VERRI, Pietro
– Nacque a Milano il 12 dicembre 1728, primogenito di Gabriele, patrizio milanese e giurista, futuro senatore (1749) e reggente (v. la voce in questo Dizionario), e di Barbara Dati della Somaglia, esponente di una delle più prestigiose casate ambrosiane.
A Pietro fecero seguito sette femmine (di cui tre morirono in giovanissima età) e quattro maschi, dei quali tre gli sopravvissero: Alessandro (v. la voce in questo Dizionario), Carlo (v. la voce in questo Dizionario) e Giovanni (1745-1818).
L’infanzia di Verri fu contristata da un ambiente familiare arido e bigotto, privo di tenerezza. Il suo accidentato iter scolastico iniziò con un quinquennio di frequenza alle scuole tenute a Milano dai barnabiti, e si concluse tra il 1746 e il 1749 nel collegio gesuitico di S. Caterina a Parma, dove trovò finalmente un ambiente più congeniale grazie anche all’attrattiva delle nuove materie di studio, la filosofia e la fisica. Tanto più difficile fu il ritorno in famiglia, dove il padre non faceva nessun conto delle sue cognizioni e gli impartiva lezioni di diritto per avviarlo a una pubblica carriera. A tal fine procurò al figlio l’ufficio di protettore dei carcerati (1751-52) e nel 1753 lo portò con sé a Vienna per presentarlo a corte e fargli avere il titolo di ciambellano.
Duramente contrastata dai genitori fu la relazione intrecciata da Verri con la moglie del duca Gabrio II Serbelloni, Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, donna «di età matura e non bella, ma colta, educata in Roma, e amante della lettura», ricorderà Verri (Edizione nazionale, V, 2003, pp. 539 s.). Con lei collaborò a un’edizione italiana de Il teatro comico del signor Destouches (Milano 1754-1755) e ne scrisse la prefazione, in cui assegnò alla commedia un fine morale aderendo alla riforma teatrale di Carlo Goldoni. Più degli esercizi poetici, coltivati dal giovane Verri nell’ambito dell’Accademia dei Trasformati con risultati piuttosto mediocri, sono interessanti i suoi scritti in prosa dei tardi anni Cinquanta, che comprendono un abbozzo di romanzo autobiografico, l’Histoire du comte de Serville, e alcuni zibaldoni di pensieri pure in francese: l’uno e gli altri riflettono l’esperienza del rapporto con la Serbelloni e della sua brusca interruzione per volontà di lei. Ma alla sottile analisi della «métaphysique du coeur de l’homme» si aggiungeva in questi anni una vena satirica che rimarrà tipica di Verri; ne sono prova due almanacchi da lui pubblicati per gli anni 1758 e 1759, intitolati entrambi Gran Zoroastro, che fanno il verso al gusto popolare per le predizioni astrologiche e insieme mettono in ridicolo costumi e riti della buona società milanese, senza eccettuare la famiglia Verri.
Nel 1758 Verri, ormai trentenne, sempre più a disagio nei panni del «figlio di famiglia» e stanco di una vita oziosa e dissipata, decise di arruolarsi nell’esercito imperiale, impegnato nella guerra dei Sette anni contro la Prussia. Nominato capitano nel reggimento Clerici, chiese di partire volontario per il fronte. Fece sosta a Vienna, dove ottenne dal cancelliere Wenzel Anton, principe di Kaunitz una lettera di raccomandazione per il comandante in capo Philip Wirich Daun, che lo accolse nel suo quartier generale. Il servizio militare di Verri durò in tutto meno di sei mesi, dal 14 luglio 1759 al 3 gennaio 1760. Alle durezze e alle tristezze della vita militare trovò conforto nell’amicizia stretta con l’ufficiale gallese Henry Lloyd, poco più anziano di lui ma già in possesso di un ricco bagaglio di cognizioni e di esperienze internazionali, che lo indirizzò verso i grandi temi della politica e dell’economia.
Pietro aveva ormai d’altra parte maturato una decisa avversione per quel «mestiere da disperato» e per quel «rifiuto della società» che era l’esercito (Memorie sincere, in Edizione Nazionale, V, 2003, pp. 83 s.). Il 19 gennaio 1760 era di nuovo a Vienna, dove si tratterrà quasi tutto l’anno e farà la conoscenza del nuovo plenipotenziario austriaco a Milano, Carlo di Firmian. Nel frattempo, però, si diede a leggere gli scrittori di economia e finanza. Scrisse su questa base un breve saggio che, ulteriormente rielaborato, pubblicherà con il titolo Elementi del commercio nelle pagine del Caffè.
Nel gennaio del 1761 Verri era di ritorno a Milano, dove subito ripiombò nelle «noiosissime seccature domestiche» (ibid., p. 106). Dai primi di maggio prese a frequentare Firmian nella speranza di ottenere un incarico, e per mostrare le sue nuove competenze compose un saggio storico, Sul tributo del sale. Per tutta risposta Firmian diradò i suoi inviti. Senza perdersi d’animo, Verri si buttò a corpo morto in un’impresa ben più vasta, una storia complessiva dell’economia lombarda dal secolo XV alla metà del XVIII. La prima parte, consistente in un Saggio sulla grandezza e sulla decadenza del commercio di Milano, era terminata già a metà novembre di quell’anno. La seconda e la terza parte, riguardanti i problemi attuali e i mezzi per avviarli a soluzione, lo tennero impegnato fino all’aprile del 1763. Rimaste a lungo inedite, queste Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano si collocano tra le migliori opere storico-economiche del Settecento italiano per i pregi dello stile nitido e asciutto, l’ampiezza della documentazione, reperita anche negli archivi, la padronanza dei temi, il rigore logico con cui è argomentata la tesi di fondo, che attribuisce al malgoverno spagnolo e allo «spirito curiale» delle classi dirigenti locali la colpa della decadenza economica del Milanese.
