RUFFO, Pietro
– La data e il luogo di nascita sono incerti. Probabilmente nacque agli inizi del XIII secolo in Calabria (a Tropea), dove un ramo della sua famiglia, originaria della Normandia, si era stabilito nella seconda metà dell’XI secolo giungendovi al seguito di Roberto il Guiscardo e Ruggero d’Altavilla.
La prima notizia documentata relativa a Pietro Ruffo risale tuttavia all’ottobre del 1239, quando Federico II di Svevia gli affidò la custodia del castello di Crotone. Due mesi più tardi, figura poi (con due nipoti ex fratre, Folco e Giordano) in un elenco di baroni incaricati della sorveglianza di uno o due prigionieri catturati nel corso della guerra combattuta in Lombardia.
Nei due diplomi federiciani Pietro e i nipoti sono indicati con l’appellativo toponomastico de Calabria, che si era quindi ormai definitivamente aggiunto al cognome Ruffo per distinguere la famiglia insediatasi in quella regione sia dal ceppo originario d’Oltralpe sia dai rami trasferitisi altrove, come quello inglese e l’altro contemporaneamente presente in Sicilia.
Questi primi modesti compiti di sorveglianza furono per Ruffo l’inizio di una brillante carriera burocratica e militare che in breve tempo lo portò a ricoprire cariche sempre più importanti. Nel gennaio del 1240, anche in virtù delle sue competenze in campo veterinario, fu nominato magister et provisor super aratiis et marescallis Calabriae, carica che comportava la sovrintendenza alle scuderie imperiali della regione, e in tal veste il 30 aprile, per ordine di Federico II, requisì una certa quantità di cavalli per soddisfare urgenti esigenze della corte. Ma poco dopo (decreto da Oria, 3 maggio 1240) dalla regione di origine Ruffo venne trasferito in Sicilia a occupare un posto di notevole rilievo. L’imperatore unificò infatti i due giustizierati dell’isola e gli affidò la carica, ordinandogli di prestare il giuramento di fedeltà nelle mani di un suo emissario. Tra la fine del 1243 e gli inizi del 1244, gli fu poi assegnato il prestigioso ufficio di Imperialis Marescallae Magister, estendendo così all’intero Regno di Sicilia le funzioni di sovrintendente alle scuderie esercitate in precedenza in Calabria.
Una delle principali attribuzioni di questa nuova carica era la direzione delle famose stazioni regie di allevamento equino, che fornivano il bestiame utilizzato nelle ricorrenti campagne belliche in cui era impegnato Federico II. Con tale nomina, che denotava l’apprezzamento dell’imperatore per l’efficienza da lui dimostrata nello svolgere i compiti affidatigli, Ruffo venne perciò a inserirsi nella ristretta cerchia dei dirigenti dell’amministrazione centrale sveva; inoltre egli cumulò a questo incarico altre mansioni politico-amministrative di notevole responsabilità come quella di vicario imperiale in Calabria e Sicilia, di cui si ha notizia da un documento del marzo 1247. Negli anni successivi fu assiduamente al seguito dell’imperatore, del quale – secondo il cronista Nicolò di Jamsilla – divenne il più fidato di tutti i consiglieri e in tale veste firmò i vari atti ufficiali emanati dallo Svevo durante la spedizione militare contro i comuni dell’Italia centro-settentrionale. Insieme con lui figurava spesso il nipote Folco; entrambi, il 10 dicembre 1250, tre giorni prima della morte di Federico II, ne sottoscrissero il testamento.
Subito dopo la morte dell’imperatore, il figlio naturale Manfredi inviò un dispaccio ai cittadini di Palermo per esortarli a prestare omaggio al nuovo sovrano Corrado IV – che si trovava in Germania – nelle mani del fratello minore Enrico e del maresciallo del Regno Pietro Ruffo «diletto familiare nostro» (J.L.A. Huillard-Breholles, Historia..., 1852, p. CDX), appositamente mandati in Sicilia. In qualità di tutore di Enrico, Ruffo venne perciò di fatto ad assumere il governo dell’isola e della vicina Calabria, dove poteva contare su solidi vincoli di parentela.
