Pietro Pomponazzi
L’intera vicenda biografica e intellettuale di Pietro Pomponazzi si svolse nelle aule dell’università. L’unilateralità di questa esperienza di vita è solo apparente, giacché Pomponazzi seppe trasformare il proprio ufficio di docente e di commentatore dei testi aristotelici in una seria e profonda riflessione sul ruolo della filosofia nella società, a cui si accompagnò un’analisi critica coraggiosa, quando non sconsideratamente audace, sulla funzione della Chiesa, istituzione investita di precisi e fondamentali compiti educativi nell’ambito del corpo statale.
Pietro Pomponazzi nacque a Mantova il 16 settembre 1462. Dal 1484 frequentò l’Università di Padova, addottorandosi in Arti nel 1487. Nell’anno accademico successivo fu nominato professore straordinario di filosofia ‘secundo loco’; nel 1492 passò alla cattedra di filosofia ordinaria ‘secundo loco’ e nel 1495, a quella ‘primo loco’; prima del marzo del 1496 si addottorò in medicina. Nello stesso anno lasciò Padova per recarsi alla corte di Alberto Pio da Carpi; lo seguì nell’esilio a Ferrara, dove rimase fino al 1499, quando accettò la chiamata a Padova, ottenuta grazie all’interessamento di Bernardo Bembo. A partire dal 1504, la sua fama di docente gli valse l’esenzione dall’obbligo delle ‘ballottazioni’, le valutazioni annuali espresse dagli studenti sull’insegnamento ricevuto. Nel 1507 perdette la moglie, Cornelia Dondi, che aveva sposato nel 1497 e gli aveva dato due figlie, Lucia e Ippolita; si risposò subito con Ludovica da Montagnana. Nel giugno del 1509 Padova veniva occupata dalle truppe della Lega di Cambrai in guerra contro Venezia; l’attività didattica dello Studio proseguì fino a luglio, quando i veneziani riconquistarono la città e molti professori, che non erano stati ostili agli invasori, si allontanarono da Padova per timore di rappresaglie. Pomponazzi si trasferì per un anno all’Università di Ferrara su invito del duca Alfonso d’Este; alla chiusura di quello Studio si ritirò a Mantova. Nel 1510 accettò la chiamata dell’Università di Bologna, dove si recò l’anno seguente. Rimasto nuovamente vedovo, prese in moglie Adriana della Scrofa.
Nel 1514 fu costretto a interrompere le lezioni per un’accusa di eresia, che però non ebbe seguito. Nel 1516 fece stampare il Tractatus de immortalitate animae, che suscitò ampio scandalo per l’interpretazione mortalista della psicologia aristotelica. L’appoggio di Pietro Bembo alla corte papale consentì a Pomponazzi di evitare il peggio, anche se la pubblicazione di una sua veemente Apologia (1518) provocò una nuova ondata di denunce per l’asprezza delle critiche rivolte agli ordini religiosi. Nel giugno del 1518 Leone X gli inviò una richiesta di ritrattazione, che Pomponazzi non pronunciò mai. Nello stesso anno lo Studio scongiurava il pericolo di un suo trasferimento a Pisa offrendogli un contratto vantaggioso insieme all’esonero dall’obbligo del concorrente e al privilegio di scegliere liberamente i testi da commentare nei corsi. Nel 1519 era pronto il Defensorium, risposta alle critiche rivolte al De immortalitate animae dall’ex collega Agostino Nifo; la stampa fu autorizzata dall’inquisitore a condizione che l’opera fosse accompagnata dalla confutazione degli argomenti mortalisti propostivi: Pomponazzi ottemperò alla richiesta incaricando della stesura il domenicano Giovanni Crisostomo Javelli. La polemica proseguì ancora per qualche anno, ma Pomponazzi non vi prese più parte.
Al 1520 risale la sottoscrizione del De incantationibus (16 agosto) e del De fato, libero arbitrio et praedestinatione (25 novembre), che circolarono immediatamente con una certa ampiezza; ma le due opere forse non erano terminate a quella data e comunque non furono mai inviate al tipografo: il progetto di stampa potrebbe essere stato definitivamente accantonato a causa dell’indebolimento politico di Pietro Bembo che, dopo la morte di Leone X (1521), era lontano da Roma. I due scritti ebbero edizione postuma a Basilea per cura del rifugiato religionis causa Guglielmo Grataroli (nel 1556 il De incantationibus, nel 1567 la seconda edizione del De incantationibus e la princeps del De fato). Nel 1521 Pomponazzi fece stampare il De nutritione et augmentatione. Nella primavera del 1524 l’insorgere del mal della pietra lo costrinse a interrompere le lezioni. Si spense il 18 maggio del 1525. Ercole Gonzaga, che era stato suo allievo a Bologna, lo ricorderà con un monumento; in sua memoria Pietro Manna commissionò il conio di una medaglia; le reportationes dei suoi corsi continuarono a essere copiate dagli studenti per molti anni ancora.
Le quattro opere più note di Pomponazzi, il De immortalitate animae, l’Apologia, il De incantationibus e il De fato, toccano punti decisivi della teologia cristiana, portando alla luce in forme progressivamente più scoperte e mature la prospettiva non soltanto teorica, ma anche pratica e politica che fonda l’interesse per questioni in parte ereditate dalla tradizione esegetica di Aristotele (l’immortalità dell’anima), in parte proposte come ‘nuovo’ problema dall’assimilazione cristiana, e soprattutto tomistica, di quella eredità (l’esistenza dei demoni, la libertà dell’uomo e il problema del male). Il costante riferimento critico dei testi pomponazziani è infatti il «divino Tommaso», nel quale i contenuti della fides cristiana si erano articolati in un sistema di credenze dotate di una legittimazione razionale. La polemica di Pomponazzi non è però genericamente rivolta a un monumento dottrinale di un Medioevo ormai superato; è invece connessa a una serie di eventi storicamente determinati che avevano reso nuovamente attuale e pressante l’esigenza di un confronto critico con la geniale e autorevole costruzione teologica e politico-religiosa di Tommaso d’Aquino.
