PUSTERLA, Pietro
PUSTERLA, Pietro. – Nacque nel 1414 a Milano da Giovanni Pusterla di Tradate e da Caterina Pusterla, figlia del legum doctor Pietro; era dunque l’erede di due distinti rami del potente casato che primeggiava in città e alla corte viscontea, entrambi eminenti per prestigio e ricchezza.
All’inizio del Quattrocento, però, due diversi Giovanni Pusterla, uno dei quali era probabilmente il padre, l’altro un prozio di Pietro, erano stati coinvolti in congiure antiducali e colpiti da provvedimenti di proscrizione (il secondo fu anzi giustiziato), mentre era ancora irrisolta la questione delle confische ai Pusterla condannati per la congiura antiviscontea del 1340. Nonostante questi episodi, i membri del casato erano troppo ricchi, influenti e potenti per essere estromessi definitivamente dai luoghi del potere: non poteva essere ignorata la loro posizione eminente a Milano, la tradizione di dominio signorile nel Seprio, i beni fondiari e i diritti che detenevano in varie località, le cariche civili ed ecclesiastiche, la posizione di spicco nel quartiere ‘dei Pusterla’ in Porta Ticinese, presso la chiesa di S. Sebastiano; contava anche, seppure meno vivida, la tradizione affaristica e mercantile, giacché nei secoli i Pusterla avevano controllato l’ospizio della Balla, luogo di transito obbligato per i mercanti forestieri.
Nonostante la disgrazia che aveva colpito alcuni dei suoi, nel 1440 il giovane Pusterla fece il suo solenne ingresso nella vita pubblica, recandosi per conto del duca Filippo Maria Visconti, insieme al giurista parmense Nicolò Arcimboldi, presso Federico d’Asburgo eletto re dei Romani. In seguito, tra il 1445 e il 1447, fu più volte inviato a Roma, a Napoli, alla corte di Ferrara e soprattutto presso Francesco Sforza per condurre vari negoziati. Con Sforza ebbe occasione di fare amicizia; a detta dei suoi nemici, il condottiero gli promise un futuro di onori e ricompense a danno dei Piccinino e dei bracceschi, che allora erano potenti alla corte di Milano. Dopo la morte di Filippo Maria Visconti (1447), Pusterla partecipò attivamente ai governi della Repubblica ambrosiana, come molti nobili milanesi del suo ceto, e assunse incarichi di vertice nel giugno del 1449. Poco dopo, però, durante un tumulto che avrebbe dato il governo ai guelfi popolari, fuggì fortunosamente dalla città e raggiunse il campo dello Sforza. Fu bandito e sottoposto, come molti altri suoi pari, al sequestro dei beni.
Diventato duca, Francesco Sforza mantenne le promesse fatte a Pusterla, ricompensandolo con cariche e riconoscimenti prestigiosi. Nella cerimonia di proclamazione del 27 marzo 1450, toccò a lui il compito di porgere la spada al nuovo principe: il gesto rinnovava un’antica prerogativa dei Pusterla.
Diventato uno dei cortigiani più influenti, non solo per il prestigio del casato, ma anche per le sue personali doti e per il circolo impareggiabile di parenti, amici e clienti, non mancò di ottenere cospicui favori per i suoi. Il fratello Antonio, che aveva intrapreso la carriera ecclesiastica ed era protonotario, nel 1451 fu eletto vescovo di Como, cattedra già occupata da altri Pusterla. Pietro si riservò il ruolo di procuratore ed economo della diocesi, che fece peraltro gestire a un parente. Nel 1457, ben appoggiato dal duca alla corte di Roma, riuscì a fare mettere sulla stessa cattedra rimasta vacante un altro fratello, Martino, laico e dottore in legge, il quale fu frettolosamente ordinato sacerdote e resse la diocesi per altri tre anni, mentre il fratello Branda ebbe nel 1452 la nomina a podestà ducale di Bellinzona. Altri fratelli, parenti, amici e clienti beneficiarono delle efficaci intercessioni di Pusterla presso il duca, ottenendo cariche, doni ed esenzioni. Nelle lettere del duca, egli viene designato con il termine consocius, riservato esclusivamente a lui e a un altro favorito, Aloisino Bossi.
