Pietro Verri
Pochi uomini hanno legato il proprio nome a una città e a un’epoca come Pietro Verri, la cui parabola esistenziale e intellettuale si consuma all’interno della settecentesca Milano dei lumi. Anima inquieta e al tempo stesso razionalmente critica, Verri incarna lo spirito di un’età che, come lui, fu contraddittoria e percorsa da fremiti diversi, in costante equilibrio fra difesa della tradizione e spinte riformiste. Fu personalità complessa e dai molteplici interessi: dal diritto alla filosofia, dalla politica economica a quella finanziaria. Imbevuto di cultura illuministica francese, aderì per lungo tempo ai programmi asburgici, coniugando il duplice volto di un Illuminismo lombardo che come su tratto originale ebbe quello di essere ora a servizio del potere ora in opposizione a esso.
Verri nasce a Milano il 12 dicembre 1728 da nobile famiglia. Un’infanzia infelice, caratterizzata dal difficile rapporto con i genitori, e in particolare con il padre Gabriele, ne segnerà profondamente l’esistenza. Solo con il fratello Alessandro instaurerà un legame affettivo, destinato tuttavia a incrinarsi quando, alla morte del padre, i due saranno divisi da violenti litigi per questioni ereditarie.
Dopo aver frequentato diversi istituti religiosi, approda al gesuitico Collegio de' nobili a Parma, mostrando sempre scarso interesse per gli studi, in particolare per le scienze giuridiche, di cui il padre, nel 1749, fresco di nomina senatoria, gli impartisce personalmente a viva forza delle lezioni, con esiti infausti: Pietro, a differenza di molti coetanei, non si addottorerà mai in legge.
Nel 1751-52 riveste l’ufficio di Protettore dei carcerati, organo preposto alla difesa dei diritti dei detenuti, un’esperienza condivisa successivamente anche da Alessandro e da cui nascerà l’ispirazione di Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria.
Dopo una giovinezza trascorsa tra ozi letterari (l’ingresso nell’Accademia dei Trasformati non placherà la sua sete di conoscenza) e amorosi (una relazione con Vittoria Ottoboni coniugata Serbelloni gli varrà la richiesta di imprigionamento da parte del padre), nel 1759 parte per la guerra dei Sette anni, ma, insofferente dell’ambiente militare, si trasferisce poco dopo a Vienna, dove partecipa alla vita di corte. Sono gli anni della scoperta della temperie illuminista, della maturazione intellettuale verso i temi della politica, dell’economia e della giustizia, grazie anche a incontri decisivi, come quello con Henry Lloyd, un militare gallese anticonvenzionale dalla vasta cultura.
Tornato a Milano nel 1761, fonda l’Accademia dei Pugni e il periodico «Il Caffè», di breve durata ma dagli intensi effetti. Nel 1765, astro emergente della politica milanese, siede sia nel Supremo consiglio di economia sia in una giunta destinata a riformare la Ferma generale (il sistema di appalti per la riscossione delle imposte), e avanza proposte di riforma in tema di liberalizzazione di commercio, regalie e dazio. L’impegno profuso non trova tuttavia il riconoscimento sperato: nel 1771, abolito il Consiglio di economia, Verri vede frustrata l’ambizione di divenire presidente del nuovo Magistrato camerale, di cui entra a far parte inizialmente come semplice consigliere. La delusione provoca un senso di estraniamento dalla politica e di indifferenza verso gli impegni pubblici, cui fa da contraltare una fitta produzione pubblicistica.
Nel 1776 sposa la nipote Maria Castiglioni, che gli donerà l’amata figlia Teresa, a cui dedicherà uno dei suoi capolavori biografici. Dopo la precoce scomparsa di Maria, si unisce in matrimonio nel 1782 con Vincenza Melzi d’Eril.
