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VERRI, Pietro

di Ettore Rota - Enciclopedia Italiana (1937)
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VERRI, Pietro

Ettore Rota

Economista e letterato, fratello del precedente. Nacque il 12 dicembre 1728 a Milano; ivi morì il 28 giugno 1797. Iniziò gli studî a 9 anni, nel collegio dei gesuiti di Monza; poi passò alle scuole pubbliche di S. Alessandro, in Milano, tenute dai barnabiti, dove strinse con Paolo Frisi un'amicizia non mai interrotta di poi; dal 26 marzo 1744 proseguì gli studî nel Collegio Nazzareno di Roma per 18 mesi, che furono, nel ricordo suo, i più terribili della sua vita. Nel 1747 ultimò gli studî filosofici nel collegio dei Nobili di Parma diretto dai gesuiti. A 20 anni rientrò nella casa paterna in cui ebbero inizio i malumori col padre, conte Gabriele, rappresentante dell'antico regime e alto funzionario del governo austriaco. Nel 1750 fu ammesso nell'Accademia dei Trasformati di Milano; l'anno dopo esordì con la Borlanda impasticciata, satira contro i pregiudizi del tempo. Nel 1753, dopo un breve soggiorno a Vienna con il padre, riprese a Milano la sua attività, ostile pubblicamente ai costumi del patriziato e del clero, abilmente derisi in due almanacchi, il Gran Zoroastro e il Mal di Milza (1753). Nel maggio 1759 entrò nell'Armata austriaca; capitano del reggimento Clerici, partecipò alla guerra dei Sette anni e si trovò alla battaglia di Sorau in Sassonia; cercava nell'esercito "unione di eroi che avvampano per la gloria": vi trovò freddezza e indolenza. Ne partì sdegnato, dopo 8 mesi, nel gennaio 1760, e chiamò la milizia d'allora un "mestiere da disperato". Giunto in patria, studiò la struttura economica dello stato lombardo, criticò il sistema tributario e la monetazione. Portando nella società una visione unitaria, non disgiungeva l'economico dal morale; e mentre indagava le cause della grandezza e decadenza del commercio di Milano in un saggio con questo titolo, compiuto il 2 maggio 1763, nello stesso tempo pubblicava le Meditazioni sulla felicità (Livorno 1763); nel secolo sacro all'edonismo poneva nella virtù operosa e intellettiva la base del benessere individuale; e nel massimo fervore dell'esosità finanziaria degli appaltatori di imposte, il V. si dichiarò nemico ad essi, invitando il sovrano a riserbare "per sé i grossi guadagni dei Fermieri". Ascoltato da Vienna, fu creato, con diploma 4 gennaio 1764, consigliere di una giunta per la compilazione di un nuovo contratto di appalto delle imposte. La ferma generale scadeva alla fine del 1765: il V. forzò la mano al governo, pubblicando un bilancio tendenzioso che esagerava le cifre delle passività (10 milioni annui). Il Kaunitz se n'ebbe a male: però il V. ottenne l'istituzione di una ferma mista che riserbava un terzo degli utili alla camera regia con la presenza di un rappresentante di questa ultima per conoscere la cifra esatta delle rendite pubbliche e i guadagni degli speculatori privati: fu il primo passo verso l'abolizione del sistema, ottenuta dal V. nel 1770 con la sostituzione di un'amministrazione diretta, svolgentesi nell'orbita del governo. Divenuto, con il fratello Alessandro, il centro d'attrazione di un'accolta di tutti i giovani novatori (Beccaria, Frisi, Carli, ecc.), la "Società dei Pugni", colonia milanese dell'enciclopedismo d'oltralpe, il V. ne creò l'organo ufficiale, il Caffè, di cui rimase amministratore e redattore principale, per i brevi anni di vita del giornale, dal giugno 1764 al maggio 1766. La partenza di Alessandro per Parigi, determinò, insieme con la fine del Caffè, quel carteggio tra i due fratelli che è il più vibrante documento di vita italiana osservata da Milano e da Roma. Il ventennio che corre dal 1766 al 1786 è dedicato al disimpegno di uffici pubblici; nel '69 il V. è delegato a liquidare le regalie da redimersi; nel '72 è vicepresidente del supremo consiglio d'economia; nel 1780 è eletto presidente del Consiglio camerale; nell'83 consigliere intimo di stato; nell'86, avendo Giuseppe II soppresso il Consiglio camerale, ritornò a vita privata; ma rientrò nell'arringo con l'avvento di Leopoldo II, che ristabilì l'assemblea decurionale (1790), abolita da Giuseppe II; il V. fu chiamato a farne parte, ma vi attese senza fervore e con negligenza, non approvando il suo funzionamento per voto tacito, senza discussione. Sorta nel '96 la municipalità repubblicana, il V. si trovò collega del Parini, e rimase in carica fino alla morte, colpito da apoplessia mentre si svolgeva un'adunanza serale.