Scavalcando Firmian, Verri spedì questa volta il manoscritto a Luigi Giusti, referendario del Dipartimento d’Italia creato a Vienna nel 1757 e aggregato alla cancelleria di Kaunitz. Intanto, però, dall’inverno 1761-62 aveva preso a riunirsi ogni sera nel suo appartamento «una scelta compagnia di giovani di talento» (ibid., p. 115), quasi tutti nobili, cui la maldicenza cittadina diede il nomignolo di Accademia dei Pugni. Ne facevano parte fin dall’inizio Cesare Beccaria e il fratello minore di Pietro, Alessandro, in cui il primogenito aveva trovato al ritorno da Vienna «una passionata voglia di studiare unita a un ingegno raro» e «un’anima piena di energia» (pp. 115, 109). Si unirono poi a costoro Luigi Lambertenghi, il cremonese Giambattista Biffi, il lecchese Alfonso Longo e altri. Al primo saggio di Beccaria, Del disordine e dei rimedi delle monete (1762), fecero seguito altre produzioni letterarie, tra le quali alcune operette satiriche di Verri, tutte del 1763: oltre a due nuovi almanacchi per l’anno 1764, ricordiamo almeno l’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese, sperticato elogio antifrastico messo in bocca a un giurista conservatore, e la Cronaca di Cola de li Piccirilli, rassegna burlesca degli spropositi commessi nell’anno 1763 dalle autorità di governo. Di tono serio sono altre scritture verriane, tra cui spiccano le Meditazioni sulla felicità, che delineano una morale laica dedotta dal barone di Montesquieu e da Claude-Adrien Helvétius e conducente alla felicità pubblica e privata. Qui ricorre forse per la prima volta la definizione, tratta da Francis Hutcheson, della felicità pubblica come «la maggior felicità possibile divisa colla maggior uguaglianza possibile», destinata a diventare una specie di slogan per Verri e soci dei Pugni.
Temi e linguaggio preannunciano ormai da vicino Il Caffè, la rivista del gruppo che cominciò a uscire con frequenza decadale nel giugno del 1764 e visse due anni. Il ruolo di Verri come animatore e editor del periodico è stato messo in luce da Gianni Francioni nell’edizione critica del 1993. Dallo Spectator di Joseph Addison e Richard Steele deriva l’idea di presentare gli articoli come resoconto dei discorsi tenuti dagli avventori di una bottega di caffè: una scelta assai indovinata in considerazione da un lato della crescente popolarità di simili luoghi di ritrovo, dall’altro della «virtù risvegliativa» attribuita alla bevanda. Tra i collaboratori è schiacciante la prevalenza di Pietro e Alessandro Verri. La varietà di temi e di toni e il comune impegno in una «guerra continua e incessante contro la stolidità» (lettera di Verri, in Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di E. Greppi et al., 1910-1942, IX, p. 58) fanno del Caffè per comune giudizio il frutto migliore del giornalismo italiano settecentesco.
Un ruolo analogo di suggeritore, revisore e censore fu assunto da Verri nei confronti del prodotto più celebre della ‘École de Milan’, Dei delitti e delle pene, pubblicato a Livorno nell’estate del 1764. Fu lui a correggere e in parte a riscrivere il tormentato autografo beccariano, a dividerlo in capitoli, a difendere l’opera contro gli attacchi frateschi nel 1765 e a organizzare l’anno seguente il viaggio a Parigi di Beccaria e del proprio fratello Alessandro. Ma lo scarso riguardo dimostrato dal primo per l’amor proprio dei due Verri e il suo precipitoso ritorno a Milano, nel dicembre del 1766, saranno causa di una brusca rottura e del definitivo scioglimento dell’Accademia dei Pugni.
Alla lontananza di Alessandro, trattenuto a Roma a partire dal 1767 dalla duratura relazione con una gentildonna, Pietro supplì avviando con lui una corrispondenza bisettimanale, proseguita fino alla propria morte (giugno 1797), con una sola lunga interruzione legata alla lite tra i fratelli per l’eredità (1784-89). Oltre a offrirci una testimonianza di eccezionale valore su Parigi e Londra, poi su Milano e Roma, e su tutto quanto accadeva di importante in Italia e in Europa, questo rapporto epistolare si tramutò in una profonda necessità psicologica per i due fratelli, «i quali per esso mantennero viva, o s’illusero di mantener viva, sia pur ridotta a loro soli, la società del Caffè, con lo spirito che l’animava, col calore di quel momento luminoso della loro vita» (La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini, Torino 1957, p. 131).
Aveva intanto preso avvio la carriera di pubblico funzionario di Verri. Le Considerazioni sul commercio erano piaciute al referendario Giusti e al cancelliere Kaunitz, che sentivano il bisogno di uomini nuovi per le riforme ritenute ormai mature nella Lombardia austriaca. Non stupisce quindi che Verri venisse compreso in una giunta creata nel gennaio del 1764 per studiare e proporre incisivi cambiamenti nel sistema delle finanze. Egli fu incaricato al suo interno di sovrintendere alla redazione di un bilancio ufficiale degli scambi con l’estero per l’anno 1762: vi lavorò a partire dal maggio del 1764 all’ottobre del 1765, alla testa di quattordici subalterni. La relazione finale fu consegnata a Firmian nell’ottobre del 1765, alla vigilia delle decisioni prese in novembre dal governo viennese. Accanto alla trasformazione della Ferma (o appalto) generale in una Ferma mista, con la partecipazione dello Stato, la maggiore novità fu l’erezione a Milano di un Supremo Consiglio di economia, composto in gran parte di forestieri esperti di economia e finanza, sotto la presidenza dell’istriano Gian Rinaldo Carli, che lo aveva progettato con l’aiuto di Verri. Quest’ultimo divenne rappresentante regio nella direzione della Ferma e insieme consigliere del Consiglio di economia.
Gli inizi furono difficili, per l’incompatibilità di interessi tra i due incarichi e per la crescente insofferenza di Verri verso le «maniere aspre, altere e pedantesche» di Carli. La soluzione trovata fu quella di disertare sempre più le sedute del corpo: Verri fu presente a 48 adunanze su 90 nel 1767, a 31 su 90 nel 1768, a 17 su 96 nel 1769. Più pacifica e ispirata a reciproco rispetto fu la convivenza con Antonio Greppi e Pietro Venini, i due condirettori della Ferma. L’obiettivo di Verri era già ben delineato in una lettera al fratello del 13 luglio 1766: «Il primo fine, cui tendo, è di essere di qui a sei anni capo della Ferma, consigliere di Stato con un buon soldo» (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., I, 2, p. 354).
