Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 1513 il concilio Laterano V approva la bolla Apostolici regiminis, che sancisce il dogma dell’immortalità dell’anima umana. Appena tre anni dopo il filosofo Pietro Pomponazzi pubblica un Trattato sull’immortalità dell’anima in cui discute le diverse interpretazioni della teoria aristotelica dell’anima. Dopo aver usato Tommaso d’Aquino per rifiutare la dottrina averroista dell’unità dell’intelletto, Pomponazzi polemizza duramente contro la concezione dell’anima umana proposta proprio da Tommaso, secondo cui l’anima intellettiva sarebbe la forma sostanziale del corpo, ma sarebbe ciononostante immortale e capace di sussistere autonomamente. Secondo Pomponazzi l’essere umano va invece considerato nella sua indissolubile unità psicofisica, e non vi è ragione di pensare che l’anima intellettiva, le cui capacità non possono mai esercitarsi indipendentemente dal corpo, possa sopravvivergli. Pur presentando questa posizione solamente come una corretta interpretazione del pensiero di Aristotele e facendo prudenti professioni di fede, Pomponazzi conclude il suo Trattato con una significativa confutazione delle tradizionali obiezioni di natura etica, politica e religiosa contro l’ipotesi della mortalità dell’anima, nel corso della quale sostiene che la credenza nell’immortalità dell’anima sia una “trovata” che i fondatori delle religioni hanno diffuso perché la maggioranza degli uomini ha bisogno di essere disciplinata tramite la minaccia di future punizioni e rassicurata con la speranza di una beatitudine eterna.
Il 19 dicembre 1513 l’ottava sessione del concilio Laterano V approva la Apostolici regiminis, che da un lato afferma che l’anima intellettiva è “essenzialmente” la forma del corpo (secondo l’insegnamento del concilio di Vienne del 1311), è immortale e moltiplicata secondo gli individui; d’altro lato vieta, sotto pena di scomunica, di insegnare che l’anima intellettiva è unica per l’intera umanità, oppure che è mortale e, richiamandosi al principio che “una verità non può contraddire un’altra verità”, stabilisce che qualsiasi asserzione contraria alla fede è “assolutamente falsa” e non può essere difesa nemmeno “secondo la filosofia”. Questa decisione – alla quale concorrono sia teologi di ispirazione scolastica sia teologi influenzati da Marsilio Ficino, che aveva fatto dell’immortalità dell’anima uno dei pilastri della sua rilettura cristianizzante di Platone – eleva la dottrina dell’immortalità dell’anima a vero dogma di fede. Essa inoltre rende manifesto che la sfida a questa dottrina proviene ormai da due fronti: non solo, com’era avvenuto sin dal XIII secolo, dalla diffusione della tesi risalente ad Averroè secondo cui l’intera umanità avrebbe un unico intelletto possibile, eterno e separato, ma anche dalla diffusione, favorita da nuove traduzioni latine, dell’interpretazione del De anima aristotelico proposta da Alessandro di Afrodisia. Muovendo dall’idea che le sostanze sensibili sono composti di materia e forma, il commentatore greco aveva infatti concluso che l’anima umana è null’altro che il principio organizzatore delle funzioni del corpo, inseparabile da esso e quindi corruttibile.
Proprio con un omaggio all’“articolo di fede” dell’immortalità dell’anima si chiude il Trattato sull’immortalità dell’anima pubblicato nel 1516 – con tanto di imprimatur ecclesiastico – da Pietro Pomponazzi, l’ormai celebre filosofo e medico che, dopo aver lungamente insegnato a Padova, dal 1512 tiene la cattedra di filosofia ordinaria a Bologna. Il Trattato, del resto, approda alla conclusione che “quello dell’immortalità dell’anima è un problema neutro”, razionalmente indecidibile ma inequivocabilmente risolto dalla rivelazione divina: una posizione agnostica sicuramente sgradita ai numerosi teologi che ritenevano con Tommaso d’Aquino che l’immortalità dell’anima fosse dimostrabile, ma perfettamente in linea con quanto avevano sostenuto sin dal XIV secolo altri teologi, a iniziare dal francescano Duns Scoto.