Nella località di Tradate, anticamente, i Pusterla avevano beni e interessi e controllavano un castello, che fecero ricostruire e dotare di una cappella di patronato familiare. Avevano immobili in varie parti del contado milanese, in particolare a Carpiano, sede di antichi possessi e di diritti signorili risalenti agli arcivescovi di Milano, e presso Melegnano.
Pusterla, in particolare, possedeva fondi, acque, mulini e alcune redditizie taverne (il Vigentino, Tradate, Concesa e Caronno), dislocate in luoghi di transito, per le quali nel 1455 ottenne patenti di ampia esenzione fiscale. Nel 1456 ricevette, inoltre, l’investitura nel feudo di Frugarolo alessandrino, già degli Spinola, con un corredo di proprietà fondiarie che incrementarono il suo già considerevole patrimonio: l’investitura era intesa a garantirgli i salari di cortigiano.
Come si è accennato, la forza dei Pusterla e di Pietro risiedeva soprattutto nelle relazioni in città, e in particolare nel reticolo di parentele e amicizie stabilito nel quartiere di famiglia, dove gli antenati di Pietro avevano dotato la chiesa di S. Sebastiano di lasciti importanti e di cappelle gentilizie. Pietro continuò la tradizione, facendo costruire e decorare riccamente tre nuove cappelle dedicate a S. Caterina, S. Martino e S. Pietro, accanto a quella di S. Giovanni Battista fondata dall’avo e dalla madre.
Al tempo dei Visconti, Pusterla era stato designato aulico equitante (non semplice famiglio equitante, si badi, ma aulico, che è carica cortigiana; ed è anche da escludere che avesse rivestito ruoli militari, come si è spesso scritto); Sforza gli confermò il titolo, che lo candidava a svolgere missioni diplomatiche e commissariali di rilievo. Nel 1452, mentre Alessandria era minacciata dal marchese di Monferrato, Pusterla vi fu inviato, insieme a vari altri agenti del duca (non fu però nominato governatore della città come spesso si ripete), con il compito di condurre le trattative con i vari contendenti, in una situazione complessivamente difficile e insidiosa. Guglielmo di Monferrato mostrava apparente disponibilità al dialogo, ma al contempo tentava di alimentare divisioni tra gli Sforza e i governatori degli Orléans di Asti: sostenuto dalla benevolenza del principe, Pusterla riuscì a evitare le possibili insidie della missione e, una volta uscito indenne dalla difficile congiuntura, ne approfittò per fare accordare certi privilegi al fratello Andrea, gerosolimitano. Nel 1454 si occupò del tracciato delle frontiere con Venezia e con la Savoia e di numerose faccende diplomatiche. Dal 1458 circa, come narrano gli ambasciatori mantovani, Pusterla fu scelto per seguire il giovane conte di Pavia, Galeazzo Maria, primogenito degli Sforza, in privato e in pubblico; lo scortò nelle varie occasioni cerimoniali e nei solenni viaggi a Venezia, Ferrara, Mantova e Firenze.
Oltre che a Milano, Pusterla aveva a disposizione un vasto reticolo di relazioni in varie corti e città, donde gli provenivano regolarmente notizie e informazioni aggiornate; questa ‘diplomazia privata’, forse di origine affaristico-mercantile, era diramata ed efficiente e fu spesso utile agli stessi Sforza; ma nello stesso tempo, era un potente strumento di influenza personale.
Questa sua caratteristica ebbe un peso nella più importante delle sue missioni, quella del 1461 in Francia. Pusterla aveva molti amici alla corte francese e si vantava di avere indotto il nuovo re Luigi XI, da lui visitato nel 1460 quando era ancora Delfino, a chiedere al duca di Milano l’invio di una formale ambasciata, preludio a una più salda amicizia che avrebbe sicuramente rafforzato la dinastia milanese (Dépêches des ambassadeurs milanais en France sous Louis XI et François Sforza, I, a cura di B. de Mandrot, 1916, p. 66 n.). Quando fu deciso di dare forma a questa importante missione, la scelta cadde su Pusterla, come egli stesso si attendeva; ma inaspettatamente, dovette anche subire l’imposizione di un compagno, Tommaso Morroni da Rieti.