Nel dicembre del 1513, l’ottava sessione del concilio Laterano V aveva approvato il testo della bolla Apostolici regiminis, non soltanto riaffermando il dogma dell’immortalità dell’anima individuale nella formulazione datane dalla psicologia tomistica, ma proibendo espressamente di sostenere posizioni diverse come ‘vere dal punto di vista della ragione naturale’, i cui esiti potevano essere invece legittimati soltanto dalla loro piena concordanza con i contenuti della fede. Unitamente alla definizione dogmatica e alla rinnovata condanna di ogni interpretazione mortalista, la bolla stabiliva una serie di disposizioni disciplinari intese a limitare la diffusione di interpretazioni teologicamente inammissibili: i professori universitari, che per obbligo didattico commentavano testi in tutto o in parte contrastanti con la fede, non dovevano limitarsi a dichiarare la propria adesione alle dottrine cristiane, ma erano altresì chiamati a concludere l’esposizione delle tesi filosofiche contrarie alla posizione della Chiesa (l’eternità del mondo, la mortalità dell’anima, l’unità dell’intelletto) rendendo manifesta e persuasiva la verità cristiana e confutando gli argomenti contrari all’ortodossia con il massimo impegno personale (pro viribus). Queste prescrizioni rappresentavano una netta inversione della politica ecclesiastica nei confronti delle università, fino allora ispirata a una scelta di non ingerenza nell’insegnamento universitario (Bianchi 2008, pp. 127-30), e rappresentavano di fatto una riaffermazione del principio tomistico della concordia tra ragione filosofica e fede rivelata almeno sui grandi temi dei preambula fidei.
D’altra parte, era ancora l’autorità tomistica a fornire la base teorica per la istituzionalizzazione della politica di persecuzione della stregoneria: proprio in quei decenni la graduale trasformazione dell’attività inquisitoriale da repressione di pratiche superstiziose e credenze arcaiche a teorizzazione della setta cospiratoria e sacrilega, avviatasi nel 1487 con la pubblicazione del Malleus maleficarum (Martello delle streghe) di Heinrich Kramer, stava giungendo a compimento grazie ai contatti di alcuni inquisitori della Congregazione domenicana di Lombardia con l’influente demonologo, la cui opera attingeva non soltanto ai manuali tre-quattrocenteschi, ma anche largamente ai testi di Tommaso (Herzig 2008). Andrà infine ricordata la vasta eco sollevata dalla crisi luterana: negli anni in cui Pomponazzi stendeva il suo trattato sul fato, la ribellione di Martino Lutero aveva già cessato di essere una bega di frati, come imprudentemente l’aveva definita Leone X, per profilarsi invece come la più grave frattura dottrinale della respublica Christianorum.
Che tutte le opere maggiori di Pomponazzi intendano proporsi come un ripensamento critico della teologia razionale cristiana è evidente. La stessa decisione di scrivere sull’immortalità dell’anima è relativamente tarda, se si tiene presente che la sua posizione mortalista, pur con qualche incertezza, era già delineata nel 1510, come testimoniano gli appunti delle sue lezioni, annotati dagli studenti che frequentavano i corsi; si può dunque ritenere con discreta verosimiglianza che il De immortalitate animae del 1516 rappresenti la presa di posizione di un docente universitario, più ancora che di un commentatore di Aristotele, nei confronti di un provvedimento come l’Apostolici regiminis, che bruscamente modificava gli equilibri di autonomia didattica fino allora osservati.
Diversi elementi sembrano confermare questa lettura in senso ‘politico’. Vi è, in primo luogo, il dichiarato dissenso teorico dal concordismo tomistico: alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima proposta da Tommaso (l’anima è in senso assoluto immortale, mortale soltanto per le funzioni che svolge unitamente al corpo, è creata, è destinata a riunirsi al corpo risorto quando Dio porrà fine alla storia dell’umanità) Pomponazzi tributa la propria formale sottomissione in quanto dottrina «vera e solidissima», «sancita dalla Scrittura canonica, che ci è stata data da Dio e che perciò deve essere anteposta a qualunque ragionamento ed esperienza umana» (Trattato sull’immortalità dell’anima, a cura di V. Perrone Compagni, 1999, p. 29); ma questa certezza di fede è priva di qualsivoglia consistenza dal punto di vista della psicologia aristotelica ed è piuttosto un compromesso ispirato da istanze estranee alla filosofia. Se l’anima umana è un’identità sostanziale nella quale sono presenti funzioni immateriali e materiali, come Pomponazzi è disposto a riconoscere con Tommaso, la determinazione della componente essenziale deve regolarsi sull’individuazione della componente predominante tra le due contraddittorie: nel caso dell’anima, la materialità prevale sull’immaterialità e ne è pertanto la componente simpliciter. Il criterio è fondato su Aristotele; ma all’analisi solo teorica Pomponazzi affianca l’esigenza di una considerazione della realtà di fatto, una sorta di fenomenologia della condizione umana che garantisca e convalidi il discorso filosofico. L’esame del mondo degli uomini smentisce l’illusione che l’anima umana possa definirsi soprattutto immateriale: più bestiali che razionali, gli esseri umani trascorrono la maggior parte della loro esistenza impegnati a svolgere funzioni corporee; i pochissimi ‘razionali’ non traggono alcun frutto dal loro impegno, impacciati come sono dalle pastoie di un intelletto intrinsecamente limitato e incapace per natura di giungere al di là di una conoscenza oscura e debole – piuttosto ignoranza, che conoscenza.
