TRINCHERA, Pietro (Antonio Leonardo Salvatore). – Nacque a Napoli l’11 giugno 1702 nel quartiere di Borgo Loreto, figlio del notaio Domenico e di Angela Balzano. La data di nascita è confermata dal certificato di battesimo nonché, indirettamente, dal privilegium notarile conferitogli nel luglio del 1726; è invece inattendibile l’età di 37 anni dichiarata nel processetto matrimoniale del 1744 (Scognamiglio, 2010; fosse davvero nato nel 1707, sarebbe diventato notaio da minorenne)
Apprese la professione nella curia paterna. Librettista, commediografo, poeta, impresario, tra il 1732 e il 1754 scrisse tre commedie di parola e più di trenta commedie per musica, variamente denominate commeddeja, mmenzione (invenzione) o melodrama (al femminile), ma anche, con ricercata sprezzatura, pazzia, commesechiamma o chelleta (inezia, fanfaluca). Nel 1753 affermò che L’Elmira generosa era il suo trentaseiesimo titolo in «sta sorte de composezeone», ma ne manca all’appello almeno uno per colmare la somma in tale data. Collaborò con compositori di spicco – pochissime musiche sono pervenute – e con importanti cantanti buffi e buffe. Poetò canti carnascialeschi in dialetto offerti ai sovrani da corporazioni artigiane (in fogli volanti e manoscritti poi raccolti da eruditi napoletani dell’Ottocento; Canti carnascialeschi napoletani, a cura di O. Casale, Roma 1977, p. XI; i componimenti di Trinchera sono alle pp. 9-69).
La moneca fauza (La finta monaca), sua prima commedia, circolò manoscritta nel marzo del 1726 (edita in Il teatro italiano, IV, La commedia del Settecento, I, a cura di R. Turchi, Torino 1987, pp. 299-392) ed è l’opera che assicura tuttora la fama di Trinchera, anche grazie alla riscrittura offertane nel 1964 da Eduardo De Filippo (in Tre adattamenti teatrali, Torino 1999, pp. 49-117). L’autore, che si firmò con l’anagramma Terentio Chirrap, adottò un sottotitolo spagnoleggiante, La forza de lo sango, con riferimento all’agnizione finale.
Non si trattò di drammaturgia meramente anticlericale, bensì di un complesso manifesto in favore del teatro dialettale, che nel soggetto guardava al Molière del Tartuffe, ma anche dell’Avare. Trinchera si presentò come esperto tessitore di fonti diverse e nei tre atti, con due intermezzi cantati, seppe creare una tarsia drammaturgica che preannunciava il sapere librettistico da esibire al mondo dei notai-commediografi. La lingua, salvo che per la finta monaca (toscano), è il napoletano. L’ipocrita ‘suor’ Fesina di Lucca, pretendendo di avere visioni celesti, estorce denaro all’avido credulone Arazio per condurre le sue macchinazioni furfantesche e fornicatorie. Ne fa le spese Desperato, servo da commedia dell’arte, che però d’intesa con Masillo, giovane notaio (trasparente allusione all’autore), smaschera la finta monaca in una scena di magia. Tutti i personaggi finiscono al vescovado di Napoli per denunciare l’eretica e lasciva Fesina (il dato contraddice almeno in parte l’assunto anticlericale che si è poi voluto cogliere nella commedia). Per il personaggio della finta monaca l’autore si ispirò anche all’eretica Giulia De Marco (sec. XVII), condannata per aver animato una setta che indulgeva in adunanze tutt’altro che caste: il processo oppose i teatini, che la portarono all’abiura, ai gesuiti, protettori della finta ‘santa viva’. La pièce è un campionario drammaturgico, colto e afrancesado, che attraverso l’opposizione tra il toscano – ancorché ‘scadente’ («ncalabresato», atto III, scena ultima) – e il napoletano dei personaggi positivi si posiziona in un ambito diverso dai circoli petrarchesco-arcadici come quello di Alessandro Riccardi, morto proprio nel 1726, o delle commedie in toscano di Niccolò Amenta.
Nel 1732 esordì come librettista con una commedia per musica allestita a due riprese in provincia, sotto titoli diversi: ad Aversa Prizeta correvata (Brigida stizzita); ad Angri Li nnammorate correvate (beffati). La gnoccolara (1733; edita in Teatro napoletano del ’700, a cura di F.C. Greco, Napoli 1981, pp. 99-193) fu la sua seconda commedia, indicata però come prima nella dedica, forse in ragione della circolazione solo manoscritta della precedente.