Il Reatino era un politico e un letterato di una certa fama, ma anche un uomo vacuo e leggero, oggetto di frequenti denigrazioni; ma, soprattutto, era un forestiero, estraneo all’establishment milanese.
Alla fine le impuntature di Pusterla irritarono il duca e Pietro si dovette rassegnare a partire in compagnia di Morroni e di un segretario che li sorvegliava entrambi. Dopo costosissimi acquisti e preparativi per ‘ben apparire’, gli ambasciatori partirono per la Francia alla fine del 1461 e i dispacci di Pusterla si susseguirono da Amboise, Tours e dalle località dove sostava la corte regia: narrando l’andamento della missione, l’ambasciatore descrisse gli onori che gli erano riservati e la confidenza del re nei suoi confronti, facendo trasparire l’idea che l’accoglienza fosse destinata alla sua qualità di ‘grande’ milanese più che di rappresentante ducale (Fubini, 1994, p. 122).
In realtà, la missione fu nel complesso accolta freddamente: il Valois imputava allo Sforza le segrete imprese ostili al dominio francese a Genova e il sostegno militare prestato agli Aragonesi di Napoli; spingeva inoltre per un matrimonio angioino che i milanesi non potevano accettare, avendo già promesso Ippolita Sforza ad Alfonso d’Aragona. Ma nonostante queste difficoltà, e nonostante l’aperta ostilità di alcuni baroni del Regno di Francia, alla lunga l’obiettivo principale fu conseguito: si stabilirono più cordiali rapporti tra le due potenze e si preparò la strada alla concessione del feudo di Genova e Savona agli Sforza, avvenuta poco più tardi, alla fine del 1463. Pusterla si era adoperato al massimo delle sue possibilità per questo risultato e ne ricavò tutto l’onore e la reputazione che si attendeva: risorse che poté spendere nella competizione interna alla corte milanese, dove continuò a primeggiare.
Alla fine di aprile del 1465, Pusterla accompagnò a Napoli il conte Jacopo Piccinino, forse ignorando in buona fede che costui veniva mandato al massacro. Dopo la morte del primo Sforza (1466), la sua presenza fu sempre costante nelle cerimonie di Stato, nelle convocazioni dei consigli più ristretti, nelle ambascerie più onorevoli. Come sempre era al corrente di informazioni riservate che riceveva dal reticolo dei suoi fedeli, sguinzagliati in paesi vicini e lontani. Il nuovo duca Galeazzo Maria lo conosceva bene, avendolo avuto come mentore, ma nello stesso tempo lo temeva, come esponente di quel gruppo di potenti nobili ghibellini che avrebbero voluto interferire nel governo dello Stato e che trovavano ascolto presso la madre Bianca Maria Visconti.
Negando a Pusterla il ruolo eminente a cui aspirava, il duca incorse in qualche sgarbo cerimoniale; ma a ogni minimo torto ricevuto Pusterla reagiva con energia, tutt’altro che disposto a farsi umiliare dal giovane e impaziente principe.
Si è a lungo discusso se Pusterla avesse o no diritto al titolo di consigliere: i dispacci mantovani però superano la questione, mostrando la sua autorevole e costante presenza presso i duchi, gli incarichi ricoperti, il ruolo consulente nei maggiori affari di Stato e di corte: il prestigio familiare e la sua personale abilità lo tenevano ben saldo in cima alle élites di governo.
Fino al 1477, grazie anche alla saggezza del primo segretario Cicco Simonetta, che di Pusterla non era affatto amico, la potenza dei ghibellini a corte fu contenuta e non turbò troppo la vita politica milanese. Tra le tante missioni, Pusterla nel 1471 andò a Firenze con il duca e poi a Mantova in delegazione solenne per riaggiustare i rapporti tra gli Sforza e i Gonzaga, deteriorati a causa del ripudio della povera Dorotea, mancata sposa di Galeazzo Maria. Insieme agli altri inviati milanesi fu tra i primi ad ammirare la mantegnesca Camera degli sposi ancora fresca di pittura, una trionfante immagine dinastica e familiare che i Gonzaga esibirono insieme ai propri figli e figlie agli ambasciatori milanesi, per sottolineare la bruciante umiliazione subita.