La ragione, l’esperienza, la lettera del testo aristotelico trovano piena soddisfazione soltanto nel rovesciamento della tesi tomistica: l’anima è mortale per essenza, perché anche la sua operazione più alta, il pensiero, non può fare a meno del corpo. L’intelletto umano, funzione che sussume in sé tutte le attività dell’individuo ‘uomo’ e atto primo del corpo, non opera mediante un organo, ma richiede la presenza di una rappresentazione della fantasia come motore per iniziare la sua attività; perciò l’anima umana, anche quando pensa, si pone in rapporto con il suo corpo secondo una modalità che non la immerge totalmente nella materia, ma neppure le consente di astrarsene del tutto. A questa peculiarità dell’attività gnoseologica umana corrisponde una specifica condizione ontologica: il pensiero – immateriale e universale perché non si svolge in un sostrato (non ha bisogno di un organo ut subiecto), ma dipendente, per esserci, da ‘qualcosa del corpo’ come motore e impulso (ha bisogno del corpo ut obiecto) – caratterizza un’essenza che è, nella sua totalità, forma del corpo, pur eccellendo tra le forme materiali, come attesta anche la struttura organica particolarmente complessa di cui è atto. D’altro canto, l’attività conoscitiva dell’uomo, in quanto capace di esprimersi per concetti universali, si approssima in certa misura alla perfetta operazione, astratta dalla materia, delle intelligenze separate; ma non giunge a collocarsi in continuità con il pensiero degli enti divini, da cui è invece così lontano da non meritare neppure di condividerne il nome: ragione, non intelletto – ovvero capacità che è parzialmente, ma non assolutamente, svincolata dalle condizioni materiali; che attinge l’universale, ma non in sé, bensì nel singolare; mai direttamente, ma sempre attraverso mediazioni e passaggi; mai dispiegatamente e completamente, ma sempre oscuramente e incompiutamente. L’anima è in senso assoluto mortale, immortale per un certo aspetto, perché la funzione intellettiva a cui partecipa transitoriamente è in sé incorruttibile; ma la sua connessione con la fantasia comporta la cessazione di questa attività nel momento in cui la componente corporea si corrompe e cessa di fornire il materiale necessario per l’elaborazione del pensiero.
Entro questi limiti la discussione di Pomponazzi potrebbe essere considerata come una semplice proposta esegetica di scuola sulla vessata questione della separabilità dell’anima intellettiva, a cui Aristotele aveva dato soluzioni ambigue e in parte contraddittorie, costringendo i suoi interpreti a una difficile e complessa operazione ermeneutica dagli esiti assai diversi. Pomponazzi, però, estende la sua indagine anche a temi non strettamente legati alla tradizione nella consapevolezza che la lettura mortalista della psicologia aristotelica comporta conseguenze significative, aprendo un fronte di obiezioni che non concerne soltanto l’etica, ma anche e soprattutto la religione e l’escatologia: la mortalità dell’anima obbliga a rimeditare e formulare su nuove basi il senso dell’esserci dell’uomo nel mondo, propone finalità e comportamenti diversi da quelli comunemente praticati, fonda la dignità dell’uomo su altri valori – insomma, si oppone alla radice a quel progetto di cristianizzazione della filosofia che Tommaso aveva realizzato su basi aristoteliche e Marsilio Ficino su basi platoniche.
La replica di Pomponazzi, lineare nei suoi obiettivi e nel suo svolgimento, disaggrega il legame unificante stabilito dai suoi avversari tra sapere teorico, pensiero morale e destino dell’anima, da una parte riducendo la scienza a una capacità non preminente della specie umana, dall’altra dimostrando la centralità del comportamento etico nel conseguimento della felicità e con ciò operando una radicale mondanizzazione della teleologia. Alla definizione aristotelica dell’uomo ‘animale razionale’, che realizza il suo fine nella solitaria contemplazione (attività sublime, duratura, autosufficiente e ‘divina’ perché è l’unica attività praticata anche da Dio), Pomponazzi contrappone la definizione, pure aristotelica, dell’uomo ‘animale politico’, che realizza il suo fine nel rapporto interpersonale mondano.
La vita etico-pratica e la vita contemplativa non fanno riferimento a due possibilità ugualmente ed effettivamente praticabili da ogni uomo, bensì rappresentano due forme di attività distinte, pertinenti a due classi di enti diversi per perfezione ontologica: quella propriamente umana e quella superiore delle sostanze separate. La realizzazione etica dell’umanità, specie intermedia tra gli enti puramente irrazionali e gli enti totalmente immateriali, deve avvenire in un ambito intermedio, né bestiale né divino – anche se la medietà è compatibile, o meglio esige, una partecipazione alle caratteristiche proprie degli altri ambiti. In ciascun individuo è infatti presente una comune razionalità, che si sviluppa in relazione a tre diversi aspetti: quello puramente conoscitivo, quello morale e quello produttivo. Se l’intelletto produttivo corrisponde al livello infimo delle capacità umane (attività manuali) e accomuna l’uomo agli animali, l’intelletto speculativo corrisponde al livello più alto (attività teoretica) e avvicina l’uomo alla divinità; l’intelletto operativo o pratico, invece, è ciò che fa dell’uomo quel particolare essere – né bestia, né dio, ma appunto uomo – perché concerne la vita associata, che è tipica dell’uomo: in esso dunque risiede il fine specifico dell’umanità.
Da una parte, la tripartizione ha il vantaggio di ammettere negli uomini una capacità variabile di attualizzare potenzialità comuni e quindi di realizzare fini particolari diversi, senza smentire la teoria aristotelica della beatitudine del filosofo; dall’altra, essa riconosce anche un comune livello ‘umano’ e mondano di felicità, che completa e corregge l’idealizzazione aristotelica dell’attività speculativa. Poiché la mortalità dell’anima non pregiudica affatto la realizzazione completa di questo fine (l’unico davvero umano), essa non è di ostacolo al conseguimento della felicità, che consiste nell’adempimento di un compito attuabile in questo mondo: conoscere il bene e il male e comportarsi moralmente, cioè perseguire la virtù nell’ambito dell’aggregato civile.