L’azione verte attorno alle vicende di Graziella, giovane presunta vedova che, come vogliono gli avidi suoi genitori, ‘impasta gnocchi’ (ossia, per traslato, fa la civetta) con vari pretendenti. Come in una parodia dell’Odissea, nel finale la giovane si ricongiunge con il marito, lo sciocco Luca Fasulo, fino ad allora in incognito. La rappresentazione realistica di alcune classi sociali napoletane in una struttura drammaturgica colta e tradizionale spicca nel panorama coevo per la stoffa linguistica e l’osservazione dell’ambiente, oltre che per lo scialo delle citazioni erudite in bocca a un abate pedante.
In Napoli il debutto librettistico avvenne nel 1735 con Don Pasquino, cui seguirono Lo corrivo (L’inganno) e Le mbroglie p’ ammore (1736), tutti al teatro della Pace. Don Pasquino risalta per la forza comica dell’eroe eponimo, interpretato da Nicola Pellegrino, che, duro d’orecchio e corto di vista, si produce in veri e propri lazzi. Si ritrova l’attore-cantante in due altre commedie per musica, Lo secretista (Il ciarlatano; 1738) e Don Paduano (1745), dove pure interpretò un personaggio «locco, surdo e de corta vista», a conferma dello stretto rapporto drammaturgo-interprete-spettatori.
La curia notarile di Trinchera fu in sé un piccolo ‘covo’ di personaggi legati al teatro d’opera, come Antonio Palomba, il notaio-librettista di cui egli adattò e in parte ‘corresse’ alcune opere e al quale affidò a sua volta il «concierto» (ossia l’allestimento) di alcune sue commedie (come Lo tutore nnammorato, 1749), il compositore Nicola Logroscino, l’impresario Antonio D’Enrico (Archivio di Stato di Napoli, Archivi notarili, Archivi dei notai del XVIII secolo, 285/1-10). Nel già citato Le mbroglie p’ ammore compare il personaggio del notaio, uno dei marchi di fabbrica della drammaturgia di Trinchera. Nel Barone di Zampano (1739) il personaggio di Nota’ Mario, interpretato dal basso buffo Girolamo Piano, fa da ‘spalla’ ridicolizzando l’ignoranza del barone parvenu, interpretato dal famoso buffo Gioacchino Corrado. A partire da questi anni le commedie per musica mescolano toscano e dialetto, per esigenze vuoi degli interpreti vuoi del mercato. Per attori-cantanti come Corrado, a fine carriera, o il tenore Simone De Falco, specializzato nei ruoli di vecchia, il librettista, abilissimo nell’esaltare le caratteristiche degli attori-cantanti, concepì parti che calzassero sul loro profilo e sulla loro fama.
Del 1738 è l’ultima commedia, Nota’ Pettolone, in napoletano con parti in toscano. L’incipit («Nicolaggine, non ti partire») è un’inaspettata citazione dalla Mandragola di Niccolò Machiavelli (atto I, scena 1): la battuta svela il desiderio del notaio napoletano di confrontarsi con il capolavoro proibito del Rinascimento, ma discostandosi invero dal toscaneggiante Amenta. La commedia andrà forse messa in relazione con il viaggio in Toscana intrapreso dal principe Giuseppe Maria de’ Medici d’Ottaiano dopo l’estinzione della dinastia toscana nel 1737.
La trama propone le consuete coppie antagoniste di giovani e vecchi, lo scontro fra padri e figli, amori, ironie sulle formule notarili. Froleo Pettolone, trasandato e «notaresco», è uno dei notai più riusciti nella galleria di Trinchera. La commedia contiene altre battute inconsuete, stante la poetica antitoscana dell’autore: Donn’Ercole ricorda un regalo del granduca di Toscana, e Mast’Alesio risponde che «casa Medici è stata sempe galante e generosa», al che Ercole incalza: «È ’no sole che luce e scarfa [scalda] a tutte» (atto III, scena 26). Queste battute vennero eliminate nella seconda edizione (1748): si può supporre che il testo del 1738 fosse legato a un’occasione toscana specifica.