I rapporti tra i due fratelli, Manfredi e Corrado, cominciarono però ben presto a deteriorarsi e Ruffo prese decisamente le parti di quest’ultimo, dal quale nel parlamento generale di Melfi del febbraio 1252 fu investito della contea di Catanzaro e designato ufficialmente vicario imperiale in Sicilia e Calabria.
In un messaggio indirizzato al popolo di Palermo, Corrado motivò la scelta di Ruffo quale suo rappresentante nell’isola con lo zelo e l’abilità fino ad allora da lui dimostrati nell’esercizio delle cariche ricoperte, comportamento particolarmente efficiente per il quale aveva meritato il suo elogio.
Morto all’inizio del 1254 Enrico (il minore dei figli di Federico II, che dal gennaio del 1251 dimorava in Sicilia), Corrado IV – su suggerimento di Ruffo – ritenne opportuno recarsi nell’isola per imporre la propria autorità contestata da Manfredi. Tuttavia, nel maggio del 1254, durante il viaggio Corrado morì improvvisamente a Lavello, in Basilicata, dopo aver redatto il testamento con il quale era costituito suo erede nel Regno di Sicilia l’unico figlio, Corradino, ancora fanciullo, che peraltro si trovava in Germania. Durante la minorità dell’erede l’imperatore stabilì che la reggenza del Regno fosse assegnata a Bertoldo di Hohenburg, nobiluomo a lui devoto, che veniva così a prendere il posto dell’inaffidabile Manfredi. Era invece mantenuta a Pietro Ruffo la guida dell’amministrazione della Sicilia e della Calabria, che avrebbe dovuto però tenere sotto la sovrintendenza del reggente. Ruffo stabilì la propria dimora a Messina.
Già nel 1251, come denota un documento del novembre di quell’anno, aveva lì coperto la carica di stratego (ovvero presidente della locale curia stratigoziale, con competenze di carattere giudiziario, amministrativo e annonario) in aggiunta a quella di vicario imperiale. La carica era di durata triennale; Ruffo la manteneva in effetti anche nell’agosto del 1252, quando, assistito da un notaio suo conterraneo, emise una sentenza per risolvere la controversia tra un signore locale, Gregorio Mustaccio, e il vescovo di Patti a proposito della giurisdizione sui casali di Santa Lucia e Sinagra. Prima della scadenza del mandato, anche per porre fine al malumore che tra la popolazione aveva destato il cumulo delle cariche, decise di farsi sostituire alla guida della curia stratigoziale messinese, ricorrendo comunque a un membro della sua famiglia, Guglielmo Ruffo di Tropea, per continuare a esercitarvi l’effettivo controllo. A questo congiunto, Ruffo avrebbe successivamente affidato compiti di carattere giudiziario estesi all’intera circoscrizione di cui era vicario. Nel dicembre del 1253, Guglielmo Ruffo figurava infatti vicario di Pietro, conte di Catanzaro, per l’amministrazione della giustizia in Sicilia e in Calabria e con questo ruolo espresse il suo giudizio nella vertenza intercorsa tra il canonico della diocesi di Messina, Enrico di Fonte, e tale Capochio, procuratore di Palermina che ottenne la restituzione di alcuni beni usurpati dal canonico.
Nella città dello Stretto, dove abbastanza forti erano le spinte autonomistiche, Ruffo assunse un atteggiamento piuttosto autoritario, deludendo le aspettative iniziali della popolazione locale e in particolare dell’influente ceto mercantile, che costituiva il nucleo principale della borghesia messinese. Questo ceto medio, che attraversava una fase di crescita economica, si mostrava insofferente dell’azione accentratrice portata avanti dal vicario imperiale e mirava a ritagliarsi maggiori margini di potere. Per fronteggiare l’ostilità della borghesia cittadina, organizzatasi politicamente, Ruffo si avvicinò alla nobiltà locale che, timorosa delle minacce portate alla propria tradizionale supremazia, cercava di contrastare le ambizioni della componente borghese.