Il collegamento armonico e non conflittuale delle componenti della società, giustificato dal riconoscimento di una fondamentale e comune capacità (virtus) che lega gli uomini in un mutuo rapporto naturale, rispecchia e conserva la differenziazione del luogo e delle funzioni dei singoli all’interno del corpo politico: il ‘posto’ che ciascuno occupa nella gerarchia sociale è condizione normativa del comportamento e in questo senso (ma solo in questo senso) la virtù è accessibile a tutti, perché tutti possono e debbono svolgere il proprio compito, contribuendo individualmente al benessere collettivo e alla pacifica e fruttuosa convivenza a cui la natura indirizza l’uomo. Tuttavia la realtà non corrisponde affatto al dover essere: diversi per indole, per educazione e per aspirazioni, gli uomini non obbediscono alle norme della ragione con la stessa spontanea sollecitudine del saggio, né regolano il loro comportamento in nome dello stesso ideale di virtù autosufficiente. Se per i pochi «di natura ben formata» la norma è chiara e riveste forza imperativa, per i moltissimi altri è necessario l’intervento correttivo delle leggi. Con questo termine Pomponazzi non intende soltanto la normativa civile, che estende la sua efficacia fino a un certo livello di controllo, ma non è in grado di frenare la perversità estrema e ferina del malvagio neppure con la minaccia della pena capitale. Nella sua concretezza fenomenologica la condizione umana impone al ‘legislatore’ di gestire i mezzi di controllo sociale adattandoli alla capacità minima di comprensione e seguendo percorsi che garantiscano il benessere comune e la felicità più appropriata per ciascuno: la maggioranza ignorante e materiale ha bisogno di prescrizioni semplificate, facilmente comprensibili e immaginativamente efficaci per riuscire ad adeguarsi alla norma morale, il cui contenuto razionale le resta inattingibile. La legge religiosa svolge appunto il compito di regolatore del comportamento morale e sociale, erogando la verità in forma accessibile a tutti: essa conduce gli uomini semplici alla virtù con l’enorme forza persuasiva degli apologhi, promettendo il premio ultraterreno o minacciando le pene eterne. Gli apologhi della religione non sono mistificazioni, ma espedienti di per sé né veri né falsi: non sono ingannevoli, perché fanno conoscere le azioni per mezzo delle quali ognuno realizza il suo fine; non sono però neppure veri in senso proprio, perché conducono al vero facendo riferimento ad argomentazioni favolose, non filosofiche, cioè non dimostrative. In questo contesto, il tentativo di conciliazione tra verità razionali e legge religiosa (intese come due linguaggi diversi, destinati a fruitori diversi) non ha intenti polemici, riduttivi o genericamente antireligiosi; anzi, esso è fondamentale per consentire a Pomponazzi di risolvere l’aporia in cui incorreva l’individuazione del fine umano nella virtù morale.
La constatazione empirica che la maggior parte non segue spontaneamente il bene toglieva infatti senso all’indicazione dell’intelletto operativo come specifico dell’uomo e trasformava la virtù in un fine irraggiungibile dalla maggioranza; grazie alla persuasività delle favole religiose tutti gli uomini (o comunque quasi tutti) vivono secondo la norma etica, realizzano il loro fine di uomini e sono felici. I fondatori di religioni, allora, svolgono lo stesso ruolo del politico dell’Etica nicomachea, rendendo i cittadini virtuosi e ossequienti alle leggi con dispositivi persuasivi e coercitivi pensati anche nell’interesse degli ignoranti, non contro di loro; e il loro ruolo è tanto importante per la collettività, che Pomponazzi ne riconduce l’avvento a un disegno superiore, che trascende i limiti della vocazione individuale e della singola religione: si tratta infatti, come chiarirà il De incantationibus, della vicenda cosmica dei cicli astrologici, che si riflette sulla storia e che prova, seppure in modo problematico, la sollecitudine del divino per l’umano.
Questo primo accenno alla funzione della religione nella società resta ancora all’interno di una prospettiva difensiva e non approfondisce il problema della eziologia delle religioni. Pomponazzi avrebbe dovuto anzi conformarsi alle richieste della Apostolici regiminis, più espressamente svolgendo un’argomentazione a sostegno della dottrina cristiana che confutasse la tesi mortalista appena esposta. Non è questa la strategia seguita da Pomponazzi, che invece sceglie di ribadire l’assoluta incompatibilità autoritativa e metodologica della ragione e della fede: la domanda sull’anima, se affrontata razionalmente, conduce a una conclusione ‘più sostenibile’ che ne sancisce la mortalità; ma, se si cerca la ‘Verità’ e la ‘certezza’, è necessario rivolgersi alla Scrittura, unico fondamento dei contenuti della fede. Le conclusioni della ragione, se contraddicono quanto afferma la fede, sono false; ma anche se con essa coincidessero, avrebbero valore solo riflesso e secondario, perché sono ricavate con uno strumento inappropriato all’ambito a cui si applica. Di fatto, fede e ragione sono assolutamente distinte e non si incontrano dal punto di vista metodologico, né devono incontrarsi, perché ciascuna procede con strumenti propri e diversi; del resto, la sovrapposizione di linguaggi di differente valenza epistemologica metterebbe in discussione l’origine divina dei testi sacri, che hanno un valore normativo autosufficiente e separato da quello della ragione. Rimettendo il problema del destino spirituale dell’uomo alla competenza esclusiva della fede, in cui la ragione non ha voce, Pomponazzi non sta solo attuando una strategia difensiva, peraltro efficace; sta anche stabilendo un’equivalente incompetenza della fede sulla ragione e affermando con ciò l’autonomia della filosofia. Poiché la via di comunicazione tra patrimonio rivelato e argomentare razionale è chiusa in tutte e due le direzioni, la filosofia può liberamente applicarsi all’indagine sulla realtà con gli strumenti dimostrativi che le appartengono e senza subordinazione all’autorità dogmatica della religione.
Da questo momento in poi – e nonostante l’ampio scandalo suscitato dalla pubblicazione del De immortalitate animae, in cui per la prima volta viene proposta una posizione non soltanto teorica, ma pratico-politica – Pomponazzi non cesserà di sottoporre a una revisione serrata le dottrine fondanti del cristianesimo, qualora esse siano offerte non come oggetto di pura fides, ma come conclusioni apoditticamente dimostrabili.
Mentre infuriava la polemica sullo scritto del 1516 (il libro era stato arso in piazza a Venezia per ordine del Senato e del Doge; una denuncia per eresia era stata pronunciata dal suffraganeo di Sigismondo Gonzaga, il vescovo Ambrogio Fiandino, durante la predicazione quaresimale del 1517; richieste pressanti di un procedimento inquisitoriale venivano inoltrate a Roma), Pomponazzi stendeva l’Apologia, stampata nei primi mesi del 1518, ove non solo ribadisce la validità della tesi mortalista, filosoficamente indiscutibile, e spinge più oltre la sua indagine in una direzione che avrebbe trovato articolata e sistematica espressione nel De incantationibus e nel De fato; ma sostiene in modo ancora più diretto la legittimità del giudizio dei laici sullo stato presente della Chiesa e sul venir meno della sua capacità di contribuire all’edificazione di un’etica pubblica condivisa e di garantire così il raggiungimento del fine comune dell’aggregato umano – sia esso la beatitudine celeste dei singoli o, più concretamente, l’armonia terrena dell’insieme.