Gli scritti del V. in questo operoso periodo di vita pubblica, hanno lo scopo di porre un fondamento scientifico alle riforme che egli andava compiendo come magistrato. Il problema economico occupa tutto il suo pensiero e stimola il suo "civismo". Per esso prepara una riforma amministrativa e finanziaria, per esso combatte gli abusi fiscali, l'iniquità tributaria, le barriere doganali, il disordine monetario, i metodi antiquati della procedura penale, il feudalesimo ecclesiastico e la dittatura romana. Il V. confida nelle disposizioni riformatrici di Vienna. Egli afferma necessaria l'unità di direzione e di sforzi, sogna un dispotismo che duri quanto basti ad aver messo in moto regolarmente un provvido sistema. Pur atteggiandosi a uomo europeo e quasi cittadino del mondo, evita le astrazioni razionaliste e le esagerazioni del filosofismo francese che aspira a dettare principî per tutta l'umanità, ma esamina invece le condizioni reali di una data società politica e tiene conto della sua autonomia interna e dei fatti diversi che la possono tutelare. Il Milanese era stato per varî secoli il mercato provveditore di molta parte d'Europa. La decadenza commerciale, che si era ripercossa sull'agricoltura e sull'industria, aveva gettato la ricca provincia alla mercé delle nuove forze economiche straniere. Il V. si preoccupa di rendere attiva la bilancia commerciale, di ridare alla Lombardia l'indipendenza economica, di mettere lo stato in grado di bastare a sé stesso, aumentando i redditi della nazione.