Dopo l’assassinio di Galeazzo Maria (dicembre 1476), il Ducato attraversò una crisi potenzialmente gravissima, per le possibili rivendicazioni dei fratelli Sforza, le inquietudini serpeggianti a Genova e in alcune città lombarde, il logoramento della lega italica. Secondo alcune interpretazioni l’assassinio poteva essere l’esito dell’odio antico dei ghibellini, nel qual caso Pusterla sarebbe uno dei principali indiziati: ma la questione è assai controversa; di fatto il debole governo della duchessa Bona di Savoia fu costretto a lasciare spazio alle fazioni, e Pietro era tra i maggiori esponenti di quella ghibellina.
Nominato all’inizio del 1477 nel principale consiglio ducale, quello ‘di castello’, Pusterla presenziò raramente alle sedute, forse a causa dell’aggravarsi della gotta, ma sicuramente l’attività dei suoi sodali ghibellini (i Borromeo, i Marliani, i Landriani, i Pallavicini) si svolgeva dietro le quinte della politica, e altrettanto certamente un’opinione condivisa da questi nobili era l’ostilità al primo segretario Simonetta, diventato arbitro dello Stato.
L’obiettivo di eliminare il segretario fu raggiunto. I primi di settembre del 1479, dopo il ritorno dall’esilio di Ludovico il Moro, i ghibellini chiesero allo Sforza la testa di Simonetta: Ludovico accettò e lo fece arrestare e processare. Nei mesi successivi le tensioni interne diventarono insostenibili e nel 1480 Pusterla fu temporaneamente allontanato con il pretesto di un’onorevole missione a Ferrara, così come furono tenuti lontani gli altri nobili giudicati troppo potenti; i ghibellini però tornarono quasi subito in città, accolti con giubilo dai loro sostenitori: da questo momento le vicende interne del dominio furono da loro pilotate. Ludovico Maria Sforza, ancora esitante, fu infine indotto a far giustiziare Simonetta (ottobre 1480), un uomo che per tanti versi rappresentava la storia e la memoria stessa della dinastia.
Pusterla visse ancora qualche anno, rivestendo ormai senza contrasti la posizione di leader del ghibellinismo ‘di Stato’ e di corte, situazione a cui però iniziava a opporsi il Moro, desideroso di impadronirsi di tutte le leve del potere senza troppi condizionamenti di cricche e fazioni.
Morì il 1° aprile 1484 e venne tumulato nel sepolcro marmoreo da lui fatto erigere nella chiesa parrocchiale di S. Sebastiano, luogo delle sepolture e delle cappelle di famiglia.
L’ultimo testamento dava disposizioni circa il monumento e la pittura della volta di una delle cappelle da lui stesso fatte erigere, a opera di artisti di fama; e la sua committenza artistica si indirizzò anche ad altre chiese milanesi (Rossetti, 2013, p. 58, per una prima bibliografia).
Si conosce anche una sua modesta prova letteraria, un testo di facezie latine ispirate a quelle di Poggio (Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. H 48 inf., segnalato da Marco Petoletti). Secondo quanto scrivono gli ambasciatori mantovani, fu anche un rinomato cultore delle genealogie viscontee, probabilmente in relazione alla prerogativa cerimoniale della spada che spettava alla sua famiglia. Il testamento del 1484 è una vivida testimonianza della posizione raggiunta da Pietro in città e nello Stato: il testatore provvedeva largamente alle quattro figlie femmine, ben dotate e accasate, e ai due maschi rimasti dopo la morte di Gian Francesco, ovvero Giuliano e Baldassarre, che avevano condiviso con il padre – ma sempre nella sua ombra – onori di corte, battaglie politiche, difficoltà e successi.
Pusterla si può considerare uomo altamente rappresentativo del ceto nobile milanese di tradizione, attivamente partecipe alle vicende dello Stato ducale: la grande nobiltà milanese, specialmente quella di tradizione ghibellina, era disposta a garantire il suo appoggio ai nuovi principi, ma nello stesso tempo – guardando all’esempio delle aristocrazie d’Oltralpe – manifestava insofferenza verso i forestieri e gli homines novi protetti dal principe, e voleva essere riconosciuta, onorata e rappresentata come nobiltà ‘di Stato’, minacciando altrimenti la dissidenza, e non disdegnando se del caso le congiure (che i Pusterla avevano praticato fin dal Trecento, pur essendo tra i primi a corte).