Nel 1741 mandò in scena La tavernola abentorosa, melodramma che causò seri problemi giudiziari all’autore e allo stampatore. L’operina, rappresentata in febbraio al monastero di S. Chiara, dichiara fin dalla prefazione una programmatica attenzione per le classi sociali svantaggiate: «Digno è de laude l’autore de sta burletta; pocca è stato lo primmo che ave llustrato la gente cchiù bascia de lo paese sujo». L’azione, che s’inserisce tra le opere buffe ambientate in una taverna o un’osteria, ruota attorno a fra Macario che, adorato dal popolo, si adopera come ruffiano; alla fine le coppie, anziché comporsi o ricomporsi in maniera più o meno rassicurante, si votano alla vita religiosa. L’intreccio, il caso legale-giudiziario che ne scaturì e le parole della prefazione hanno destinato questo testo, come quello del 1726, a rappresentare Trinchera quasi come un martire dell’anticlericalismo in scena (Croce, 1891; Greco, in Civiltà del ’700 a Napoli..., 1980). Un dato significativo sta nella trama, considerata libertina dai censori che nel 1741 perseguirono i responsabili; ma già nel 1737 Trinchera aveva scritto per il conservatorio di S. Maria di Loreto un intermezzo con un altro frate eremita fasullo, Lo finto remita, senza che gliene fossero derivate conseguenze penali. Incriminato dalla censura religiosa, in una supplica al re il commediografo affermò (o volle far credere) che il libretto non era suo bensì di padre Francesco Oliva (Cicali, 2000a, p. 117 nota 16; Capone, 2007, p. 362); del sacerdote-librettista Trinchera effettivamente riadattò poi Lo castiello sacchejato (1720) per L’Emilia (1747; edizione di ambo i libretti a cura di P. Maione, Venezia-Santiago de Compostela 2015, http://www.usc. es/goldoni/biblio?id=38, 9 novembre 2019). Salvo l’introduzione e l’uso frizzante di linguaggio e atmosfere popolari con ricchi elenchi di cibarie, il testo è poco più che una bambocciata, e Trinchera fu forse vittima di sfavorevoli circostanze storiche: il rigore della censura andrà magari ascritto al concordato tra Roma e Napoli, che, giunto nel 1741 in una fase cruciale, prevedeva anche una stretta censoria sulle pubblicazioni.
La produzione teatrale, non però quella notarile, si interruppe fino al 1744, l’anno in cui Trinchera sposò la diciottenne Maria Angela Verusio, figlia di Giuseppe e di Rosa Fontana; dal matrimonio nacque la figlia Margherita (Paci, 2009-10, pp. 11 s., 37). La collaborazione con il teatro dei Fiorentini segnò una maturazione drammaturgica. Nel 1746 scrisse La finta vedova: le musiche di Niccolò Conforto, pervenute, illustrano le risorse, a tratti brillanti, di una compagnia composta in prevalenza da voci di soprano, cui si aggiungono un contralto e due bassi buffi, gli specialisti Antonio Catalano e Domenico Antonio De Amicis. Il concerto (teatro Nuovo, 1746), dato alle stampe sotto lo pseudonimo Partenio Chriter, e Il corrivo (1751, Fiorentini), riadattamento dell’Orazio di Palomba, sono i principali testi metateatrali di Trinchera, secondo la voga settecentesca del teatro nel teatro.
Dal 1747-48 fu impresario dei Fiorentini. Il debutto avvenne con L’Amore in maschera (Carnevale del 1748) di Palomba, musica di Niccolò Jommelli. Fino al 1755 continuò a scrivere per il Nuovo e a lavorare come notaio. Per L’Aurelio (1748) riprese un libretto di Gennaro Antonio Federico (L’Alidoro, 1740), ritoccando i primi due atti e ricomponendo il terzo. Degno di nota è L’abbate Collarone (1749): nella prefazione l’autore espose le condizioni sociali delle cantanti, provenienti da ceti poveri, talché per loro il teatro musicale poteva essere un mezzo di emancipazione, se condotto con virtù; e in tal modo forniva una difesa della professione. In questi anni Trinchera continuò l’assidua collaborazione con Logroscino, per Lo cicisbeo (1751) e Lo finto perziano (1752).
Dell’attività impresariale, scarsamente documentata (Croce, 1898; Prota-Giurleo, 1927, p. 78), si sa quantomeno che Trinchera collaborava con altri impresari, come risulta dai pochi documenti rimasti nell’Archivio storico del Banco di Napoli, e fu poi imprigionato per debiti.
Morì suicida il 2 febbraio 1755 nel carcere napoletano di Ponte Tappia. La morte violenta ne ha fomentato la fama postuma, generando però imprecisioni negli studi, che a volte legano il tragico gesto a motivi di censura religiosa connessi con La tavernola abentorosa di quattordici anni prima.