In realtà, il Trattato non ha la forma delle cosiddette questiones ad utramquepartem, non è strutturato cioè come quelle dispute nelle quali i filosofi medievali e rinascimentali si limitavano a discutere “per esercizio” gli argomenti a favore e contro una certa tesi senza “determinarla” in un senso o nell’altro. Certo Pomponazzi si muove con grande cautela ed esamina le varie concezioni dell’anima umana con eccezionale sottigliezza dialettica, presentando obiezioni e contro-obiezioni a ciascuna di esse; ma lungi dal considerarle equivalenti, mostra chiaramente che una sola di queste posizioni è razionalmente plausibile. Non a caso pochi fra i suoi contemporanei nutrono dubbi su quali siano gli inevitabili esiti del suo discorso. Se a Venezia il Trattato finisce addirittura al rogo, Pomponazzi viene denunciato per eresia dal frate agostiniano Ambrogio Fiandino, e solo grazie al sostegno del potente cardinale Pietro Bembo evita gravi conseguenze, ma gli viene comunque ordinato da papa Leone X di ritrattare quanto ha sostenuto “contro la determinazione del Concilio”. Le polemiche proseguono per oltre mezzo secolo, spesso con toni estremamente accesi: del resto già nel 1519 il domenicano Bartolomeo Spina dà alle stampe un violento opuscolo contro il Trattato sull’immortalità dell’anima, proponendo polemicamente di ribattezzarlo Sulla mortalità dell’anima.
Pomponazzi dichiara sin dall’inizio di muoversi a un livello di analisi puramente “naturale”, prescindendo dai dati rivelati, e assume come punto di partenza della sua riflessione la consapevolezza della complessità dell’uomo, che ha una “natura indeterminata” e si colloca in una posizione intermedia fra gli esseri mortali e quelli immortali. Se questa caratterizzazione dell’uomo come essere “molteplice e ancipite”, posto al confine fra il mondo temporale e quello eterno sembra richiamare idee di ispirazione platonica, in realtà Pomponazzi dedica ben poca attenzione alla concezione dell’anima di Platone e si confronta invece in modo approfondito con le tre principali letture che erano state date della complessa e ambigua dottrina dell’anima proposta da Aristotele: quella di Averroè, quella di Tommaso d’Aquino e quella di Alessandro di Afrodisia, il cui nome viene citato raramente ma la cui presenza è significativa. Sappiamo del resto che, dopo una giovanile adesione all’averroismo, largamente diffuso nell’ambiente padovano dove si è formato, Pomponazzi ha avuto una lunga fase di ripensamento che l’ha condotto a ritenere che, almeno sul piano della corretta interpretazione di Aristotele, la posizione mortalista sia la più probabile.
Il Trattato propone una critica severa tanto della posizione di Averroè quanto di quella di Tommaso. Richiamandosi a Tommaso, Pomponazzi sostiene che la dottrina dell’unità dell’intelletto è falsa sul piano filosofico e inaccettabile sul piano esegetico, perché attribuisce ad Aristotele idee da lui mai professate, che vengono giudicate una semplice “invenzione”. Aristotele infatti – insiste Pomponazzi – ha insegnato che il pensiero umano necessita sempre di “immagini” che, seppur smaterializzate, derivano dalla nostra esperienza sensibile: e ciò significa che nessuna attività dell’anima umana è totalmente indipendente dal corpo e quindi che non si può dimostrare che l’intelletto sia separabile e immortale. Dopo aver fatto valere questa linea argomentativa contro Averroè, che ipostatizza l’intelletto facendone una sostanza separata unica per l’intera umanità, Pomponazzi la applica spregiudicatamente contro lo stesso Tommaso, che invece concepisce l’anima intellettiva come la forma sostanziale del corpo ma pretende che essa sia una forma sussistente, capace di sopravvivere nella sua individualità dopo la morte del corpo. Pur dichiarando che tale posizione è vera, Pomponazzi la considera l’espressione della fede cristiana, priva di fondamento razionale e contraria al pensiero aristotelico. L’idea che, unita al corpo come una forma e capace di conoscere solo grazie ai materiali offerti dai sensi, l’anima abbia poi un’esistenza separata da esso durante la quale è dotata di capacità conoscitive paragonabili a quelle delle Intelligenze celesti e infine, dopo la resurrezione della carne, si riunisce nuovamente al corpo è per Pomponazzi filosoficamente assurda: si tratterebbe di “farneticazioni”, paragonabili alle “favole” pitagoriche sulla trasmigrazione delle anime, o addirittura alle leggende popolari sulle “lamie” che “ora si vestono di un corpo ora se ne spogliano”. Giudizi così drastici hanno una spiegazione precisa: Pomponazzi considera il tentativo tomista di fondare su Aristotele il dogma dell’immortalità dell’anima come l’espressione emblematica di quella tendenza a “mescolare i diversi brodi” della filosofia e della teologia, che rappresenta a suo avviso il maggior difetto della cultura cristiana dal Medioevo in avanti.