Già in giovane età Pusterla aveva sposato Lucia di Lancillotto Crotti, appartenente a una famiglia ben collocata nell’ufficialità viscontea.
Ai figli assicurò dei legami matrimoniali con le famiglie ghibelline di maggior rango, i Bossi, gli Stampa, i Crivelli, i Visconti di Somma, non trascurando peraltro i potenti Castiglioni, secondo scelte ben meditate che più di una volta si scontrarono con i disegni contrari del duca.
Il figlio più noto di Pusterla, Baldassarre, del quale non è nota la data di nascita, fu politico e aristocratico di rango, ma non ebbe certo lo spiccato profilo del padre, di cui si limitò a seguire le orme in un clima politico ormai mutato con l’emergere del potere di Ludovico il Moro. Nel 1489, insieme al cognato Battista Visconti, fu ammesso al consiglio segreto ducale e contestualmente fu inviato a Parma come commissario; qui, ispirato dalle prediche di Bernardino da Feltre, sollecitò la riforma del locale ospedale. La sua commissaria fu ben accetta ai parmigiani e si concluse nel 1492. Dal matrimonio con Orsina di Giovanni Stampa nacquero Daria, Giovan Battista (1486) e più tardi Pietro. Anche Baldassarre fu esponente di primo piano del ghibellinismo nobile milanese, un partito che a differenza del passato era sostanzialmente allineato alle fortune di Ludovico Maria Sforza, luogotenente del Ducato e poi duca. Pusterla fu anzi uno dei più coerenti sostenitori del Moro e in particolare fu tra coloro che nel 1494 lo acclamarono duca a scapito dell’erede del principe defunto: una messinscena che ottenne l’effetto sperato, visto che, come scrive Bernardino Corio, nessuno osò protestare (Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, 1978, p. 1564). Baldassarre Pusterla fu incaricato di molte missioni solenni: nel 1493 fece parte del numeroso seguito di Bianca Maria Sforza che andava sposa a Massimiliano d’Asburgo e nel 1496 svolse un’ambasciata a Venezia. Tutto il suo agire politico, alla fine, fu votato a una costante fedeltà al Moro e alla sua cerchia. Morì il 7 settembre 1499 a Genova durante la guerra con i francesi, ciò che gli risparmiò la triste esperienza di assistere alla rovina del Ducato.
Fonti e Bibl.: La bibliografia su Pusterla, così come le fonti, coincide con la produzione storiografica sul dominio ducale; cfr., come essenziali indicazioni: Archivio di Stato di Milano, Famiglie 149, Pusterla; Reg. ducali 134, c. 307, 1 apr. 1455 (esenzioni); Notarile, b. 1021, 29 feb. 1484 (ultimo testamento); Reg. Missive 15, c. 289 (incarichi viscontei). Dépêches des ambassadeurs milanais en France sous Louis XI et François Sforza, I, a cura di B. de Mandrot, Paris 1916, p. 66 n., 80 s., 94; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS, XXI, 2, Bologna 1932, ad ind.; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Torino 1978, pp. 1193 s., 1297, 1564 e passim; Carteggi diplomatici fra Milano sforzesca e la Francia, I, a cura di E. Pontieri, Roma 1978, p. 86-89, 92 s., 102 s.; Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, coordinamento di F. Leverotti, I-XII (vari curatori), Roma 1999-2002, ad indices; Carteggi degli oratori sforzeschi alla corte pontificia, I, Niccolò V, a cura di G. Battioni, Roma 2013, ad indicem.
P. Litta, Le famiglie celebri italiane, Milano 1837, Della Pusterla, tav. III; A. Pezzana, Storia della città di Parma, V, Parma 1854, ad ind.; F. Leverotti, Diplomazia e governo dello stato. I famigli cavalcanti di Francesco Sforza (1450-1466), Pisa 1992, pp. 226-228; R. Fubini, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di Lorenzo il Magnifico, Milano 1994, ad ind.; N. Covini, La balanza drita. Pratiche di governo, leggi e ordinamenti nel ducato sforzesco, Milano 2007, ad ind.; E. Rossetti, Sotto il segno della vipera. L’agnazione viscontea nel Rinascimento: episodi di una committenza di famiglie, Milano 2013, p. 58 e n.