Questo programma è tutto legato alla lotta per la libertà economica, per gli svincoli annonarî, per la rottura di tutti i regolamenti restrittivi. Soprattutto lo interessava il commercio dei grani, preso a modello sperimentale per la sua teoria della libertà economica. Le Riflessioni sulle leggi vincolanti (1769) contengono già la somma dei suoi principî fondamentali, e sono giudicate il suo capolavoro per rigore e chiarezza di ragionamento. Tali principî sono estesi a tutte le arti industriali (di cui egli vuole il libero esercizio) nelle Memorie storiche sull'Economia pubblica dello stato di Milano. Il V. tende a promuovere l'industria manifatturiera, come quella rurale, per creare le condizioni di una maggiore abbondanza così nei prodotti messi in vendita, come nel numero dei venditori e su questa duplice abbondanza egli fonda la sua teoria del prezzo: il quale si abbassa quanto più si elevano gli altri due fattori. La copiosità dei mezzi di sussistenza determina aumento di popolazione, che è la misura della bontà di un regime. Queste idee sono svolte sistematicamente e come regole pratiche di governo, nelle Meditazioni sull'economia politica, e precorrono Adamo Smith nella scoperta delle leggi che presiedono alla produzione e al consumo delle ricchezze. Frattanto il V. elaborava un Progetto d'una tariffa della mercanzia per lo stato di Milano, il cui proposito era di togliere "lo scisma fra le varie provincie" nell'organizzazione daziaria e di introdurre "semplicità e unità di sistema", affinché "diventi lo stato una sola società": ideali economici indirizzati verso una aspirazione anche politica. A questo filosofo dell'economia, che indagava i mezzi legislativi per riparare ai malanni della società, non sfuggiva la funzione del dolore nel mondo: e lo esaltava come la causa prima di tutte le belle arti e del sublime eroico, e "la massima spinta ad agire", nello scritto Sull'indole del piacere e del dolore, tema già trattato nel discorso giovanile Sulla felicità. Ma veniva incontro al dolore col senno del magistrato, combattendo, nelle Osservazioni sulla tortura (1777), questo inumano sistema, che Giuseppe II aboliva nel settembre 1789. Sventure domestiche, la perdita (1781) della moglie Maria Castiglioni (sposata nel '76) e seguita a breve distanza da quella del figlio (1779), lo portavano a raccogliersi tutto negli studî privati nella villa di Biassono: così attese alla sua opera più grandiosa nel campo della critica erudita, la Storia di Milano; il 1° vol. fu pubblicato nel 1783: il 2°, continuato dal Custodi, nel 1799; opera che ha sentore di vita nazionale, e che ricerca nella storia italiana "la passione delle anime grandi". Gli eventi di Francia e l'evoluzione dell'illuminismo spingevano il V. nel solco della corrente rivoluzionaria. Egli che aveva combattuto "l'ostinazione per le pratiche antiche" e, perciò, aveva confidato nel riformismo di Vienna, era condotto a deplorare, prima, l'eccesso opposto, e "la persuasione, che niente sia mai stato fatto di bene", poi, la ventata reazionaria che sradicava i teneri arbusti del periodo illuminista. Il V. capeggiò il nucleo dei costituzionali, e quando Leopoldo II (6 maggio 1790) convocò un'assemblea dei delegati di tutte le provincie per conoscere i bisogni del Milanese, chiese che questo avesse la sua Magna Carta. Fu poi con i democratici, ma negli ultimi scritti (Storia dell'invasione dei Francesi) ne biasimò l'intemperanza e l'inconsistenza ideologica. Vide il problema italiano, allora, come problema di educazione del popolo e lesse nel futuro il compimento dell'unità nazionale: "Fra pochi anni, l'Italia sarà una famiglia sola". Prese una decisa posizione accanto a Francesco Melzi (di cui aveva sposato la sorella Vincenza nel 1782), contro i demagoghi, gli estremisti, gli anticlericali: e in questo senso, per conciliare la libertà con l'autorità, le nuove opinioni con il rispetto alla fede, collaborò nel Termometro politico (1796).

Il V. fu un pensatore indipendente: dei mercantilisti respinge l'identità denaro-ricchezza; dei fisiocratici il valore assoluto concesso all'agricoltura come unica industria produttiva, e il principio dell'imposta esclusivamente sui terreni; invoca il regno della libertà contro il vincolismo, ma rimane fedele al principio di nazionalità, per il quale cinge il ducato milanese di una rete protezionistica.

Le più importanti riforme in Lombardia, salvo il censimento, furono promosse ed eseguite da lui, fra contrasti violenti di opinioni, d'interessi privati e di resistenze ufficiali.

Bibl.: I. Bianchi, Elogio storico di P. V., Cremona 1803; Custodi, Notizie di P. V., in Economisti ital., XV; G. Boglietti, Un uomo di stato milanse, ecc., in Rassegna nazionale, 1891; E. Bouvy, Le comte P. V., ses idées et son temps, Parigi 1889; A. Ottolini, P. V. e i suoi tempi, Palermo 1921; C. Morandi, Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, Torino 1927; A. Mauri, P. V. riformatore, Milano 1931; M. R. Marafra, P. V. e i problemi economici del tempo suo, Milano-Roma 1932; N. Quilici, Otto saggi, Ferrara 1934; F. Valsecchi, L'assolutismo illuminato in Austria e in Lombardia, II, 1934; C. A. Vianello, Pagine di vita settecentesca, Milano 1935; id., Il Settecento milanese, ivi 1937; N. Valeri, P. V., ivi 1937.

Vedi anche
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Vocabolario
vèrro¹
verro1 vèrro1 (ant. vèrre) s. m. [lat. vĕrres]. – Il maschio della specie suina adibito alla riproduzione, cioè il maiale maschio non castrato.
vèrro²
verro2 vèrro2 s. m. [per traslato dalla voce prec.]. – In botanica, nome region. del fungo Boletus satanas (più noto come porcino malefico).
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