VALENTE, Pietro
– Nacque a Napoli, il 10 agosto 1794, da Pasquale, avvocato, e da Anna Maria Palumbo.
Seguendo la propria inclinazione per l’architettura, tra il 1807 e il 1810 studiò matematica con il professore Vincenzo Flauti e figura con il pittore Giuseppe Cammarano. Mentre già frequentava i corsi regolari del locale istituto di belle arti, nel 1809 s’iscrisse ai corsi serali di disegno, geometria e architettura della scuola degli artieri, diretta dallo scenografo Domenico Chelli, con il quale nel 1811 collaborò nella direzione artistica del teatro S. Gioacchino di Salerno. Avviò in questo medesimo periodo numerose esperienze formative di apprendistato, facilitate dalla sua abilità di disegnatore, elaborando rappresentazioni prospettiche per i progettisti Stefano e Luigi Gasse, delineando fondali prospettici per pittori, prendendo parte occasionale alle campagne di rilievo intraprese dal governo murattiano a Pompei e collaborando agli occasionali approfondimenti del conte di Clarac e agli studi sistematici dell’architetto François Mazois, senza però accettare l’incarico stabile offertogli di ‘architetto disegnatore’.
Senza aver preso parte al relativo concorso del 1809, dal 1811 s’impegnò spontaneamente ma senza successo a elaborare progetti per il largo di Palazzo a Napoli, nell’ambito dei due programmi che si succedettero: quello laico del governo francese e dopo la restaurazione quello devozionale della monarchia borbonica, incentrato su un tempio votivo dedicato a S. Francesco di Paola.
Vincitore nella classe di architettura del primo concorso per il pensionato artistico a Roma, vi si trasferì dall’autunno del 1814, alternando lo studio delle antichità ai progetti contemporanei, tra cui, appunto, la nuova chiesa di S. Francesco di Paola, non senza prendere posizioni aspramente polemiche sulla conduzione del relativo concorso, anche mediante un pamphlet a stampa (Osservazioni dell’architetto Pietro Valente napolitano sulla Piazza della Reggia di Napoli, Roma 1819), che gli costò la temporanea sospensione della borsa di studio.
Non smise di occuparsi della questione anche dopo che la costruzione della chiesa fu avviata su progetto di Pietro Bianchi, facendo stampare nel 1837 per i tipi di Capurro di Pisa quattro opuscoli con le sue soluzioni (Progetto quinto: pianta del progetto per la chiesa di S. Francesco di Paola, presentato a concorso il dì 6 marzo 1816; Progetto sesto; Progetto settimo; Progetto ottavo ed ultimo). Diffondere e sostenere i propri progetti e le proprie opinioni con libelli, spesso di carattere polemico, sarebbero diventati d’altronde un singolare habitus dell’architetto.
Nell’ambito del pensionato, Valente, apprezzato per il talento, non fu però giudicato particolarmente assiduo nello studio dei monumenti romani, anche perché dal 1817, con la morte del padre e del fratello maggiore, dovette acquisire il ruolo di capofamiglia con a carico la madre, tre sorelle nubili e un fratello minore. Terminato nel 1820 il pensionato, non avendo ricevuto incarichi ufficiali in patria, restò a Roma, tentando un’affermazione che stentò a venire.
Nel 1821 venne contattato dai promotori dello Sferisterio di Macerata, fornendo una consulenza di grande efficacia, incisiva rispetto all’edificio poi effettivamente costruito, senza però ottenere il meritato riconoscimento del suo ruolo (Agli illustri signori di Macerata che si accingono a donare alla Patria e all’Italia un magnifico sferisterio, Roma 1821; Architettoniche considerazioni su di un progetto di sferisterio o edifizio per lo giuoco del pallone, Livorno 1837).
Non avendo conseguito a Roma la sperata affermazione, nel luglio del 1823 Valente fece ritorno a Napoli; qui, dopo qualche tempo sposò Petronilla Marzelli, da cui ebbe tre figlie, Ernesta (1826), Erminia (1827) e Clorinda, futura sposa dell’architetto Nicola Stassano. In patria, mentre per un verso riprese a eseguire su commissione rilievi delle nuove scoperte archeologiche pompeiane, tra cui le nuove Terme del Foro, tentò inutilmente il concorso per la cattedra di architettura all’istituto di belle arti, sostenendo la propria candidatura anche con la pubblicazione di un interessante libretto di considerazioni teoriche (Della instituzione degli architetti e del miglioramento dell’architettura, Napoli 1823). La contestata sconfitta (Al sig. d. Francesco Saponieri concorrente al posto di professore di architettura, Napoli 1823) non gli impedì di aprire un’accorsata scuola privata di architettura, sul modello degli atelier parigini, e di proseguirla fino al 1827. Nel 1828 elaborò un progetto di monumento per la Villa Reale di Napoli: nella relativa illustrazione a stampa (Descrizione di un monumento alla memoria di Flavio Gioia, di Torquato Tasso e di Giovan Battista Vico, Napoli 1828) annunciò l’imminente edizione di plurimi studi di carattere dottrinale, rimasti tuttavia inediti e oggi dispersi.