L’ascesa al trono imperiale di Giuseppe II, nel 1780, ne risveglia la sopita passione politica: promosso alla sospirata presidenza del Magistrato camerale, Verri ripone molte speranze nel nuovo imperatore austriaco. Tuttavia, nel 1786, con la radicale trasformazione giuseppina dell’apparato giudiziario, parziale attuazione di quei programmi riformistici da lui stesso agognati, viene precocemente giubilato. Lo sconcerto provoca in lui uno stato di totale apatia, da cui si scuoterà solo con lo scoppio della Rivoluzione francese, verso la quale mostrerà un atteggiamento mutevole nel tempo: dall’adesione entusiasta alla condanna alla condivisione moderata. La morte lo coglie il 28 giugno 1797 a Milano, durante una riunione notturna della municipalità, in cui sedeva per volontà di Napoleone Bonaparte, estrema testimonianza di un’esistenza frenetica guidata dalla passione civile.
«Pietro Verri, patrizio illuminato, è incarnazione dell’illuminismo lombardo forse ancor più della figura di Cesare Beccaria» (Cavanna 1999, p. 106), interprete impagabile di un’epoca di transizione e di vivacità intellettuale. Fu il grande accusatore della situazione in cui versava il diritto nel Settecento: la scienza giuridica era monopolizzata dall’interpretazione dei giuristi, a fronte della scarsa o insufficiente produzione legislativa. Verri affondò i suoi colpi contro una giustizia dominata dall’arbitrio e dalla mancanza di certezza.
L’insofferenza verso il sistema di diritto comune veniva da lontano, dai primi approcci con il diritto giustinianeo negli anni parmensi e dall’esercizio compiuto, sotto la guida pedante e metodica del padre, su pandette e voluminosi tomi. L’effetto fu un odio viscerale verso la giurisprudenza e tutto ciò che essa rappresentava, ossia l’ambiente familiare e sociale da cui egli proveniva e al quale reagì con un costante anelito riformatore.
Dopo l’esperienza viennese, Verri tornava a Milano forte dell’incontro con l’eclettico Lloyd e delle letture di Montesquieu e Claude-Adrien Helvétius, pronto a trasformare in azione le idee politiche ed economiche apprese. I formidabili anni Sessanta del 18° sec. lo videro al centro della vita culturale milanese. Con un gruppo di giovani aristocratici fondò l’Accademia dei Pugni, di cui fu l’indiscusso leader: il curioso appellativo, che prendeva spunto da una gustosa diceria secondo la quale egli e Beccaria si erano presi violentemente a pugni per risolvere una non meglio precisata questione, divenne una gloriosa insegna, emblema della lotta senza quartiere ingaggiata dai membri di quell’informale sodalizio contro le storture e i pregiudizi diffusi. Gli affiliati fecero delle tematiche giuridiche l’oggetto primo delle loro riflessioni, nella convinzione che la riforma del diritto costituisse il parametro per misurare la capacità dello Stato di attuare i dettami e i valori della nuova filosofia.
All’Accademia egli affiancò la pubblicazione de «Il Caffè», un periodico di cui fu l’ideatore e l’anima: la rivista abbandonava il sapere erudito a favore di una cultura cosmopolita di rottura. A questa «vivace spicciola enciclopedia», felice appellativo in ragione della varietà dei temi trattati e dei nuovi toni polemici e satirici, conferiva un’unità di fondo l’impegno comune dei redattori in una guerra incessante contro la stolidità della tradizione e la cieca osservanza delle regole praticata in tutti i campi dello scibile e in tutti i settori della vita sociale. È l’uscita dallo stato di ‘minorità’ predicato da Immanuel Kant; è la nascita dell’École de Milan, che da città periferica del multietnico impero asburgico assurse a centro di diffusione dell’Illuminismo europeo.
Il diritto occupa un posto di primo piano nei programmi di Verri: se vale la formula, ereditata dagli scozzesi attraverso la mediazione di Helvétius, per la quale la maggior felicità possibile va divisa con la maggior uguaglianza possibile, mirabile sintesi tra utilitarismo e egualitarismo (che attraverso Jeremy Bentham si trasmetterà al radicalismo filosofico del Sette e Ottocento), è il diritto lo strumento di realizzazione di tale traguardo e del raggiungimento del bene comune, cui la politica deve tendere, grazie a una élite pensante in grado di educare la massa attraverso la legge (una posizione, questa, che avvicina Verri a Gaetano Filangieri). Ma è un diritto che va rifondato ab imis: da qui la sfida al sistema giuridico vigente e alle vecchie leggi romane a favore di una semplificazione delle norme e di ‘codici’ nuovi che mandino in soffitta le imbalsamate proposte di un Ludovico Antonio Muratori o di un Giuseppe Pasquale Cirillo.