Si venne pertanto a determinare a Messina un’alleanza tra il conte di Catanzaro e la nobiltà messinese al fine di contenere l’avanzata della borghesia, ceto che trovò in Leonardo Aldigerio la propria guida. Con l’appoggio del patriziato messinese, Ruffo riuscì a sventare un complotto ordito dai borghesi per costringerlo a lasciare il suo incarico; la congiura fu scoperta e l’Aldigerio venne rinchiuso in prigione.
Tuttavia, a partire proprio dal 1254, Ruffo cercò di approfittare delle condizioni di grave disordine in cui si venne a trovare il Mezzogiorno d’Italia, per emanciparsi dalla tutela sveva.
Manfredi non si era rassegnato all’estromissione dal vicariato nel Regno di Sicilia stabilita dal fratello e, in qualità di unico figlio superstite dell’imperatore Federico II, approfittando della minorità e della lontananza dell’erede designato Corradino, avanzò le sue pretese alla Corona siciliana, aspramente contrastate da Innocenzo IV e Alessandro IV. Alla ricerca di un principe a essa ligio al quale concedere l’investitura, la Chiesa spronò baroni e città demaniali del Regno di Sicilia alla rivolta contro Manfredi. Le città demaniali in numero crescente innalzarono il vessillo pontificio e cercarono di dotarsi di libere istituzioni municipali, laddove a sua volta la nobiltà feudale, con la sua spregiudicata condotta incline al tradimento, aumentava l’instabilità politica.
Di queste condizioni di grave disordine in cui si venne a trovare il Mezzogiorno d’Italia negli anni successivi alla morte di Federico II, Ruffo cercò di approfittare per emanciparsi dalla tutela sveva. Sulla scia di quanto contemporaneamente stava avvenendo nell’Italia centro-settentrionale, dove signori avveduti e potenti erano riusciti a imporre la propria autorità, Ruffo mirò a costituire una signoria comprendente Sicilia e Calabria con capoluogo Messina, città in cui, con il sostegno dell’aristocrazia locale, aveva cominciato a gettare le basi del suo potere. Per dare legittimità alle sue ambizioni, Ruffo si presentò come rappresentante di Corradino e, quando il contrasto tra Manfredi e la Chiesa sfociò in aperto conflitto, egli si schierò dalla parte della S. Sede, alla quale manifestò la sua adesione anche la città di Messina, i cui amministratori però volevano approfittare del sostegno del papa per liberarsi da ogni ingerenza del conte di Catanzaro. Richiamato all’obbligo della fedeltà alla dinastia sveva da Manfredi, che sosteneva di lottare contro il pontefice per conto del lontano nipote Corradino, Ruffo cercò di destreggiarsi tra i due contendenti ma gli venne meno il supporto della nobiltà messinese. Questa, contraria al suo crescente accentramento del potere, insieme con il popolo si ribellò infatti alla sua autorità e lo costrinse ad abbandonare precipitosamente la città.
Fallì così definitivamente il disegno di impiantare in Sicilia e Calabria una duratura signoria: soluzione per la quale non vi erano le condizioni necessarie nel Mezzogiorno d’Italia nel XIII secolo.
Postosi al servizio di Alessandro IV e riparato in Calabria (dove poteva ancora contare su una consistente schiera di sostenitori), Ruffo intraprese nel 1255 una spedizione militare contro le forze fedeli a Manfredi, che però riuscirono in breve ad avere la meglio e assoggettare l’intera regione all’autorità del sovrano svevo, costringendolo alla fuga. Un successivo estremo tentativo di riprendere la lotta, dopo avere effettuato uno sbarco a San Lucido (sulla costa tirrenica), fallì e Ruffo dovette definitivamente abbandonare ogni speranza di successo.
Nel febbraio del 1256, nella Curia generale tenuta a Bari da Manfredi, Ruffo, giudicato colpevole di alto tradimento, fu ufficialmente privato della Contea di Catanzaro. Per sfuggire alla prevedibile rappresaglia di Manfredi, si rifugiò nello Stato della Chiesa. Agli inizi del 1257 fu però ucciso a Terracina da un sicario del sovrano svevo.
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