Con abile mossa polemica, Pomponazzi cerca dunque di evidenziare le profonde affinità fra le posizioni, apparentemente antitetiche, di Averroè e di Tommaso d’Aquino: esse rappresenterebbero due diverse versioni di una stessa erronea lettura “spiritualista” di Aristotele, che pretende di attribuire all’intelletto – poco importa se unico o moltiplicato secondo gli individui – un destino separato e immortale, che non gli appartiene e che lo eleverebbe al rango delle Intelligenze celesti. Il principio della gradualità della natura, concepita come una struttura gerarchica che non prevede discontinuità, impone invece – secondo Pomponazzi – di riconoscere che l’intelletto umano è una forma intermedia, che si colloca a un gradino inferiore rispetto agli Intelletti totalmente separati dalla materia ma al di sopra delle facoltà sensitive: né totalmente immerso nella materia né pienamente separato da essa, l’intelletto umano non opera attraverso un organo ma necessita, per iniziare la sua attività, delle “immagini” ricavate dall’esperienza sensibile. Secondo Pomponazzi dalla celebre definizione aristotelica dell’anima come “atto primo di un corpo naturale organico” non si può che trarre una conclusione specularmente opposta a quella di Tommaso: l’anima umana è mortale “in senso assoluto” e immortale solo “relativamente”; in altri termini essa non sopravvive alla morte del corpo e quindi è “veramente mortale”, ma può “impropriamente” esser detta immortale perché nell’attività di pensiero riesce a elevarsi sopra il mondo materiale e corruttibile, a conoscere il mondo intellegibile, immateriale ed eterno.
Aristotele
Intelletto in impassibile e intelletto passivo
Sull’anima, Libro III, 5
Poiché, come nell’intera natura c’è qualcosa che costituisce la materia per ciascun genere di cose (e ciò è potenzialmente tutte quelle cose), e qualcos’altro che è la causa e il principio produttivo, perché le produce tutte, allo stesso modo che l’arte si rapporta alla sua materia, necessariamente queste differenze si trovano anche nell’anima. E c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose, e un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. E questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza, poiché sempre ciò che fa è superiore a ciò che subisce, e il principio è superiore alla materia. Ora la conoscenza in atto è identica all’oggetto, mentre quella in potenza è anteriore per il tempo nell’individuo, ma, da un punto di vista generale, non è anteriore neppure per il tempo; e non è che questo intelletto talora pensi e talora non pensi. Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile, mentre l’intelletto passivo è corruttibile), senza questo non c’è nulla che pensi.
Aristotele, Sull’anima, trad. it. di G. Movia, Napoli, Loffredo, 1979
Risulta in questo modo chiaro perché la sottile analisi della concezione aristotelica dell’anima si intreccia, nel Trattato, con una più generale riflessione sull’uomo, sulla sua posizione e sulla sua funzione all’interno del cosmo. Le affermazioni iniziali sulla natura umana “indeterminata” e “ancipite” dell’uomo sono state spesso accostate alla concezione della dignità dell’uomo, capace di abbassarsi a livello bestiale oppure di innalzarsi a un’esistenza quasi divina, diffusa fra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo da pensatori influenzati dalla tradizione platonica e neoplatonica, come Ficino e Pico della Mirandola. Per quanto echi di questi temi siano certamente presenti in Pomponazzi, resta che per lui l’uomo non è, come per Pico, un essere privo di natura e quindi capace di assumere qualsiasi natura; è invece un essere che per sua natura occupa una posizione intermedia fra il mondo materiale e quello spirituale, fra il regno del corruttibile e quello dell’incorruttibile. Tanto Averroè quanto Tommaso d’Aquino, secondo Pomponazzi, sono caduti nell’errore di non prendere sul serio la tesi aristotelica che tutte le sostanze sensibili sono composte di materia e forma. Se però si pensa l’uomo come una vera unità psicofisica, si è condotti a riconoscere che l’anima è una forma corporea e le sue capacità intellettive – che pure, secondo un’idea radicata nella tradizione aristotelica, non necessitano di un organo – sono capacità del corpo e non possono mai esercitarsi in modo del tutto indipendente dal corpo. L’anima umana è semplicemente la forma di un corpo, vive e muore insieme al corpo e opera con esso, quindi non può elevarsi alla conoscenza pura, non discorsiva propria delle Intelligenze separate e di Dio, come pretendono coloro che “magnificano l’uomo” dimenticandosi che è un essere fragile, materiale, soggetto alla violenza delle forze naturali e dei suoi simili.