In parallelo avviò una significativa carriera professionale di progettista, inizialmente dedicata soprattutto alla committenza privata. Dette così prova non soltanto di quella capacità, che gli riconobbero i contemporanei, di uno stile purgato ed elegante nella linea del perdurante neoclassicismo, ma anche di un approccio rigorosamente razionale al tipo edilizio e alle variabili esigenze della committenza. Impegnato dal 1824 al 1829 come architetto del ricco uomo d’affari Francesco de Rosa, si occupò della ristrutturazione e dell’ampliamento di un vasto fabbricato, esteso a un’intera, ampia insula prospiciente la via Toledo a Napoli, coniugando le esigenze di eleganza e rappresentatività dei palazzi di una famiglia da poco assurta alla dignità nobiliare, con la necessità di ricavare la massima redditività con una strategica organizzazione distributiva degli appartamenti e delle botteghe. Analogo approccio segnò, sempre a Napoli, negli anni Trenta il palazzo Mautone (poi dei baroni Di Costanzo) per un ricco commerciante. Dal 1826 progettò villa Acton (poi Pignatelli) alla riviera di Chiaia, coniugando il modello della casa romana ad atrio con la tradizione abitativa della casa inglese, e assecondando le richieste del committente, sir Ferdinand Acton. Plasmando con una certa libertà inventiva il linguaggio degli ordini classici e le suggestioni pompeiane, Valente pervenne a un risultato di grande pregio, anche se, per dissapori con il committente, l’ultimazione decorativa degli interni fu affidata all’architetto Guglielmo Bechi.
In questa fase s’iscrissero altri incarichi di progettazione di dimore private, concretamente eseguite, sempre nella linea di un sobrio ed elegante classicismo e al contempo di un’intelligente e razionale interpretazione del programma edilizio e funzionale. A Napoli Valente realizzò tra il 1826 e il 1830 il casamento di fitto su via S. Maria in Portico e gli edifici residenziali alla riviera di Chiaia 124 e 127 per la stessa committenza Acton; nel 1828-29 il casino Amato a via Posillipo, costruito ex novo, e la ristrutturazione del palazzo Ferrandina a Chiaia, entrambi contrassegnati da un elegante portico dorico; inoltre, un non identificato palazzino Niccolò a Montesanto. Sempre per la committenza privata, ma su differenti temi, Valente lavorò per la famiglia de’ Medici di Ottajano, delineando il solenne apparato nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone per i funerali (26 marzo 1830) del primo ministro Luigi de’ Medici, e costruendo nel 1831 a Venafro un innovativo fabbricato per allevare i cavalli ‘al modo inglese’. Rimase su carta il progetto in più varianti (1834-35) di una chiesa di rito anglicano a Chiaia, per la comunità britannica di Napoli, programmaticamente segnato da un certo grado di ‘anonimato’ degli esterni. Altri impegni di questa fase interessarono la costiera amalfitana, da cui originava la famiglia paterna. Tra questi, il progetto di ampliamento della chiesa di S. Maria a Mare a Maiori (dal 1831), dotandola di un nuovo sistema di transetto e coro, nonché di un’elegante cupola a lacunari; della nuova collegiata di Minori (1831); del palazzo comunale di Maiori e della sistemazione del fronte a mare (1840).