Nei tardi anni Sessanta Verri profuse le sue migliori energie nella discussione del piano di una riforma dell’Annona, cioè del sistema di divieti e vincoli che regolavano il commercio dei cereali e di altre derrate, e nella redenzione delle regalie alienate, ossia nel riscatto da parte dello Stato delle entrate (in prevalenza imposte di consumo, dazi, pedaggi, licenze) cedute nel tempo a corpi o privati. Terminato nel luglio del 1767, il Saggio sull’annona dello Stato di Milano denunciava l’irrazionalità del sistema vigente e i guasti prodotti dallo «spirito de’ prammatici» (cioè dei giurisperiti) sempre inteso a moltiplicare regolamenti e divieti e a «comandare la prosperità a una nazione anziché dirigervela» (in Edizione nazionale, II, 2, 2007, p. 110); non pativa eccezioni per Verri la regola che «la sola libertà e concorrenza nel commercio de’ grani è la base soda e stabile per assicurare l’abbondanza pubblica nello Stato» (ibid., p. 122), giacché dalla certezza di poterli vendere sul mercato dipendono gli sforzi dei produttori per accrescere i raccolti, e dall’aumento dell’offerta il livellamento dei prezzi. Contro i diffusi pregiudizi in proposito Verri citò molti autori stranieri e italiani, fino a Victor de Riqueti marchese di Mirabeau e Antonio Genovesi, e l’esperienza dei Paesi più ricchi e progrediti d’Europa.
La prevedibile opposizione dei colleghi e del presidente del Supremo Consiglio portò il 5 febbraio 1768 all’adozione di un «partito medio», cioè la liberalizzazione del solo commercio interno. Il dibattito proseguì tra Milano e Vienna, dove Kaunitz era favorevole alle tesi liberiste. Ma intanto Verri veniva ampliando e affinando la propria cultura economica, in particolare con la lettura dei prodotti della scuola fisiocratica. Nell’estate del 1769 compose le Riflessioni sulle leggi vincolanti specialmente in materia dei grani, rimaste per allora inedite a causa delle riserve espresse da Joseph von Sperges (successore di Giusti nella direzione del Dipartimeno d’Italia a Vienna). Nell’ottobre del 1770 due settimane rubate alle vacanze autunnali gli bastarono per dettare la sua maggiore opera teorica, Meditazioni sull’economia politica, stampate a Livorno l’anno seguente.
In quaranta agili e densi capitoli, Verri chiarisce innanzi tutto i concetti fondamentali del bisogno come pungolo del progresso economico e civile, del commercio, del denaro come «merce universale», della ricchezza delle nazioni; sviluppa poi la teoria del prezzo come risultato del rapporto numerico tra venditori e compratori, analizza le conseguenze negative di una «viziosa distribuzione delle ricchezze» e riprende la critica dei calmieri, dei dazi mal congegnati, delle corporazioni, dei monopoli e di ogni genere di vincoli e costrizioni. Non sono omessi altri temi classici come l’interesse del denaro, la moneta, i cambi, la popolazione, l’agricoltura e i tributi (dove colpisce la consonanza con le tesi di Adam Smith). Gli ultimi due capitoli delineano il carattere ideale di un ministro delle Finanze e di un ministro dell’Economia. In Italia e all’estero è stato di recente rivalutato il contributo verriano allo sviluppo della scienza economica, nell’ottica di una ‘economia civile’ strettamente legata ai problemi politico-sociali.
Anche il ruolo giocato da Verri nel riscatto e nell’amministrazione delle regalie alienate si concentra nel periodo 1768-70. Gli anni 1770-71 furono poi contrassegnati nella Lombardia austriaca da una radicale ristrutturazione degli assetti di governo e in particolare degli organi finanziari. Il regio dispaccio del 6 luglio 1770 dispose lo scioglimento anticipato del contratto con i fermieri, e quindi l’avvio di una gestione diretta di tutti i dazi e le privative in precedenza appaltati, insieme all’istituzione di una Camera dei conti sul modello belga. Le discussioni decisive si svolsero nell’estate del 1771 a Vienna, presenti Firmian e molti funzionari di alto grado, tra cui Verri. Dopo un intervento semplificatore di Giuseppe II, il progetto presentato da Kaunitz a Maria Teresa il 7 agosto prevedeva la concentrazione in un solo dicastero dei compiti economici e finanziari; i tre nomi da lui proposti per la presidenza comprendevano quello di Verri, «tra i cavalieri milanesi il più istruito tanto nelle teorie che nella pratica delle finanze» (Haus-, Hof- und Staatsarchiv Wien, Alte Kabinettsakten, 32). Ma la sovrana decise la riconferma di Carli, e Verri rimase semplice consigliere. Di ritorno a Milano il 28 settembre, prese parte di mala voglia ai febbrili lavori per l’impianto della nuova amministrazione: «Era un gallo – scriveva sconsolato al fratello il 30 ottobre 1771 – mi hanno fatto diventare un cappone» (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., IV, p. 273). Guardava ora con un occhio molto più critico agli amici e protettori di un tempo, e prendeva le distanze dalle riforme in cui aveva sperato e creduto: «Il mio cuore e la sperienza mi hanno fatto mutare. La maggior parte delle novità realmente portano più desolazione, che bene» (lettera del 23 ottobre 1771, ibid., p. 266). Le successive nomine a vicepresidente del Magistrato (marzo 1772) e a consigliere di Stato (giugno 1773) valsero a lenire le sue ferite, ma non a ridargli l’entusiasmo di un tempo. Si disponeva ora a dedicare le proprie migliori energie agli studi filosofici e storici, per guadagnarsi un nome europeo.
A due anni esatti dalla prima stesura delle Meditazioni sull’economia politica, anche questa volta sfruttando le vacanze autunnali, Verri dettò al suo amanuense un’opera di tutt’altro genere, le Idee sull’indole del piacere, titolo poi modificato, nell’edizione del 1781, in Discorso sull’indole del piacere e del dolore. Anche questo manoscritto, come il precedente, fu sottoposto al giudizio di Alessandro, poi spedito a Livorno allo stampatore Giuseppe Aubert; i primi esemplari giunsero a Milano a metà agosto del 1773.