L’anima umana ha ciononostante un “odore” di immaterialità, è simile agli “dèi” perché ha capacità intellettive e può esercitare la volontà, quindi rappresenta la più alta fra le “forme materiali”, superiore a quelle dei vegetali e degli animali. Fermamente convinto che la natura sia un organismo armonico, che “procede per gradi”, Pomponazzi tuttavia sottolinea più volte che vi sono animali che sembrano dotati di intelletto mentre vi sono innumerevoli uomini che “sembrano possedere meno intelletto di molte bestie”. Infatti benché appartengano a un unico genere, gli uomini si differenziano fra loro per capacità, funzioni, livello di perfezione; e se le differenze individuali sono potenzialmente infinite, è possibile almeno distinguere tre grandi classi, o per meglio dire tre “tipi” di uomini. Al livello più alto si collocano coloro che, dominando completamente le loro componenti vegetative e sensitive, “sono divenuti quasi completamente razionali” e devono perciò essere “annoverati fra gli dèi”; al livello più basso vi sono coloro che coltivano solo la loro “parte vegetativa e sensitiva” a scapito dell’intelletto e quindi divengono “quasi bestie”; in una fascia intermedia si collocano infine gli uomini “puri” – gli uomini “normali”, “qualunque” – che non si abbandonano solo alle loro funzioni corporali ma, incapaci di consacrarsi alla sola attività intellettuale, vivono “moderatamente, seguendo le virtù morali”.
Si potrebbe mostrare come Pomponazzi ripropongaqui in termini nuovi quell’elitarismo che da secoli era una componente non irrilevante della coscienza di sé dei “filosofi di mestiere” e riprenda temi tipici di quella tradizione averroista, dalla quale come abbiamo visto si distacca sulla decisiva questione dell’unità dell’intelletto. Resta che proprio la sua concezione gerarchica e organicista della società gli consente di risolvere alcune delle più rilevanti obiezioni all’ipotesi mortalista. In effetti, dopo aver presentato quell’ipotesi – con cautela, ma anche lasciandosi sfuggire qualche espressione che manifesta la sua personale adesione ad essa – Pomponazzi risponde sistematicamente agli argomenti tradizionalmente presentati contro di essa, e in particolare a quelli che evidenziano le sue gravi conseguenze etiche, politiche e religiose: poiché l’uomo ha un innato desiderio di felicità e di immortalità, è possibile che esso sia vano e non venga mai soddisfatto? È concepibile un’etica per chi non crede in una vita dopo la morte? La credenza nelle punizioni e nei premi nell’aldilà non è indispensabile alla coesione sociale? Se non c’è un destino ultraterreno perché alcuni uomini spingono il loro altruismo fino al sacrificio della stessa vita? Nel dare una risposta “almeno probabile” a simili quesiti Pomponazzi non solo combina elementi aristotelici e stoici, ma gioca sulla tensione presente all’interno dello stesso pensiero aristotelico fra la concezione dell’uomo come “animale razionale” – che raggiunge la suprema felicità sviluppando le sue capacità conoscitive in una vita interamente dedita alla contemplazione filosofica – e la concezione dell’uomo come “animale politico” – che si realizza nella vita associata. Pur con qualche tensione e incoerenza, Pomponazzi giunge così a gettare le basi di un’etica autonoma e “mondana”, che non assume come sua indispensabile premessa l’idea che l’uomo sia destinato a una vita ultraterrena. A suo avviso tutti gli uomini sono dotati di un intelletto “fattivo”, che sovrintende alle inferiori funzioni produttive, di un intelletto “pratico”, che conosce la distinzione fra bene e male e governa la vita morale, e di un intelletto “speculativo”, che esercita le funzioni puramente conoscitive. Ora “il fine del genere umano nel suo insieme è di esser partecipe di quei tre intelletti”, ma poiché l’uomo non può realizzare questo fine se non si conserva, e la virtù è indispensabile alla sua conservazione, Pomponazzi ne deduce che la moralità è un fine “umano comune”, funzionale alla sopravvivenza del corpo sociale. Tutti gli uomini, quindi, devono “partecipare perfettamente dell’intelletto pratico” e solo “relativamente” degli altri due. La moralità è quindi il fine che tutti gli uomini devono perseguire e che può condurre tutti alla felicità, che si raggiunge vivendo “conformemente alla virtù” e svolgendo correttamente la propria funzione all’interno della società.
