Dooren, in Nouvelles de la République des Lettres, I (1989), pp. 71-135; Quaestio de immortalitate animae. Quaestio de unitate intellectus, in P.O. Kristeller, Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1993, pp. 370-392; Quaestio de alchimia, in P. Zambelli, P. sull’alchimia: da Ermete a Paracelso?, in Studi filologici e letterari in memoria di D. Aguzzi-Barbagli, a cura di D. Bocassini, Stony Brook (N.J.) 1997, pp. 112-122; Expositio super primo et secundo De partibus animalium, a cura di S. Perfetti, Firenze 2004; Quaestio de genitis ex putri materia, in V. Perrone Compagni, La stagione delli frumenti. Due lezioni di P. sulla generazione spontanea, in Bruniana & Campanelliana, XVII (2011), pp. 199-219.
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