In questa interpretazione della Lex come guida spirituale del popolo si riflette, da una parte, la consapevolezza orgogliosa dell’intellettuale nei confronti del vulgus rude et prophanum, spesso metaforicamente assimilato per gusto di eccesso a una ‘bestia’; dall’altra, però, si conferma anche l’opposta consapevolezza che quegli uomini grossolani non sono ontologicamente diversi rispetto al filosofo, bensì, come lui, si realizzano nello stesso fine comune di ‘animali politici’. Il richiamo dell’Apologia a un più serio impegno pastorale da parte del clero risponde a una istanza di ordine strettamente civile, che impone alla Lex di essere efficace sul piano della gestione della comunità, contribuendo al suo progresso – non al progresso comune verso il ‘vero’ (che non sarebbe possibile), ma al progresso comune verso il ‘buono’. Se anche l’Apologia ricorre alla distinzione tra competenze di fede e competenze di ragione nell’intento dichiarato di definire lo statuto sovrannaturale delle verità rivelate, di fatto Pomponazzi se ne serve per ribadire con chiarezza ancora maggiore l’autonomia dell’indagine filosofica in tutti i campi che siano accessibili al pensiero umano, rigettando il tentativo della Apostolici regiminis di disciplinare il comportamento dei professori di filosofia naturale quando si occupano di argomenti pertinenti anche alla teologia: non è competenza del filosofo spiegare i contenuti della fede, che devono essere creduti, ma restano indimostrabili; né è dovere del docente adeguare la sua didattica alle determinazioni dottrinali della Chiesa, neppure per motivi di opportunità sociale, poiché il suo compito è di insegnare in conformità con le conclusioni della ragione; e se facesse altrimenti «insegnerebbe il falso, sarebbe un maestro inattendibile, la sua menzogna potrebbe essere facilmente scoperta e agirebbe in contrasto con il dovere della filosofia» (Apologia, a cura di V. Perrone Compagni, 2011, p. 268).
La riduzione dell’anima umana a forma materiale e mortale – per quanto la più nobile del mondo sublunare – non riusciva a esaurire il dato, storicamente attestato, degli eventi straordinari, che sembrava confermare l’esistenza di enti spirituali costantemente coinvolti nello svolgersi della vita umana. Dopo il De immortalitate animae Pomponazzi affrontava il problema dell’inquadramento dell’admirandum in una rete causale coerente con la struttura generale delle leggi di natura, ridefinendolo nella sua natura di evento eccezionale, ma non miracoloso, e nello stesso tempo cercando di comprenderne il significato all’interno del disegno unitario che regola il cosmo.
Individuare il ‘perché’ degli eventi straordinari sotto il profilo delle quattro serie di cause rispondeva quindi alla doppia esigenza di spiegare le modalità di produzione del singolo fenomeno e di afferrare, per suo tramite, il senso generale delle vicende del mondo – delle catastrofi naturali, del sorgere e del declinare degli imperi, dell’alternarsi delle religioni, dei successi e dei rovesci che sconvolgono il destino degli individui: collocare l’apparente tumulto del divenire terreno sul piano immutabile di un ordine universale dotato di significato equivaleva a trasformare le leggi della causalità naturale in leggi del fato, espressione impersonale, ma razionale e perciò rassicurante, della provvidenza ‘divina’. La questione, però, non rivestiva un aspetto soltanto teorico, di coerenza e completezza interpretativa. Pomponazzi avverte anche un’urgenza esterna, storica: proprio i fenomeni magici sono i punti di forza della letteratura demonologica e inquisitoriale che riafferma attraverso questi miti e queste credenze l’esistenza del demonio, il suo incessante intervento nella vita dell’uomo e il ruolo di mediazione e difesa svolto dalla Chiesa.
Il De incantationibus è anche un tentativo di arginare l’ideologia su cui si sostengono i manuali contro la stregoneria, non in nome di un’astratta campagna umanitaria a difesa dei perseguitati, ma con l’intento di ricondurre ogni azione umana sul piano della responsabilità individuale, socialmente perseguibile: offrendo una spiegazione della realtà fisica libera da intrusioni sovrannaturali, Pomponazzi crede di poter anche rifondare l’etica civile sulla base di quella terrena eupraxia in cui già il De immortalitate animae individuava il nucleo della vita sociale. In questa prospettiva, la riflessione pomponazziana, che a molti è sembrata ingenua nel suo tentativo di rintracciare le cause fisiche dell’immaginario del suo tempo, è tesa a formulare una spiegazione razionalmente fondata, capace di proporsi come alternativa d’insieme alla demonologia della Lex cristiana, un mito assurdo che si è ormai concretizzato in una pratica di persecuzione devastante per la convivenza civile.
Il problema degli effetti magici, già affrontato in una quaestio stampata nel 1515, viene ora ripreso alla radice per smantellare la struttura teorica soggiacente a qualsiasi modalità ‘teologica’ di concepire la realtà e il divenire naturale. Contro questa visione Pomponazzi elabora la sua ristretta definizione di magia naturale e il modesto elogio delle capacità operative dell’uomo; ma il De incantationibus non è tanto interessato a fornire positivamente una teoria dell’arte o a indicarne le reali possibilità, quanto a svuotare di fondamento l’idea di causalità su cui si sostiene la demonologia cristiana, riconducendo tutti gli aspetti del miracoloso nell’ambito di una struttura del divenire coerente con i principi della fisica e della metafisica di Aristotele. Stabilire lo statuto epistemologico della magia naturale equivale, in ultima analisi, a definire l’ambito di leggibilità e di praticabilità del mondo che si apre all’attività scientifico-operativa dell’uomo; ma significa anche, per converso, definire – e cancellare – lo spazio di intervento che i teologi dischiudevano a enti spirituali creati, dotati di intelletto e volontà e capaci di una conoscenza dei particularia.