La questione se siano più i piaceri o i dolori nella vita era stata a lungo discussa nei decenni precedenti, tra gli altri da Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (Essai de philosophie morale, Paris 1749), che sosteneva il primato dei dolori. Rispetto a questi precedenti, la novità della visione verriana del piacere come «cessazione rapida del dolore» sta tutta nell’aggettivo, ma alla sua base vi è un’analisi sottile dei piaceri e dolori morali e poi dei piaceri e dolori fisici, dei quali fanno parte quei «vaghi e innominati dolori» che si identificano con l’uneasiness di John Locke. Questa, secondo Verri, è l’origine dei piaceri che si traggono dalla musica e dalle belle arti, cui sono più sensibili coloro che si sentono più infelici. Conseguenza della definizione data è che la somma dei dolori nella vita deve essere sempre superiore alla somma dei piaceri, giacché «il piacere per sua indole debb’esser breve [...] laddove il dolore può esser tanto lungo e durevole, quanto la vita che ci può togliere» (Edizione nazionale, III, 2004, p. 146)
Ma il riconoscimento del dolore come «il motore di tutto l’uman genere», cui siamo «debitori di tutto» (ibid., III, 2004, pp. 134 s.) non si risolve in mero pessimismo antropologico, bensì in uno sprone alla reazione e all’azione. Non sorprende che tra i lettori più attenti di questa operetta fossero, fra Sette e Ottocento, Immanuel Kant, Stendhal e Giacomo Leopardi.
I pieni e tardi anni Settanta coincisero con una svolta importante nella vita privata e familiare di Verri, che nel 1775 ruppe la quasi decennale relazione che lo legava alla sorella di Beccaria, Maddalena Isimbardi, e decise di sposare la nipote ventenne Maria Castiglioni, orfana di entrambi i genitori e da qualche anno accolta nella casa dei nonni materni. Le trattative con «i vecchi di casa» per la questione della dote e gli altri problemi economici e logistici furono lunghe e difficili, ma alla fine le nozze vennero celebrate il 21 febbraio 1776. Malgrado questi esordi, il matrimonio si rivelò un’unione felice. Verri mantenne il proponimento, contrario agli usi del tempo, di essere «l’amico e l’amante della moglie» (lettera del 6 settembre 1775, in Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., VII, p. 289), secondo il modello di famiglia rousseauiano ma con un di più di paternalismo (legato anche al divario di età) e di spirito pedagogico nei confronti della compagna. Al sincero affetto per la giovane moglie si aggiunse ben presto l’esperienza della paternità, ancora più intensa e coinvolgente. A Maria Teresa, nata il 2 marzo 1777, Verri volle dedicare un libro di Ricordi a mia figlia (nel senso rinascimentale di consigli, avvertimenti), stesi tra il 1777 e il 1781, il testo più interessante e toccante tra quanti concorsero a formare il Libro di Teresa Verri. Il pathos che ne emana è l’effetto di una contraddizione irrisolta tra una morale individuale e sociale conforme alla virtù, la morale del saggio predicata nelle Meditazioni sulla felicità.del 1763 e nelle pagine del Caffè, e la considerazione, maturata con le delusioni degli anni Settanta, che i rapporti tra gli uomini, e tanto più i comportamenti femminili, seguono regole diverse, che non si possono impunemente sfidare e alle quali conviene piegarsi per vivere (è questo l’auspicio finale di Verri per la figlia) «cautamente felice» (Edizione nazionale, V, 2003, p. 431). È e rimarrà estranea all’orizzonte mentale di Verri (come d’altronde di Jean-Jacques Rousseau) ogni idea di parità fra i sessi e di emancipazione femminile.
Sin dall’inverno 1776-77, tutto preso dai problemi legati al matrimonio e alla paternità, poi dalla sua vocazione di scrittore, Verri cominciò a trascurare i suoi doveri di funzionario e a diradare le sue presenze in ufficio. Nel 1780 maturò a Vienna la decisione di separare dal Magistrato Camerale il Dipartimento di finanza, da erigere in dicastero a sé stante, e di giubilare il presidente Carli sostituendolo con Verri. Morta Maria Teresa (23 novembre 1780) queste misure furono riconfermate dal figlio e successore Giuseppe II. Pur consapevole del significato del distacco da un settore cui aveva dedicato quindici anni di lavoro, Verri si mostrò soddisfatto della rivincita sul rivale Carli e di una promozione che gli prometteva «un decente, decoroso e comodo seggio, una vita regolare e placida, una borsa non vuota» (lettera del 25 novembre 1780, in Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, cit., XI, p. 193).
Il tempo libero Verri lo dedicava ormai agli studi, e particolarmente alla storia. Tra gli ultimi anni Settanta e i primi anni Ottanta egli compose le Osservazioni sulla tortura e lavorò intensamente alla preparazione per la stampa dei tre Discorsi e alla Storia di Milano. Le Osservazioni sulla tortura sono probabilmente la sua opera più letta e più spesso ristampata. Lo spunto per la ripresa in mano dei materiali già raccolti sul tema nei primi anni Sessanta gli fu offerto dalla soppressione della tortura negli Stati ereditari asburgici decretata da Maria Teresa il 2 gennaio 1776 e dal rifiuto del Senato milanese, sulla base di una consulta redatta dal padre di Pietro, di estendere la misura alla Lombardia austriaca (19 aprile 1776).
Secondo la ricostruzione di Giorgio Panizza (L’archivio Verri, 2000, pp. 150-155), le Osservazioni furono stese in due tempi: la descrizione (in base a un estratto del verbale) del processo istruito nel 1630 a carico di Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza, accusati di avere sparso la peste con unzioni venefiche, a più riprese torturati e infine sottoposti a un supplizio terribile e prolungato, fu contemporanea o immediatamente successiva al parere espresso dal Senato, mentre la parte teorica e dottrinale, una raccolta di citazioni e di argomentazioni a riprova della crudeltà, della fallacia e dell’inutilità della tortura come mezzo per scoprire la verità, fu di quasi un anno posteriore. A quasi duecentocinquanta anni dalla composizione e a oltre duecento dalla prima edizione (1804), le Osservazioni rimangono un libro sempre sconvolgente e sempre attuale nella denuncia degli orrori a cui l’ignoranza, la superstizione e il fanatismo possono condurre un intero popolo e i suoi magistrati. Diversa, come è noto, la posizione di Alessandro Manzoni, che nella Storia della colonna infame (sulla base della stessa fonte postillata da Verri) volle mettere in risalto la responsabilità individuale dei giudici più che quella della società nel suo complesso.