Nell’ambiente colto e raffinato dell’Accademia, tra discussioni, meditazioni e letture, prende corpo il manifesto dell’Illuminismo giuridico penale: Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764, in contemporanea all’uscita del primo numero del «Caffè». Molto si è discusso sull’effettiva paternità dell’opera, rivendicata con orgoglio ferito da Pietro all’indomani dell’amara rottura con l’irriconoscente amico Beccaria. Se la lettera scritta da Alessandro nel 1803 al biografo di Pietro, Isidoro Bianchi, fuga ogni dubbio, è altrettanto vero che senza Pietro Dei delitti non avrebbe mai visto la luce. A lui va il merito della scelta del tema, dell’incitazione costante verso l’indolente Beccaria, della paziente ‘pulizia’ stilistica e sistemazione organica del manoscritto e della sanguigna difesa del pamphlet, stilata insieme al fedele Alessandro all’indomani delle corrosive accuse del monaco vallombrosano Ferdinando Facchinei, il quale, per tutta risposta, rivolse la sua penna velenosa contro le Meditazioni sulla felicità (1763) di Pietro, ritenendole erroneamente, per somiglianza di stile e di contenuti, un prodotto della stessa mano dei Delitti.
Ma il trittico che esprime al meglio l’ideologia giuridica verriana è composto dall’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese (1763), dalle Osservazioni sulla tortura (1776-77) e dal saggio, pubblicato sul «Caffè» nel 1765, Sulla interpretazione delle leggi. I primi due scritti rimarranno inediti fino all’Ottocento per volontà dello stesso Verri, che temeva di inimicarsi il Senato e i concittadini, rendendo pubblici i suoi «pensieri pericolosi a dirsi» nonché i dissapori con il genitore.
Nella parodistica Orazione panegirica, declamata all’Accademia, Verri, con fine ironia e sarcasmo, lancia un atto di accusa in cui si condensano i cardini illuministici della dottrina penale. L’orazione è pronunciata da un magistrato che, con trasparente finzione, loda l’antico e disprezza ogni novità. In controluce non è difficile scorgere in quell’apologeta cieco e sordo ai richiami del nuovo la detestata figura paterna: la battaglia sociale diventa veicolo per dare voce a personali e mai sopiti rancori. La simulata requisitoria si rivolge soprattutto contro i «libercoli oltremontani», traviatori di gioventù, e verso Inghilterra e Prussia, ree di avere abolito la tortura, favorendo così la corruzione dei costumi. Al contrario, Milano viene esaltata come isola felice, in cui la tradizione impera, a dispetto di quanto accade nel resto d’Europa, grazie soprattutto all’onnipotente Senato, padrone della legge e capace di giudicare come Dio.
Sulla interpretazione delle leggi è lo scritto giuridico di maggior spessore teorico: in esso si riassume la polemica antigiurisprudenziale in atto e si avverte l’eco neppure troppo lontana del pensiero di Montesquieu e di Jean-Jacques Rousseau. Il punto di partenza è montesquieuiano: il principio di separazione dei poteri comporta la distinzione tra i ruoli di legislatore e di giudice, il primo identificato con il sovrano, sia esso un uomo solo, un gruppo o una nazione (si percepisce qui l’innesto rousseauiano), a seconda della forma di governo, il secondo inteso come mero esecutore letterale della legge. Il legislatore esprime un comando, il giudice lo fa eseguire: un’inversione di funzioni e la trasformazione del giudice in legislatore mettono in pericolo la stabilità sociale e la libertà politica. È evidente l’avversione per ogni attività interpretativa creatrice di ius novum: Verri si spinge fino a fornire una definizione di interpretazione, intesa come la sostituzione dell’opinione dell’interprete alla volontà di chi scrive la legge.
L’opera giuridica verriana più vibrante rimane però Osservazioni contro la tortura. Prendendo le mosse dal processo celebrato nel 1630 contro innocenti cittadini, sospettati di aver diffuso la peste mediante malefiche unzioni, questo testo svolge una veemente invettiva contro il processo inquisitorio e l’uso della tortura.