Scandita in due sezioni quasi non comunicanti tra di loro (la prima parte riguarda l’ambito delle cause fisiche, nel quale anche l’uomo ha possibilità di operare, mentre nella seconda parte la riflessione si sposta sulle cause universali), l’opera trova la sua unità nell’argomento antidemonologico del capitolo 1, che costituisce il fulcro dell’intera trattazione e che Pomponazzi presenta come una propria inventio, ovvero come uno sviluppo originale dell’eredità aristotelica: seppure i demoni esistessero (e il dodicesimo libro della Metafisica ha già dimostrato che non esistono), essi non potrebbero interferire nelle vicende sublunari, perché non ci sarebbe modo di giustificare la loro conoscenza del singolare. L’argomentazione è svolta con la consueta pignoleria principalmente in risposta alle corrispondenti quaestiones della Summa theologiae: il punto debole della demonologia cristiana viene individuato nel tentativo indebito di costituire una classe di enti intermedia fra gli enti divini (Dio e le intelligenze) e gli esseri umani – enti che non sono caratterizzati né da una conoscenza dell’universale per essentiam, come le sostanze separate che sono causa delle cose inferiori, né da una conoscenza del singolare per phantasmata, come gli esseri dotati di organi di senso; enti fittizi, dunque, che sono privi della possibilità di esercitare una reale attività causale. Gli effetti straordinari che l’ingenuità del volgo e l’ideologia del clero attribuiscono ai demoni possono essere compiuti dal sapiente grazie alla sua consapevolezza scientifica delle proprietà occulte degli enti naturali; oppure da individui dotati di particolari capacità per la complessione fisica acquisita al momento della nascita.
Il nesso strettissimo che Pomponazzi stabilisce tra la disposizione fisico-psichica dell’uomo e il suo oroscopo spiega in via naturae molti fenomeni ‘magici’, cioè rari ed eccezionali; ma pone anche in luce la radice astrologica che fonda l’intera concezione del divenire: la realtà materiale e la stessa storia degli uomini sono solo lo scenario in cui si dipana il fato, quel fato che, fin dal De immortalitate animae, è schema esplicativo del divenire e di cui la natura è fedele esecutrice. In questa prospettiva viene ripresa anche la questione della profezia, della possessione demonica, della divinazione, accennata e poi lasciata sospesa dallo scritto del 1516 e schematicamente esposta anche nell’Apologia: l’eziologia del fatto religioso – e di tutti i fenomeni che ne accompagnano il sorgere e l’affermarsi – viene ora rintracciata in un ‘progetto’ superiore teso alla conservazione della specie umana.
Le leggi religiose sono necessarie per ordinare il mondo umano conforme a giustizia, fondamento di quella società che è la destinazione naturale dell’uomo; perciò il compimento di questo fine essenziale (nel senso aristotelico del termine) deve radicarsi in una causalità superiore, che in momenti stabiliti, secondo l’esigenza del tempo e del luogo, provvede a dare l’avvio a una nuova legge civile o religiosa che prenda il posto di quella giunta ormai al termine del suo ciclo naturale. L’eterna vicenda di generazione e corruzione che domina il mondo inferiore non risparmia nessuna realtà; l’identico sviluppo biologico che caratterizza tutti gli enti naturali (nascita, crescita, decadenza e morte) trascina con sé anche gli enti ‘artificiali’ – religioni, istituzioni politiche, arti, scienze. Perciò l’apparizione del profeta, fondatore della nuova lex, non è un evento che sconvolge l’ordinata successione della storia, né richiede un intervento speciale della divinità, ma è iscritto dall’eternità nel disegno immutabile degli enti superiori.
Pomponazzi accosta il profeta a coloro che hanno fatto progredire le arti (non solo la medicina, ma persino la tecnica di filatura della seta) in un catalogo promiscuo di ‘ritrovati’, ciascuno a suo modo destinato ad assicurare la sopravvivenza e il benessere del genere umano: sovrapposizione disinvolta e irriverente, se si guarda alla superficie, ma che esprime in felicissima sintesi la convinzione profonda dell’utilità delle religioni (di tutte le religioni) – fatti naturali, certo, ma indispensabili a costituire la civiltà umana e a favorirne lo sviluppo. Il legislatore religioso, ‘uomo perfetto’ della tradizione medica, ha il compito di instaurare la nuova organizzazione sociale persuadendo mediante azioni straordinarie e insegnando mediante favole e metafore, in un processo di educazione adeguato alle capacità di comprensione dei vulgares: superiore, per questo, persino al filosofo, perché porta a compimento il fine generale a cui tende la natura; uomo divino, come tutti gli iniziatori di scienze e arti; strumento, talvolta inconsapevole, di un piano che lo trascende.
La collocazione del fenomeno religioso nell’ambito della vicissitudine astrale si origina da una interpretazione libera e personale dei testi aristotelici e si contrappone proprio alla spiegazione degli eventi straordinari in termini di impostura. Il succedersi delle diverse Leges, che garantiscono la giustizia mantenendo la comunità politica; i profeti, che instaurano un nuovo ordine quando il precedente è giunto a corruzione per inesorabile legge di natura; i ‘miracoli’, che legittimano l’autorità della religione incipiente o preannunciano un grande rivolgimento politico – insomma, ogni evento cruciale della vita umana è regolato dall’alto e preceduto da segni straordinari, che lo preparano e lo favoriscono.