Dei tre testi rielaborati nel 1778 e raccolti nel 1781 in un volume a stampa (il primo fregiato dal nome dell’autore), i Discorsi Sull’indole del piacere e del dolore e Sull’economia politica non offrono aggiunte o variazioni di grande rilievo rispetto alle edizioni originarie (rispettivamente del 1773 e del 1771). Il testo più profondamente trasformato è il secondo, Sulla felicità, apparso diciotto anni prima come Meditazioni sulla felicità. Innanzi tutto la mole è quasi triplicata, e nuova è la divisione in capitoli. Ma sono diversi anche il linguaggio e l’ispirazione generale, che riflettono i mutamenti intervenuti nella visione verriana a partire dal 1771. Allo stile nervoso e apodittico dell’operetta giovanile subentrano un tono pacato e discorsivo, che mira a persuadere piuttosto che a stupire, e un’attenzione maggiore alle sfumature e alle sottigliezze psicologiche. Inoltre, «se nelle Meditazioni si trattava di trovare il modo per “accostarci allo stato di un essere felice”», nel Discorso si tratta piuttosto di «allontanarci dalla infelicità» (G. Francioni, in Pietro Verri e il suo tempo, 1999, I, p. 383).
La robusta fede nel progresso e nei lumi che animava le Meditazioni lascia qui il passo a un disincantato confronto tra le potenzialità della specie umana e le perduranti storture della legislazione. In questa situazione restano al saggio «la compassione degli errori della moltitudine» (Edizione nazionale, III, 2004, p. 153) e il culto dell’amicizia: a questi «movimenti del cuore» sono dedicate la pagine forse più belle e vibranti dell’opera (ibid., pp. 256-264).
Le vicende della composizione e della stampa della Storia di Milano vanno ben oltre il 1780, ma la sua genesi e la sua ispirazione sono saldamente radicate nei tardi anni Settanta. All’interesse giovanile per la storia della città, motivato dalla volontà di spiegarne la decadenza economica, si erano aggiunti in Verri una curiosità antiquaria ed erudita, nata dalla raccolta di monete antiche da qualche tempo intrapresa, e l’intento di convincere i concittadini della superiorità del tempo presente sui pregiudizi e i fanatismi che avevano reso possibile il processo agli untori. Il progetto, inizialmente limitato al XVII secolo, si allargò rapidamente, senza perdere la sua finalità pedagogica. Parecchio tempo richiese lo spoglio delle fonti, quasi tutte a stampa, e in particolare della monumentale opera di Giorgio Giulini (Memorie spettanti alla storia [...] della città e campagna di Milano nei secoli bassi, I-XII, Milano 1760-1774). Il primo volume della Storia verriana, che giungeva fino alla morte di Filippo Maria Visconti (1447), finito il 20 settembre 1780, qualche mese dopo fu trasmesso per la consueta revisione ad Alessandro. Ma in seguito la malattia e la morte della moglie di Verri, le seconde nozze con Vincenza Melzi (13 luglio 1782), infine la morte del padre (22 settembre 1782) ritardarono la pubblicazione fino all’estate del 1783. Deluso dallo scarso successo del primo volume, Verri stese svogliatamente ancora otto capitoli tra il 1783 e il 1784, poi abbandonò l’impresa, affidandone la prosecuzione al canonico Anton Francesco Frisi, che a sua volta condusse il racconto dal 1525 al 1565. Ma il secondo volume, stampato dopo la morte di Verri, risultò del tutto infedele allo spirito anticuriale originario, piuttosto affine a quello della Storia civile di Pietro Giannone.
Fondamentale resta per Verri la distinzione tra erudizione e storia, già teorizzata da Montesquieu e Voltaire, e la sua intenzione è quella di scrivere una storia filosofica. D’altra parte resta ben viva in lui l’idea che sia dovere dello storico distribuire ai suoi personaggi la lode e il biasimo ad ammaestramento dei lettori. In questo senso rimangono valide le critiche di Benedetto Croce e di Furio Diaz, il quale nota come al centro della scena siano le vicende personali dei Visconti e degli Sforza, nonostante le digressioni inserite nel racconto sulla popolazione, l’alimentazione, le monete, il costume, le arti, la moda, e come le ‘riflessioni’ verriane si riducano per lo più a una «meccanica contrapposizione fra la felicità e la ragionevolezza dei tempi presenti e la miseria e barbarie dei passati» (F. Diaz, Per una storia illuministica, Napoli 1973, p. 412).
Il nuovo sistema entrato in vigore il 1° gennaio 1781 vedeva il Magistrato camerale ridotto a otto consiglieri e limitato agli affari di censo, annona e commercio. Verri si compiaceva del buon ordine delle sedute e dell’armonia che regnava nel dicastero, ma non sembra aver fatto molto per combatterne le vecchie disfunzioni. Soprattutto dopo la successione a Firmian del nuovo plenipotenziario Johann Joseph Wilczek (1782), divennero più frequenti i moniti a «rendere più regolare, celere e utile l’attività del Regio Dicastero» (Archivio di Stato di Milano, Dispacci Reali, 272). Tuttavia, i colloqui che Verri ebbe con l’imperatore, in visita a Milano nel febbraio del 1784 e nel giugno-luglio del 1785, furono molto cordiali e rafforzarono l’ammirazione e la stima concepite per Giuseppe II fin dal 1769 e ora accresciute dalle sue radicali riforme in campo ecclesiastico. Nel 1782, in occasione del viaggio in Austria compiuto dal pontefice, Verri compose un Dialogo tra Pio VI e Giuseppe II in Vienna, in cui il pontefice si rivela consenziente con le riforme attuate o annunciate dal sovrano e anzi propenso addirittura a promuovere un’unificazione di tutte le confessioni cristiane (Opere, VI, 2010, pp. 444-453).
Assai più complessa di questo sogno a occhi aperti è un’altra scrittura privata di due anni posteriore, intitolata Pensieri politici sulla Corte di Roma e sul Governo Veneto. Dal contrasto tra la «decadenza rovinosa del papato» e l’eccezionale stabilità della Repubblica di Venezia, fondata sulla restrizione oligarchica del potere, il discorso si allarga alla corruzione generale degli italiani e al discredito che li circonda in Europa. In Italia, scrive Verri anticipando un celebre giudizio di Leopardi, non esiste vera società: «Ci raduniamo nelle conversazioni, e ciascuno v’interviene sommamente cauto, come frammezzo a nemici, temendo la interpretazione, la diceria, il ridicolo. Una compagnia di amici è una cosa non conosciuta» (ibid., p. 482). Ancora più sferzante è il giudizio sul costume familiare e sui metodi educativi, che si ricollega a una prima parte, poi divisa dal resto, i Pensieri miei pericolosi a dirsi di contenuto chiaramente autobiografico (ibid., V, 2003, pp. 487-497).