La mortalità dell’anima non pregiudica il raggiungimento di questo fine, pienamente attuabile nella vita terrena, e non rende impossibile il conseguimento della felicità. Tuttavia, poiché gli uomini sono diversi e non tutti sono così “ben disposti” da ricercare la virtù di per sé, il timore di punizioni e la speranza di premi eterni svolge un’indispensabile funzione sociale, in quanto induce gli uomini a comportarsi rettamente e a rispettare le regole. È per questo motivo che i “legislatori”, medici delle anime che mirano più all’utile che alla verità, hanno diffuso la credenzanell’immortalità dell’anima. Si tratta però – ripete più volte Pomponazzi, fondendo spunti risalenti sia alla tradizione platonica sia a quella averroista – di una semplice “trovata”, paragonabile alle “favole” che le balie usano per convincere i bambini a fare “quel che esse sanno essere utile per loro”. In questo modo Pomponazzi da un lato delinea l’immagine, fortemente pessimistica, di un’umanità puerile che – se si eccettuano pochi saggi capaci di riconoscere la reale condizione dell’uomo, essere finito, mortale, radicato nella materialità – ha bisogno di essere irreggimentata tramite la minaccia di future punizioni o rassicurata con la speranza di una beatitudine di là da venire. D’altro lato egli finisce, volente o nolente, per mettere in questione il valore stesso delle “leggi”, cioè delle religioni rivelate, che come non manca di sottolineare “suppongono tutte che l’anima sia immortale”.
Pomponazzi chiude il Trattato affermando di credere fermamente che l’anima è immortale, ma ribadisce che ciò non è dimostrabile tramite la filosofia ma solo “in base agli strumenti peculiari della fede”. Si tratta di una dichiarazione sincera o di una semplice mossa cautelativa? Pomponazzi è un fideista che si rifiuta di spacciare per verità razionali i dogmi della sua religione o un miscredente camuffato? È difficile che tali domande possano mai trovare una risposta definitiva. Del resto allo storico interessano le conseguenze avute dalla pubblicazione del Trattato ben più che le convinzioni personali del suo autore. Ora, sappiamo in primo luogo che le polemiche intorno a questo testo non influiscono sulla carriera accademica di Pomponazzi, che continua a insegnare a Bologna e, lungi dal ritrattare come gli ha ordinato il papa, replica ai suoi critici con due scritti, l’Apologia (1518) e il Defensorium (1519), aggirando la normativa sull’insegnamento filosofico prevista dalla bolla Apostolici regiminis. In secondo luogo è indubbio che il clima venutosi a creare intorno a lui ha però condizionato le ultime fasi del suo percorso intellettuale. Nel 1521, commentando il De partibusanimalium, egli dichiara ai suoi studenti che, poiché si è “trovato in pelliçaria” (cioè ha rischiato di essere scorticato come un animale da pelliccia), non sa più che dire sul destino dell’anima umana. L’anno precedente, ultimata la stesura del De incantationibus e del De fato, decide di non pubblicarli: entrambe queste opere, fra le maggiori del pensiero del Rinascimento, saranno stampate postume nel 1556 e 1557 a Basilea, negli ambienti della cultura riformata e dissidente. In terzo luogo, l’immagine delle religioni come “favole” dotate di un’utilità politica indipendente dalla loro verità o falsità eserciterà una profonda influenza sulla cultura europea sino a tutta l’età moderna: quali che fossero le sue personali intenzioni, Pomponazzi diverrà per secoli uno degli autori preferiti di libertini eruditi, atei e teorici dell’“impostura” delle religioni.