Trinchera, il cui stile era di scrivere «ncoppa a llo nnaturale» (sul calco della natura; Il finto cieco), dimostrò una notevole arte drammaturgica, che lo pose ai vertici dei notai-librettisti coevi. Raffinato e colto ‘Aristofane napoletano’, sfruttò artisticamente il proprio ‘mondo’ sociale, notarile e linguistico, ma anche quello del teatro, per lo speciale rapporto con compositori, interpreti e spettatori, oltre che per il sapiente uso di elementi della commedia dell’arte nelle sue «pazzie» per musica (certi personaggi ricorrono perfino al «parlar bragamasco» appreso a vedere la «commedea»; Le fenzeune abbentorate, 1745, atto III, scena 1). Non intervenne nel dibattito teatrale corrente, ma polemizzò contro ‘pedanti’ coevi in prefazioni e dediche in cui espresse anche una propria poetica improntata al realismo. Dette nuova vita al personaggio del notaio napoletano, mettendo in burla anche il mondo notarile e i nuovi nobili, che seppe rendere in scena con maestria, anche grazie a grandi attori-cantanti.
Opere (tutte commedie per musica stampate e allestite in Napoli, salvo diversa menzione). La moneca fauza o La forza de lo sango, commesechiamma de Terentio Chirrap (commedia di parola, marzo del 1726; Napoli, Società napoletana di Storia patria, ms. XXII.D.26.1732); Prizeta correvata (Aversa, teatro Nuovo, 1732; musica di Giuseppe Ventura), ristampata con il titolo Li nnammorate correvate (Angri, agosto 1732); La Gnoccolara o vero Li nnammorate scorcogliate (raggirati; commedia di parola, Napoli 1733; allestimenti non documentati); Don Pasquino (Napoli, Pace, autunno 1735; Giovan Gualberto Brunetti); Lo corrivo (Pace, 1736; Brunetti); Le mbroglie p’ ammore (Pace, autunno del 1736; Odoardo Carasali); Lo finto remita e Lo straccione, intermezzi (conservatorio di S. Maria di Loreto, Carnevale del 1737; Arcangelo Jervolino); La simpatia del sangue (Nuovo, autunno del 1737; Leonardo Leo); Lo secretista (Nuovo, primavera del 1738; Carlo Cecere); Nota’ Pettolone (commedia di parola, Napoli 1738; allestimenti non documentati); La rosa (Nuovo, autunno del 1738; compositore ignoto sotto lo pseudonimo Papebrocheo Fungone); L’amante impazzito (Nuovo, inverno del 1738; Matteo Capranica); Il barone di Zampano (Nuovo, primavera del 1739; Nicola Porpora); La tavernola abentorosa (monasteri di S. Chiara e Monte Oliveto, s.d. ma 1741; Cecere); L’incanti per amore (Nuovo, autunno del 1741; Antonio Palella); Ciommetella correvata (Pace, autunno del 1744; Logroscino); Li zite (Pace, primavera ed estate del 1745; Logroscino); Don Paduano (riscrittura della Rosa; Pace, inverno del 1745; Logroscino); Le fenzeune abbentorate (Pace, inverno del 1745; Pietro Gomes, Gomez o Comes); La finta vedova (Fiorentini, Carnevale del 1746; Conforto); Il concerto (Nuovo, primavera del 1746; Gaetano Latilla); L’Emilia (da Oliva; Fiorentini, primavera del 1747; Capranica); La vennegna (‘vendemmia’; Pace, autunno del 1747; Gomes); L’Aurelio (Nuovo, primavera del 1748; Capranica); L’abbate Collarone (Pace, 1749; Domenico Fischietti o Fischetti); Lo tutore nnammorato (Pace, Carnevale del 1749; Nicola Calandra o Calandro, detto Frascia); La vecchia mmaretata (Pace, Carnevale del 1750; Latilla); Il mercante innamorato (Fiorentini, autunno del 1750; Antonio Corbisieri); Lo Cicisbeo (Nuovo, autunno del 1751; Logroscino); Il finto innamorato (Fiorentini, autunno del 1751; Corbisieri); Il corrivo (Fiorentini, 1751; Gregorio Sciroli); Il pazzo per amore (riadattamento di La moglie gelosa di Palomba; Fiorentini, Carnevale del 1752; Fischietti); Lo finto perziano (Nuovo, Carnevale del 1752; Logroscino); Il finto cieco (Nuovo, autunno del 1752; Gioacchino Cocchi); Li nnammorate correvate (diverso dalla commedia omonima del 1732, è un rifacimento di Lo finto perziano; Nuovo, inverno del 1752; Sciroli); L’Elmira generosa (Nuovo, Carnevale del 1753; Logroscino ed Emanuele Barbella); Le chiajese cantarine (Nuovo, Carnevale del 1754; Logroscino, Giacomo Maraucci, Fischietti). Vengono attribuiti a Trinchera l’intermezzo Fra Donato (conservatorio di S. Maria di Loreto, 1756; Antonio Sacchini: Sigismondo, 2016, pp. 101, 198, 228; non è noto un libretto a stampa) e, con minor probabilità, L’Olimpia tradita (Fiorentini, 1758; Sacchini), rifacimento de Li zite ngalera di Bernardo Saddumene (1722; D’Arienzo, 1899, p. 489).