La crisi esistenziale attraversata da Verri in questi anni fu dovuta a vari fattori. All’incipiente sordità, che gli rendeva malagevole dirigere le sedute del Magistrato camerale, si aggiunsero la scomparsa della prima moglie, che lo lasciò per diversi mesi come istupidito, la tepida accoglienza riservata dal pubblico milanese alla Storia di Milano, la morte nel novembre del 1784 del più fedele dei suoi amici, lo scienziato Paolo Frisi, la perdita poco dopo il parto del sospirato erede maschio nel 1785. E, soprattutto, il decesso del padre Gabriele (22 settembre 1782), poi dello zio Antonio (6 gennaio 1784), aprì tra i quattro figli maschi una lunga e lacerante lite per l’eredità. Pietro avrebbe gradito conservare indiviso il patrimonio familiare, ma Carlo e Giovanni non vollero saperne. L’adesione di Alessandro al loro partito fu un colpo durissimo per il primogenito, che nel 1783 interruppe quasi del tutto la corrispondenza con Roma. Malgrado la designazione di un mediatore, una ventina furono le liti combattute in tribunale, quasi tutte vinte da Verri. Solo tra il 1787 e il 1789 si giunse alla divisione del patrimonio e alla risoluzione di tutte le pendenze.
Nel frattempo era finita traumaticamente anche la carriera pubblica di Verri. Giuseppe II, assai insoddisfatto della situazione che aveva trovato a Milano nel giugno-luglio del 1785, sottopose a Kaunitz un articolato complesso di riforme, di cui era parte la creazione, al posto del Magistrato camerale, di un Consiglio di governo presieduto dal plenipotenziario Wilczek e suddiviso in sei dipartimenti, ciascuno diretto da un consigliere. Nel nuovo organigramma non c’era posto per Verri, giacché una nomina a consigliere avrebbe significato una retrocessione di grado. Di lì a pochi mesi (maggio 1786) Verri fu giubilato e trattato secondo le norme recenti sul pensionamento: poiché non aveva compiuto venticinque anni di servizio, il suo stipendio venne ridotto a un terzo, cioè a poco più di 6666 lire.
Più ancora della contrazione delle entrate lo ferì la scarsa considerazione dimostratagli da quello stesso monarca che aveva tanto osannato. In pubblico Verri si mostrò poco sensibile al colpo, ma in privato osservava che «la virtù non è fatta per aver cariche se non sotto di un Governo che l’abbia per anima» (Opere, V, 2003, p. 556); e in una serie di memorie (spesso allo stato di frammenti) scritte tra il 1786 e il 1789, per rendere a se stesso e ai posteri ragione dell’accaduto, si lanciò in una rovente denuncia del dispotismo di Giuseppe e della bassezza e ipocrisia non solo dei suoi ministri (si vedano i velenosi ritratti di Beltrame Cristiani, Firmian, Kaunitz, Nicola Pecci, ibid., VI, 2010, pp. 291-304, 512-518), ma di tutta la società milanese, compresi gli ecclesiastici e i ceti professionali (si vedano, per esempio, Memoria del Conte Pietro Verri in cui si espongono i motivi per i quali venne impiegato e poi dopo vent’anni congedato, ibid., V, 2003, pp. 559-566; Ricordi disinteressati e sinceri, ibid., VI, 2010, pp. 488-506).
Da questo mare di mediocrità e di viltà emerge solitaria la sua figura eroica di uomo libero e integro, capace di battersi da solo contro la corruzione dilagante e perseguitato e sacrificato appunto per la sua superiorità sugli altri. È da notare che nessuno di questi scritti era destinato alla pubblicazione. L’unica opera che vide la luce tra la Storia di Milano e l’occupazione francese furono le Memorie appartenenti a [...] Paolo Frisi, pubblicate nel 1787: doveroso omaggio all’amico scomparso, ma anche esaltazione, con risvolti autobiografici, del contributo alla pubblica felicità degli intellettuali, che «hanno maggiore influenza sul destino delle generazioni future di quanto ne abbiano gli stessi monarchi sugli uomini viventi» (Opere, VI, 2010, pp. 218 s.).
Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta Verri condusse una vita ritirata, occupata dalla cura delle sue rendite fondiarie e dalla direzione di una famiglia sempre più numerosa (ma solo nel 1796 allietata dalla nascita di un erede maschio, Gabriele). Una breve visita a Milano di Alessandro nel 1789 non bastò a sanare la frattura tra i due fratelli, ma a poco a poco il dialogo epistolare riprese, fino a riassumere una cadenza bisettimanale e almeno parte dell’antico calore. In Verri il fuoco della passione politica covava sotto la cenere e fu riattizzato da due avvenimenti: l’avvio della Rivoluzione francese e la successione a Giuseppe II, morto il 20 febbraio 1790, dell’ex granduca di Toscana Leopoldo II. Nella situazione di crisi in cui si trovava la monarchia asburgica, le inclinazioni protoliberali del nuovo monarca si espressero principalmente in un cedimento ai privilegi e ai poteri della nobiltà feudale e dei patriziati. Questi ultimi furono invitati in Lombardia, con un dispaccio del 6 maggio 1790, a designare una ‘deputazione sociale’ con il compito di presentare al trono i voti della provincia. Verri, non eletto tra i deputati, avrebbe voluto sfruttare l’occasione per ottenere dal sovrano una costituzione che garantisse ai sudditi la libertà civile e la sicurezza delle proprietà. Tale programma venne da lui esposto quella stessa estate nei Pensieri [...] sullo stato politico del Milanese nel 1790, dove alla richiesta di una costituzione si aggiunse quella dell’elezione a suffragio censitario di «un corpo permanente interessato a custodirla» (Opere, VI, 2010, p. 408). A questa battaglia ne seguì nel 1792-93 un’altra, questa volta vittoriosa, condotta da Verri insieme al cognato Francesco Melzi d’Eril per la libertà di parola in seno al Consiglio decurionale. È giusto vedere in tali aspirazioni un preannuncio del liberalismo moderato ottocentesco e un distacco definitivo dal modulo dell’assolutismo illuminato, ma si sbaglierebbe a considerarle come un’espressione completa delle idee politiche dell’ultimo Verri. Questa si trova in altri testi, a partire dai due composti nell’estate del 1789 (Dialogue des morts: le roi Frederic et Voltaire e Alcuni pensieri sulla rivoluzione accaduta in Francia), che rivelano una totale accettazione non solo dei principi di libertà e uguaglianza, ma anche della via insurrezionale percorsa per affermarli. Verri è uno dei rari riformatori italiani che tenne sempre ferma l’adesione alla marcia della Rivoluzione francese, anche di fronte al regicidio e al sangue sparso nel 1793-94.