Nel loro nucleo essenziale le religioni sono garantite dall’origine naturale (che, per Pomponazzi, significa anche ‘divina’) e dunque accettate e rispettate come provvidenziali. È vero però che la successiva istituzionalizzazione della religio nella storia del gruppo sociale determina un’articolazione via via più complessa dei contenuti che costituiscono l’oggetto di fede: la religio diviene theologia e le favole si trasformano in un sistema di credenze che aspirano a una legittimazione razionale. Questa sovrapposizione di ambiti impone di discernere tra favole utili e favole dannose, fra medicine giovevoli e veleni mortali: il criterio è dato dalla capacità di adempiere alla precisa funzione che esse dovrebbero svolgere all’interno del corpo pubblico, assicurandone la salute. La favola né vera né falsa dell’immortalità è legittimamente usata dal legislatore perché, inducendo gli uomini alla virtù (ancorché eteronoma), contribuisce al benessere della società, assicurando al filosofo un ambiente sufficientemente stabile per perseguire i suoi fini di perfezione intellettuale. Altro è l’esito delle favole corruttrici come la demonologia cristiana, che la filosofia deve superare opponendole una ipotesi esplicativa più ragionevole ed ‘economica’, fondata sulla natura. La retorica neoplatonica e cabalistica di Marsilio Ficino e di Giovanni Pico della Mirandola dell’uomo-mago è estranea a Pomponazzi; né la ricollocazione degli effetti magici e dei cosiddetti miracoli all’interno della natura costituisce l’interesse esclusivo o principale del De incantationibus, anche se proprio questo aspetto rappresenta la più consistente eredità raccolta dai libertini. Il punto che costituisce il nucleo della visione pomponazziana è la preminenza della causalità celeste, che qualche volta può ‘eccedere’ o ‘agire in deroga’ rispetto al normale corso della causalità naturale, senza però sostituirsi a essa.
Nel De fato, sottoscritto a pochi mesi di distanza dal De incantationibus, Pomponazzi porta a conclusione l’esegesi materialista della psicologia aristotelica formulata nel De immortalitate animae; ma propone anche un forte approfondimento della già stabilita riduzione della teologia a sistema di credenze socialmente necessarie, dalla quale scaturisce la conseguente affermazione della competenza del filosofo in questa materia. La sorprendente autopresentazione nelle vesti di riformatore della dottrina di fede è la più chiara estrinsecazione del mito pomponazziano dell’intellettuale, nel quale saggezza e virtù si incontrano, conciliando i due ideali etici della Nicomachea (il filosofo speculativo del decimo libro e il cittadino virtuoso dei libri precedenti) in un’unica figura normativa a cui sono assegnate anche responsabilità civili. Il De fato ripensa la nozione di libertà da due punti di vista diversi: nei primi due libri domina il punto di vista teorico-filosofico in relazione al rapporto di libertà e necessità, collegato alla discussione sull’astrologia (nel 1494 erano uscite le Disputationes adversus astrologiam divinatricem di Giovanni Pico); nei tre successivi subentra il punto di vista teologico-pratico in relazione al rapporto di libero arbitrio e grazia, rilanciato dalla rinascita agostiniana del tardo Quattrocento e dalla crisi luterana.
Dal punto di vista speculativo, se l’anima è forma materiale, essa è sottoposta alla legge di causalità (determinismo) che governa la natura; si potranno istituire legittime distinzioni tra classi di forme materiali, qualificando l’agire dell’uomo in conformità con la sua partecipazione all’attività intellettiva, cioè quel secundum quid di immortalità, garantito dall’esplicazione del pensiero, che Pomponazzi non ha cessato di riconoscere all’anima umana; ma una libertà piena, nel senso inteso da certi passi dell’Etica nicomachea, da Alessandro di Afrodisia e dai cristiani, non può più essere affermata: il De fato la dichiara un controsenso filosofico all’interno del sistema aristotelico, perché contraddittoria con il principio basilare dell’eternità del movimento formulato dall’ottavo libro della Fisica. È vero che ogni uomo agisce dopo aver deliberato, perché l’essere ‘animale deliberativo’ è l’attributo comune che caratterizza la specie umana rispetto agli dei e alle bestie; ma gli individui scelgono una alternativa di azione piuttosto che un’altra perché sono determinati da condizioni ‘esterne’ e precedenti che sono diverse per ognuno. Bontà e malvagità sono risposte inevitabili e univoche al condizionamento che l’anima umana, forma materiale come le altre, subisce dalla natura, ossia dalla complessione fisico-psichica acquisita al momento della nascita, e dall’ambiente, ossia dall’educazione ricevuta; e dunque la condotta del soggetto è determinata inesorabilmente dal carattere, vero destino individuale che non consente la libertà di ‘fare gli opposti’. La libertà umana è semplicemente capacità di usare la ragione come mezzo ordinato al fine dalla causa superiore; ma il suo retto uso (e dunque la stessa virtù) dipendono dal fato, anche se l’azione che ne consegue non deriva da una costrizione ‘esterna’ in senso proprio e resta dunque moralmente valutabile, lasciando intatto il sistema di premi e punizioni terreni che consente il mantenimento della società.
La ricostruzione del pensiero aristotelico nel segno del determinismo enunciato dalla Fisica (di contro alla concezione dell’autonomia della scelta morale proposta dall’Etica nicomachea) sottintende una interpretazione nettamente orientata da parte di Pomponazzi: proclamando la libertà dell’uomo, Aristotele si sarebbe espresso da ‘politico’ ossia avrebbe messo in atto un dispositivo persuasivo e regolativo destinato a plasmare l’etica pubblica. Sulla base di questa interpretazione della ‘contraddizione’ di Aristotele, intesa come duplicità di intenzioni e destinatari, Pomponazzi affianca l’esame filosofico a una rifondazione della credibilità della lex Christiana su basi che inducano l’adesione soggettiva e garantiscano l’accettazione degli ordini civili vigenti. Non che egli intenda proporre una (impossibile) formulazione dimostrativa della libertà, della provvidenza o della predestinazione dei teologi; il suo interesse è diretto a darne una formulazione ‘ragionevole’, a tradurre i dogmi in un linguaggio semplificato, accettabile dal senso comune e capace di esplicarne tutte le potenzialità educative: non si tratta di una ipotesi possibile, filosoficamente condivisibile; si tratta invece della messa a punto di un discorso teologico argomentabile, che si muove nell’ambito non filosofico dei dati della fides e che è adeguato come soluzione meramente pratica. Restando all’interno dei due presupposti fondamentali della fede, la creazione del mondo nel tempo e l’autonomia della volontà umana, Pomponazzi ripensa la costruzione cristiana (tomistica, di fatto) e le garantisce il massimo di persuasività consentito, cercando di superarne le contraddizioni. L’audacia con la quale il filosofo assume l’inedito ruolo di consigliere dei teologi appare meno paradossale se si tiene presente lo sconvolgimento provocato dalla rottura dell’unità cristiana appena compiutasi al momento della sottoscrizione del De fato.