Fonti e Bibl.: Alle fonti raccolte in Paci, 2009-10, pp. 204 ss., vanno aggiunti i documenti provenienti dagli antichi banchi napoletani, ora nell’Archivio storico del Banco di Napoli. P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle due Sicilie, Napoli 1786, pp. 551 s.; P. Martorana, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli 1874, pp. 401 s.; F. Florimo, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatori, IV, Napoli 1882, pp. 589-594; B. Croce, I teatri di Napoli. Secolo XV-XVIII, Napoli 1891, pp. 277-279 et passim; Id., La morte del commediografo P. T., in Giornale storico della letteratura italiana, XXXIII (1898), pp. 265 s.; N. D’Arienzo, Origini dell’opera comica, in Rivista musicale italiana, VI (1899), pp. 473-495; M. Scherillo, L’opera buffa napoletana, Palermo 1917, pp. 229-279; U. Prota-Giurleo, Nicola Logroscino, il ‘dio dell’opera buffa’, Napoli 1927; E. Battisti, Per un’indagine sociologica dei librettisti napoletani buffi, in Letteratura, VII (1960), pp. 114-164; E. Malato, La poesia dialettale napoletana, Napoli 1960, passim; V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli 1969, pp. 309-339; Civiltà del ’700 a Napoli: 1734-1799 (catal.), II, Firenze 1980 (in partic. F.C. Greco, Il teatro, pp. 372-380; R. Bossa, La musica, pp. 382-386); S. Capone, Autori, imprese, teatri dell’opera comica napoletana, Foggia 1992, passim; G. Borrelli, Notai napoletani tra Seicento e Settecento, Napoli 1995, pp. 66-69, 82 e passim; F. Cotticelli - P. Maione, Onesto divertimento e libertà dei popoli. Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano 1996, pp. 112, 166, 371 e passim; T. Megale - S. Ferrone, Contestazione e protesta sociale nell’opera di P. T., in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, Roma 1998, pp. 850-854; G.G. Stiffoni, Per una biografia del compositore napoletano Nicola Conforto (Napoli 1718-Madrid 1793), in Fonti musicali italiane, IV (1999), pp. 8 s.; G. Cicali, Drammaturgia e fonti teatrali de “La moneca fauza” di P. T., in Arte musica spettacolo. Annali del Dipartimento di storia delle arti e dello spettacolo, I (2000a), pp. 113-133; Id., Fonti classiche e strategie retoriche in una commedia di P. T., in Il Castello di Elsinore, XIII (2000b), 39, pp. 5-24; Id., Strategie drammaturgiche di un contemporaneo di Goldoni, in Problemi di critica goldoniana, 2001, n. 8, pp. 133-201; C. Jori, Plurilinguismo e parodia nella commedia per musica napoletana (1730-1750): G.A. Federico e P. T., in Studi pergolesiani / Pergolesi studies, V, Bern 2006, pp. 123-139; S. Capone, L’opera comica napoletana (1709-1749), a cura di C. Lombardi, Napoli 2007, ad ind.; F. Cotticelli, Il caso T., in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, a cura di F. Cotticelli - P. Maione, II, Napoli 2009, pp. 478-487; I. Paci, Il teatro di P. T., diss., Università di Catania, 2009-10; G. Scognamiglio, Per l’accertamento della data di nascita di P. T., in Rivista di letteratura teatrale, III (2010), pp. 9-11; Ead., Il lato oscuro del teatro, Napoli 2012, pp. 9-34; G. Sigismondo, Apoteosi della musica nel regno di Napoli, a cura di C. Bacciagaluppi - G. Giovani - R. Mellace, Roma 2016, pp. 101, 198, 228, 237.