Nel frattempo, una svolta importante nella carriera di Valente conseguì nel 1827 alla richiesta, ufficialmente rivoltagli dal locale Decurionato, di trasferirsi a Messina per tenervi scuola di architettura e, inoltre, di disegnare il nuovo, ambizioso teatro cittadino. Adducendo impegni per rimandare un cambio di residenza che nei fatti non avvenne mai, l’architetto accettò l’incarico di progettazione, che dette luogo già nello stesso anno a un coerente ed elegante progetto per un edificio simmetrico e monumentale nel pur angusto sito ‘della Munizione’. A valle di lunghe incertezze, e di ostacoli frapposti da esponenti del professionismo locale che presentarono progetti alternativi, la situazione si sbloccò definitivamente nel 1838-39 per decisione della Casa reale, che selezionò la proposta di Valente e individuò un nuovo e più arioso sito, prospiciente la strada Ferdinanda. Dal 1839, con la collaborazione imposta di Carlo Falconieri fino al 1845, e poi in autonomia, Valente sviluppò in termini più grandiosi il precedente progetto e seguì il cantiere fino all’inaugurazione nel 1852 di un teatro che già i contemporanei giudicarono particolarmente felice, tanto per coerenza stilistica quanto per ariosità, situandosi all’epoca come quinto teatro italiano.
Ai contatti maturati con questo prestigioso lavoro si collegarono dai primi anni Quaranta altri incarichi nel regno come progettista, rimasti però senza esito costruttivo: per un teatro e un palazzo comunale a Lecce nel 1843-44, auspice il reggente siciliano di quella regione, per il palazzo dell’Intendente a Reggio Calabria (1841), e a Messina per la nuova chiesa domenicana di S. Girolamo intorno al 1852; ebbe un seppur tardo esito concreto, invece, un altro progetto siciliano, per il prospetto della nuova chiesa di Giarre, dove Valente sviluppò il tema a lui caro della facciata a doppia torre.
Dal 1834 al 1841 ottenne un incarico temporaneo per l’insegnamento dell’architettura nell’università, cogliendo peraltro per due volte l’occasione per mettere a stampa le sue prolusioni, intese come raffinate premesse a una nuova teoria fondata più sulla razionalità che sulla consuetudine della tradizione (Dello stato presente delle teorie di architettura e della necessità di una instituzione teorica, Napoli 1835; Dell’essenza, e dignità, dell’architettura e de’ doveri di un architetto, Napoli 1836). Nei secondi anni Trenta, la stima del ministro dell’Interno Nicola Santangelo gli valse alcuni importanti incarichi pubblici. A Napoli gli fu affidato il progetto urbanistico per la zona di via Foria e largo delle Pigne, all’origine di polemiche con alcuni proprietari e con l’architetto Francesco De Cesare, le cui ipotesi alla fine prevalsero (Confutazione dell’architetto Pietro Valente ad un libello anonimo che ha per titolo: Memoria di ragioni de’ proprietarii..., Roma 1840; Risposta dell’architetto Pietro Valente ad un opuscolo che s’intitola: Degli edifici che potrebbero costruirsi..., Roma 1841). Al sostegno del ministro fecero capo importanti incarichi per la costruzione di nuovi campisanti nella regione di Terra di Lavoro, tra cui, nel 1837, quelli di Aversa e di Santa Maria Capua Vetere, entrambi risolti accentrando le funzioni necessarie in un unico edificio, contenente una chiesa a croce greca con cupola, situato all’ingresso del recinto cimiteriale; rimasero su carta i progetti per i campisanti di Isola del Liri e di Caserta. Più fortunato, invece, fu a Caserta, nella medesima fase, l’impegno nell’edilizia religiosa, con il completamento della cattedrale dal 1837, nello sforzo di attenuare l’eccessiva uniformità dell’impianto progettato da Pietro Bianchi, e con la costruzione della nuova chiesa di S. Antonio dei Liguorini, dal 1843. Nonostante che anche a Napoli cominciasse a prendere gradualmente piede la cultura sincretica dell’eclettismo, Valente restò legato all’ortodossia del linguaggio degli ordini classici.
Nel clima instabile del 1848, egli fece parte di un’importante commissione per la riforma delle istituzioni artistiche, i cui gravi rilievi comportarono la giubilazione dai ruoli apicali degli ormai anziani architetti di Casa reale Pietro Bianchi e Antonio Niccolini. Proprio Valente fu scelto dal re per assumere alcune delle cariche più delicate, tanto che di fatto in quest’ultimo periodo fu interamente assorbito dai ruoli istituzionali, senza più spazio per l’attività di libero professionista. Guidò una nuova fase dell’istituto di belle arti, dal 1849 come vicedirettore facente funzioni e dal 1850 come direttore, aggiungendo nel 1855 la carica di direttore della scuola di scenografia; ancora dal 1849 assunse la direzione del laboratorio delle pietre dure, inizialmente ad interim e dal 1855 come effettivo.
Rimasto già vedovo, sofferente di idropericardio, morì a Napoli nella sua casa di Materdei il 10 agosto 1859.
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