Venuto in possesso, grazie al segretario di Sanità Giovanni Grassini, intimo amico di famiglia, dei verbali del processo, Pietro fu folgorato dalla vicenda del commissario di Sanità Guglielmo Piazza e del barbiere Gian Giacomo Mora, atrocemente torturati e condannati a morte tra indicibili strazi per essere stati giudicati colpevoli l’uno di aver sparso il morbo, l’altro di averlo fabbricato.
Se è presumibile che Pietro abbia abbozzato il lavoro già nel 1762-63, mettendolo poi generosamente a disposizione di Beccaria per la stesura del suo pamphlet, fu solo nel 1776 che lo organizzò nella forma definitiva. In quell’anno l’imperatrice Maria Teresa aveva provveduto ad abolire la tortura e a limitare fortemente la pena di morte nelle province austriache e boeme, e aveva invitato Milano ad adeguarsi alle nuove direttive di governo. Il Senato affidò proprio a Gabriele Verri il compito di redigere la risposta da inviare a Vienna. L’austero senatore, nella celebre consulta del 19 aprile, intonò un peana a favore della tortura, considerata efficace strumento di lotta contro la criminalità dilagante e di conservazione della pace sociale. Fu questa la molla che indusse Pietro a una definitiva resa dei conti con il padre e con i valori da lui impersonati: il tramite furono le Osservazioni.
Nel lungo saggio, gli atti processuali si intrecciano con le riflessioni scarne e sferzanti di Verri, in un racconto-verità in cui sono i fatti e i protagonisti a parlare. Dopo la esasperata descrizione del clima di superstizione e di fanatismo di cui era stata preda la Milano spagnola fiaccata dalla peste, narrazione strumentale all’esaltazione di un Settecento dominato dalla luce della ragione vittoriosa sulle tenebre dell’ignoranza, l’attenzione si sposta sul sistema giudiziario e sulla criminalistica dell’età di mezzo, responsabile, a suo dire, di aver favorito, giustificato, legalizzato l’impiego della tortura, canonizzandola entro precise regole e raffinandone le tecniche applicative: la colpa di quel terribile errore-orrore giudiziario viene dunque addossata completamente ai giuristi.
Pur tra qualche iperbole, qualche imprecisione storica e un uso non sempre corretto delle fonti, lo scopo dell’opera è indiscutibilmente nobile: dimostrare l’inutilità della tortura, non già mezzo per scoprire la verità, come sosteneva la dottrina del tempo, ma per allontanarsi da essa, mediante confessioni estorte. Ingiusta nei delitti certi e inutile in quelli certi: è un’affermazione che si fonda sulla presunzione di non colpevolezza e ribalta la prospettiva entro cui si muovevano le pratiche inquisitorie.
Se è vero che l’opera riprende argomentazioni ormai consolidate nella letteratura riformista, da Christianus Thomasius in poi, difettando in ciò di originalità, è tuttavia innegabile che la passione, la chiarezza, la sincera indignazione ne giustificano il successo e le numerose edizioni succedutesi senza sosta fino ai giorni nostri.
Edita solo nel 1804, l'opera susciterà un dialogo a distanza con Alessandro Manzoni, il quale, nella Storia della colonna infame (1840), rovescerà l’assunto verriano, attribuendo la colpa di quel processo non già ai vizi dei tempi e delle leggi, ma alla malvagità degli uomini chiamati a giudicare. Se Verri condanna senza appello i giuristi, Manzoni punta un implacabile dito accusatore contro i giudici, responsabili di una condotta deliberatamente fraudolenta. Per Manzoni il governo di buone leggi è nulla senza un’opera di educazione morale dell’uomo, mostrando una visione lontana dalla pedagogia della felicità di cui si era nutrito utopisticamente l’Illuminismo.