Per quanto non esistano testimonianze esplicite che manifestino il giudizio di Pomponazzi su Lutero e sulla Riforma, è lecito supporre che nella sua prospettiva Lutero non potrebbe essere deputato dal disegno divino all’instaurazione di una nuova religione, poiché la Riforma non contiene nessuno degli elementi che fanno di una religione una lex socialmente utile: essa appare forse a Pomponazzi come il punto di massimo allontanamento dalla funzione primaria e insostituibile di qualunque religione, in coerenza con una percezione delle conseguenze pratiche della teologia riformata che può essere senz’altro discutibile, ma che fu comune a molti e non mediocri filosofi. Il radicamento della nozione di responsabilità, della credenza nella capacità dell’uomo di dirigere la propria vita e di contribuire in qualche modo anche alla propria salvezza entra infatti come nucleo centrale e irrinunciabile nella fondazione di qualsiasi progetto etico pubblico; la Riforma revoca in dubbio questo presupposto necessario di un’ideologia per l’uomo comune, negando l’iniziativa del singolo e attribuendo tutto a Dio, ma nel contempo sottraendo autorità al legislatore con il suo rendere il rapporto dell’anima con Dio un colloquio diretto, che non necessita di mediatori.
Poiché la predestinazione cristiana getta l’uomo nell’incertezza angosciosa di un destino ultraterreno sconosciuto e indipendente dai suoi sforzi morali, il problema è quello di ristabilire il nesso tra decreto escatologico divino e attività virtuosa dell’uomo: solo a queste condizioni «non saremo spinti alla disperazione e non diventeremo inoperosi; anzi, saremo colmi di una fondata speranza e diventeremo operosi e attivi» (P. Pomponazzi, Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, a cura di V. Perrone Compagni, 2004, p. 867).
È chiaro che l’intenzione di Pomponazzi è quella di investire la questione, filosoficamente insussistente, di una sua funzionalità educativa che sia utile per la vita associata. L’atto creativo, che manifesta nel tempo l’eterno disegno di Dio secondo un piano razionale e ordinato, ha dato origine a un universo che trova la sua completezza nella varietà dei gradi di perfezione degli enti che lo compongono. All’uomo, in quanto medium naturae, competono due ambiti di esistenza tra loro distinti, ma comunicanti, e di conseguenza una duplice teleologia: la beatitudo naturalis, raggiungibile da tutti attraverso l’esplicazione delle proprie capacità morali individuali, e la beatitudo supernaturalis, conferita per grazia speciale secondo un criterio selettivo, la cui ragione è da ricondurre interamente all’imperscrutabile volontà eterna di Dio. Se già il riconoscimento dell’ineguaglianza tra gli uomini in relazione alle loro disposizioni fisiche e intellettuali aveva suscitato un moto di indignazione nel Pomponazzi filosofo del secondo libro, questa arbitraria differenziazione relativamente alla suprema felicità potrebbe costituire un ostacolo insormontabile dal punto di vista della ragione naturale: il compito del quinto libro è appunto quello di neutralizzare le conseguenze psicologiche implicite nella connessione tra volontà divina e beatitudine sovrannaturale, che sin qui è stata ammessa come dono gratuito e misterioso, giusta la concezione tomistica. Pomponazzi supera la difficoltà in un’unica mossa, recuperando il valore delle azioni meritorie. Il conferimento di grazia è solo il prologo del cammino di salvezza: il progetto divino attua solo una prima distinzione tra alcuni individui (gli eletti, cioè tutti i cristiani) e gli altri (i non eletti, cioè i pagani e i seguaci di altre religoni); sarà poi l’eletto a determinare la sua condizione decidendo liberamente se ben usare il tesoro affidatogli o se invece dissiparlo. In senso proprio, la predestinazione designa la coincidenza tra l’offerta di grazia e l’adempimento da parte dell’uomo; sussiste dunque continuità tra i due piani dell’esistenza umana e la virtù mondana, condizione della felicità naturale, viene a costituirsi come la premessa minore del sillogismo escatologico.
La tesi esposta da Pomponazzi nel quinto libro del De fato è perfettamente coerente con le intenzioni della sua ricostruzione dottrinale, soddisfacendo esigenze diverse: l’identificazione degli eletti con l’interezza del popolo cristiano indurrà in ciascuno la serena fiducia nel proprio destino di salvezza; il legame tra opere terrene e ricompensa ultraterrena sostanzierà un’etica dell’impegno; il Dio dei teologi (crudele tra i crudeli, se non addirittura stupido) riacquisterà i suoi attributi di Padre buono e giusto, che ama tutte le sue creature e non vuole nessuno peccatore e infelice, ma retribuisce ciascuno secondo i suoi meriti; la Chiesa visibile, amministratrice dei mezzi di salvezza, si riapproprierà della sua autorità di rappresentante di Dio in terra e della sua funzione di guida morale della società, che solo essa può adeguatamente svolgere. Facendo dell’aldilà il prolungamento della vita terrena, Pomponazzi offre una soluzione radicale alle ansie escatologiche dell’uomo e risolve il problema inerente alla giustizia divina.
Non si tratta certamente di una soluzione razionale che il filosofo possa sottoscrivere, visto che incorre nella contraddizione di un Dio, atto puro, i cui decreti verrebbero a dipendere dalle scelte dell’uomo (che peraltro di esse non è affatto padrone). È invece una soluzione pratica: l’apologo ‘né vero né falso’ della predestinazione come libero adempimento della chiamata divina stabilisce una disciplina etica comprensibile a quei vulgares, che la teologia tradizionale e la nuova teologia luterana rischiavano di sprofondare nella disperazione e nell’otiositas. La ‘nobile menzogna’ del filosofo, ben lungi dal voler sovvertire la religione, tenta invece di ricondurla al suo fondamento di strumento provvidenziale per la conservazione della specie. E, d’altra parte, l’autonomia della filosofia dalla fides non è revocata in dubbio né indebolita da questo tentativo di dare credibilità ‘educativa’ ai dogmi scritturali; ne esce, anzi, addirittura rafforzata, perché la ragione naturale rivendica il diritto di giudicare l’adeguatezza della religione al suo compito e afferma la propria competenza a intervenire sui contenuti del suo magistero per renderli conformi alle esigenze concrete della società.
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