Lo conferma il carteggio con il fratello, le cui opinioni conservatrici e reazionarie sono costantemente respinte e confutate da Pietro. Egli ripete il 17 ottobre 1792 che «nessun gran cambiamento è mai accaduto senza una scossa grande e molti disordini», e ancora dopo Termidoro ribadisce con forza il carattere popolare e progressivo della Rivoluzione, addirittura fornendo una giustificazione ex post del Comitato di salute pubblica: «La rivoluzione di Francia nasce da uno spontaneo movimento della grande pluralità del popolo, non mai dalla minorità d’alcuni che conducano la pluralità. Questa pluralità conosce che nel tempo de’ pericoli forza è che il potere stia nelle mani di pochi per l’uniformità, prestezza e secreto, e che siavi un governo Dittatoriale, e l’ha fondato; ma precipita chi ne abusa, e sempre il popolo veglia» (lettera del 23 agosto 1794, in Opere, VIII, 2, 2008, p. 824).
All’autunno del 1791 risale un’operetta in forma di catechismo, divisa in quattro dialoghi, il cui titolo completo è Primi elementi per somministrare al popolo delle nozioni tendenti alla pubblica felicità. Rimasto inedito fino al 1994, benché l’autore lo dica «scritto per gettare i semi di una conversione» nel popolo italiano (ibid., VI, 2010, p. 629), questo testo è innervato da alcune idee di fondo: in primo luogo l’uguaglianza di tutti i cittadini (maschi), che non ammette privilegi di nascita e di ceto, ma esclude del pari ogni livellamento delle fortune; la distinzione tra libertà civile, possibile anche sotto un governo dispotico, e libertà politica, che «non si può godere se non sotto di una constituzione» (ibid., p. 642); infine il concetto di sovranità popolare: necessario non è che vi sia un re, ma «che vi sia un Governo, una Constituzione, e la nazione radunata sempre», tramite i deputati «scelti ne’ distretti a liberi voti degli abitanti» (ibid., p. 646). Un altro leitmotiv è il dovere dei letterati di illuminare il popolo sui suoi diritti e sui suoi veri interessi: soprattutto se è un popolo corrotto e servile come l’italiano.
Certo il quadro della vita milanese nei primi anni Novanta, caratterizzato dalla caccia ai giacobini scatenata dall’arciduca Ferdinando e dalle manifestazioni popolari di superstizione e fanatismo religioso, non lasciava molto a sperare in questo senso. Ma ad aprire nuovi orizzonti provvide ben presto la controffensiva della Grande Nazione, nel clima più moderato del Direttorio. Dopo l’occupazione di Milano (14 maggio 1796), Verri accettò la nomina a membro della Municipalità rivoluzionaria eretta da Napoleone Bonaparte, e come membro del Comitato di finanza dovette assistere alle continue esazioni ed estorsioni degli agenti militari e civili. Un altro motivo di preoccupazione era la Società popolare subito formata, i cui membri predicavano la guerra ai ricchi e altre misure di rigore. In settembre Verri ottenne un congedo per motivi di salute e si rifugiò con la famiglia a Ornago, dove scrisse la Storia dell’invasione dei Francesi repubblicani nel Milanese. Tornato a Milano il 3 dicembre, collaborò a un noto periodico milanese, il Termometro politico della Lombardia. Si riavvicinò al nuovo ordine in seguito alla svolta moderata impressa da Bonaparte alla vita politica lombarda nei primi mesi del 1797, quando fu nominato presidente di un effimero Consiglio dei Quaranta.
Di ritorno a Milano dopo i preliminari di pace di Leoben, Bonaparte decise la creazione della Repubblica Cisalpina, con una costituzione simile a quella francese del 1795. Il 6 maggio Pietro ne informò il fratello Alessandro, esprimendo il proprio consenso al nuovo corso e vaticinando che «fra pochi anni, l’Italia sarà una famiglia sola probabilmente» (Opere, VIII, 2, 2008, p. 1325). Il 25 maggio fu invitato a pranzo dal generale vittorioso, che intendeva forse offrirgli una carica di rilievo nella Cisalpina. Ma Verri morì improvvisamente durante una seduta serale della Municipalità, il 28 giugno 1797. Quel giorno stesso uscì sul Termometro politico una sua Lettera del filosofo N.N. al Monarca N.N., in cui auspicava una transizione pacifica verso il nuovo ordine repubblicano ed esprimeva fra le altre l’opinione che «Il vivere è noioso o si viva co’ superiori, ovvero cogli inferiori. La uguaglianza è la sola che ammetta società, gioia, cordialità» (ibid., VI, 2010, p. 845).