Verri si illuse per lungo tempo sul possibile connubio fra aspirazioni riformatrici dei philosophes milanesi e potere assoluto: militò contro il sistema imperante ambendo al tempo stesso di farne parte. Le istanze promosse in quella straordinaria primavera che fu l’Illuminismo lombardo sembrarono accolte dal governo asburgico: umanità della pena, certezza del diritto, realizzazione di codici, primato della legislazione, interpretazione meccanica della legge, abolizione della tortura e, insieme, di quell’organo giudiziario che ne era stato fiero difensore, il Senato.
Tuttavia la spinta localistica, che voleva gli intellettuali lombardi partecipi di quel processo di trasformazione, fu frustrata dal dirigismo e dal centralismo giuseppino, che calò dall’alto la riorganizzazione dell’apparato burocratico-giudiziario e del diritto vigente, estromettendone proprio uno dei suoi più fervidi propugnatori. «Sì: Giuseppe II ha esautorato l’élite e ha spento consapevolmente i lumi lombardi per poter condurre a termine la sua opera» (Cavanna 1999, p. 135).
Le numerose torsioni del percorso intellettuale di Verri (dal dispotismo illuminato al costituzionalismo sostenuto nella breve stagione rivoluzionaria) si conclusero, in singolare coerenza, con un ritorno all’antica figura del demiurgo monarca assoluto: dopo Giuseppe II, Napoleone, affiancato da un classe pensante in grado di educare la massa, un tema cui Pietro rimarrà a suo modo sempre fedele. L’indole di Verri, ribelle ed eternamente fiduciosa nei ‘progressi della ragione’, causa di perenne insoddisfazione verso l’esistente, seppe così incarnare al meglio la vibrante età dei lumi, tra speranze e delusioni.
Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese (1763), pubblicata in: C.A. Vianello, L' 'Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese' del Verri tra le fonti del libro 'Dei delitti e delle pene', «Giornale storico della letteratura italiana», 1938, 334, pp. 60-75; C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino 1965, pp. 127-46; P. Verri, Osservazioni sulla tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano 1993, pp. 165-79.
Sulla interpretazione delle leggi (1765), da ultimo in Il Caffè, a cura di G. Francioni, S. Romagnoli, Torino 1993, pp. 695-704.
Osservazioni sulla tortura (1776-1777), da ultimo in Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, 6° vol., Scritti politici e della maturità, a cura di C. Capra, Roma 2010, pp. 37-141.
I. Bianchi, Elogio storico di Pietro Verri, Cremona 1803.
M. Fubini, Pietro Verri e il 'Caffè', in La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini, Torino 1957, pp. 102-119.
N. Valeri, Pietro Verri, Firenze 1969.
F. Venturi, Settecento riformatore, 1° vol., Da Muratori a Beccaria (1730-1764), Torino 1969, pp. 645-747.
A. Marongiu, Muratori, Beccaria Pietro Verri e la scienza del diritto, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», n.s., 1975, 3, pp. 744-76.
G. di Renzo Villata, Giuristi, cultura giuridica e idee di riforma nell’età di Beccaria, in Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita, Roma-Bari 1990, pp. 225-78.
G. Barbarisi, Introduzione a P. Verri, Osservazioni sulla tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano 1993, pp. 5-35.
Pietro Verri e il suo tempo. Milano, 9-1 ottobre 1997, a cura di C. Capra, 1° vol., Bologna 1999 (in partic. A. Cavanna, Da Maria Teresa a Bonaparte: il lungo viaggio di Pietro Verri, pp.105-45; M.A. Cattaneo, Pietro Verri e la riforma penale, pp. 271-88; G.P. Massetto, Pietro e Alessandro Verri in aiuto di Cesare Beccaria: la risposta alle 'Note' del Facchinei, pp. 289-351; G. Imbruglia, Il conflitto e la libertà. Pietro Verri da 'Il Caffè' alla 'Storia di Milano', pp. 447-87; C. Capra, «La mia anima è stata sempre repubblicana». Pietro Verri da patrizio a cittadino, pp. 519-40).
C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002.
A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, 2° vol., Milano 2005, pp. 181-89.
G. Barbarisi, Nota introduttiva a P. Verri, Osservazioni sulla tortura (1776-1777), in Edizione nazionale delle opere di Pietro Verri, 6° vol., Scritti politici e della maturità, a cura di C. Capra, Roma 2010, pp. 1-36.