Opere. Si rinuncia qui a elencare gli scritti di Verri, che superano il numero di centosettantacinque contando i singoli articoli pubblicati nel Caffè e nell’Estratto della letteratura europea. Per Il Caffè si rinvia a “Il Caffè”, 1764-1766, a cura di G. Francioni - S. Romagnoli, Torino 1993; i contributi di Verri all’Estratto sono raccolti in Del fulmine e delle leggi. Scritti giornalistici 1766-1768, a cura di G. Gaspari, Milano 1994. Tutti gli altri scritti sono compresi nei primi sei volumi dell’edizione nazionale delle Opere, Roma 2003-2014. Il contenuto dell’edizione nazionale è il seguente: I, Scritti letterari, filosofici e satirici, a cura di G. Francioni, con la collaborazione di E. Chiari et al., 2014; II, Scritti di economia, finanza e amministrazione, tt. 1-2, a cura di G. Bognetti et al., 2003 e 2007; III, I “Discorsi” e altri scritti degli anni Settanta, a cura di G. Panizza, con la collaborazione di S. Contarini - G. Francioni - S. Rosini, 2005; IV, Storia di Milano, a cura di R. Pasta, 2009; V, Scritti di argomento familiare e autobiografico, a cura di G. Barbarisi, 2003; VI, Scritti politici della maturità, a cura di C. Capra, 2010. I volumi VII e VIII, curati rispettivamente da G. di Renzo Villata (2012) e S. Rosini (in due tomi, 2008) contengono il Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1782 al 1797, a completamento della vecchia edizione promossa dalla Società storica lombarda (Carteggio di Pietro e Alessandro Verri dal 1766 al 1797, I-XII, 13 tomi, a cura di E. Greppi et al., Milano 1910-1942, che si arresta in realtà al settembre del 1782). Un’altra eccellente edizione parziale è Viaggio a Parigi e a Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di G. Gaspari, Milano 1980.
Delle altre corrispondenze, di particolare interesse sono quelle con il padre e lo zio, con C. Beccaria, G.B. Biffi, G.R. Carli, I. Corte, C. di Firmian, P. Frisi, A. Greppi, J.J. Sperges, delle quali esistono edizioni più o meno affidabili e complete. Molti degli scritti di Verri, in gran parte lasciati da lui inediti, sono stati pubblicati nei secoli XIX e XX in edizioni singole o in raccolte parziali, per le quali si rimanda a L. Negri, Saggio bibliografico su Pietro Verri, LII (1926), pp. 136-151, 499-521, e soprattutto alle indicazioni contenute in Pietro Verri e il suo tempo, a cura di C. Capra, Milano 1999; in C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002, e nei vari volumi dell’edizione nazionale.
Un’edizione in due volumi delle consulte stese da Verri nella sua veste di funzionario è in preparazione presso la Fondazione Raffaele Mattioli.
Fonti e Bibl.: Sull’Archivio Verri, di proprietà della Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico, e in particolare sulla Raccolta verriana messa insieme dallo stesso Verri, che si costituì archivista di se stesso, sono fondamentali i due volumi a cura di G. Panizza - B. Costa, L’Archivio Verri, Milano 1997, e L’Archivio Verri, Parte seconda: la «Raccolta verriana», Milano 2000. Non fa parte di questo archivio il Libro di Teresa Verri, detto anche Manoscritto per Teresa, in cui Verri riunì i suoi scritti riguardanti il matrimonio con Maria Castiglioni e la nascita ed educazione della figlia Maria Teresa; questa, che l’ebbe in eredità, lo trasmise alla propria discendenza: oggi ne è proprietaria la marchesa Alessandra Sommi Picenardi (cfr. ‘Manoscritto’ per Teresa, a cura di G. Barbarisi, Milano 1983). Molta altra documentazione sulla famiglia, la vita e la carriera di Verri, comprendente copie e anche autografi dei suoi scritti, è sparsa nelle biblioteche e negli archivi di Milano, Vienna e di altre località.
Qui si darà conto solo delle pubblicazioni più recenti. P. V. e il suo tempo. Atti del Convegno, a cura di C. Capra, Milano 1999 (contributi di B. Anglani, G. Barbarisi, G. Bognetti, C. Capra, G. Cartago, M.A. Cattaneo, A. Cavanna, B. Costa, A. Cova, G. di Renzo Villata, G. Francioni, G. Gaspari, P. Giordanetti, G. Gregorini, P. Groenewegen, S. Hotta, G. Imbruglia, G.P. Massetto, F. Mazzocca, A. Moioli, A. Morandotti, G. Panizza, D. Parisi, P.L. Porta, N. Recupero, G. Ricuperati, R. Scazzieri, R. Turchi); B. Anglani, Il romanzo epistolare dei fratelli Verri, in Metamorfosi dei Lumi. Esperienze dell’io e creazione letteraria fra Sette e Ottocento, a cura di S. Carpentari Messina, Alessandria 2000, pp. 15-35; C. Capra, Il gruppo del Caffè e le riforme, in Cesare Beccaria e la pratica dei Lumi, a cura di V. Ferrone - G. Francioni, Firenze 2000, pp. 63-78; Id., P. V. e il «genio della lettura», in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, a cura di L. Antonielli - C. Capra - M. Infelise, Milano 2000, pp. 619-677; G. di Renzo Villata, V., Martini e il “Regolamento giudiziario”. Riflessioni sparse in tema di ‘conservare’ e ‘distruggere’, in Studi di storia del diritto, III, Milano 2001, pp. 641-678; C. Capra, I progressi della ragione. Vita di P. V., Bologna 2002; Id., L’opinione regina del mondo. Percorsi dell’evoluzione politica e intellettuale di P. V., in Letteratura italiana e cultura europea tra illuminismo e romanticismo, a cura di G. Santato, Ginevra 2003; Die Zeitschrift “il Caffè”. Vernunftprinzip und Stimmenvielfalt in der Italienischen Aufklärung, a cura di H.C. Jacobs et al., Frankfurt am Main 2003; G. di Renzo Villata, Un buon giudice, un buon giurista, un buon legislatore. P. V., Spannocchi e il “Sistema giudiziario”, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, a cura di A. Padoa Schioppa et al., Milano 2003, pp. 831-923; B. Anglani, «Il dissotto delle carte». Sociabilità, sentimenti e politica tra i Verri e Beccaria, Milano 2004; B. Costa, “Disciplina ragionata” e “libertà indefinita” nei rapporti tra Gian Rinaldo Carli e P. V., in Gianrinaldo Carli nella cultura europea del suo tempo, a cura di A. Trampus, Trieste 2004, pp. 15-36; R. Pasta, Ritratto di un “magistrato filosofo”: la “Vita di P. V.” di Carlo Capra, in Rivista storica italiana, CXVI (2004), pp. 144-160; M. Isabella, Riformismo settecentesco e Risorgimento: l’opera di P. V. e il pensiero economico italiano nella prima metà dell’800, in Il pensiero economico italiano, XIII (2005), pp. 31-50; F. Mecatti, Aforisti italiani del Settecento. Pensieri al crocevia della modernità, Firenze 2005; W. Rother, “La maggiore felicità possibile”. Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord- und Mittelitalien, Basel 2005; G. Imbruglia, Illuminismo e religione. 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