VOLLARO, Pietro
– Nacque nel 1769 a Reggio di Calabria.
Apparteneva a una famiglia nobiliare originaria del Casertano che controllava la zona di Ducenta nell’antica Terra di Lavoro e che vantava solide origini medievali, al tempo della dominazione angioina e della regina Maria d’Ungheria.
Della vita privata, familiare, culturale e lavorativa di Vollaro negli ultimi decenni del XVIII secolo si hanno poche e frammentarie notizie. Nella sua gioventù fu indirizzato prima agli studi classici e poi a quelli legali presso l’Università di Napoli, dove entrò in contatto con le idee del razionalismo e dell’illuminismo francese. Terminati gli studi, Vollaro avviò una carriera nel mondo dell’avvocatura e della magistratura partenopea, arrivando a ricoprire l’importante carica di giudice criminale. Le idee, i propositi, le utopie e le aspirazioni riformatrici, democratiche e patriottiche respirate all’Università rimasero però nella mente del giovane giurista, che al volgere del secolo si avvicinò quindi agli ambienti culturali repubblicani e rivoluzionari napoletani. Pur frequentando i circoli animati da Ercole D’Agnese e Francesco Mario Pagano, Vollaro riuscì a rimanere estraneo agli eventi che portarono alla proclamazione della effimera Repubblica del 1799 e alla sua brutale repressione.
Con la restaurazione dei Borbone Vollaro si convinse della necessità di un nuovo intervento e della relativa influenza francese nel Mezzogiorno e perciò pochi anni dopo accolse con grande favore la nascita del Regno di Napoli, guidato fino al 1808 da Giuseppe Bonaparte e poi da Gioacchino Murat, continuando ad esercitare la carica di giudice criminale presso la Corte di giustizia partenopea. Con la tumultuosa fine del Regno di Napoli e dell’epoca napoleonica nel 1815, il ritorno sul trono dei Borbone favorì la decisione di Vollaro di lasciare Napoli in un esilio volontario che lo vide arrivare prima a Marsiglia, poi a Firenze, dove ritrovò molti fuoriusciti murattiani tra i quali Alessandro e Giuseppe Poerio, e infine a Lucca, dove decise di stabilirsi definitivamente.
Con il congresso di Vienna del 1815 il Ducato di Lucca era stato affidato ai Borbone di Parma, privati del loro potere in favore della moglie di Napoleone, Maria Luisa d’Austria, con l’accordo che alla morte di quest’ultima il ducato sarebbe tornato ai precedenti regnanti della famiglia Borbone. La duchessa Maria Luisa guidò con grande impegno il proprio piccolo regno; e alla nascita di istituti culturali (un nuovo teatro, un orto botanico, gabinetti scientifici) e nuove infrastrutture come le darsene del porto di Viareggio affiancò una rigida ortodossia cattolica. Le rivoluzioni del 1820-21 contro i Borbone in Spagna e nel Regno delle Due Sicilie costituirono un grande trauma per la duchessa, che in un primo momento sembrò voler evitare una frattura simile nel piccolo ducato con la concessione di una costituzione liberale, la cui redazione fu affidata all’avvocato lucchese Paolo Malfatti, giudice istruttore del tribunale criminale cittadino. Il progetto riformatore ebbe però vita breve, perché la duchessa fu ben presto convinta a desistere da un fermo sostenitore della restaurazione assolutistica, il napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, allora residente a Lucca. Malfatti fu così immediatamente destituito e condannato all’esilio nell’agosto del 1820, mentre nel 1823 la duchessa emanò un decreto che vietava la costituzione di società segrete e carbonare, con la pena di morte per i membri iscritti e la dura carcerazione per i sostenitori. In un surplus di sicurezza e controllo, la duchessa nell’agosto del 1820 chiese al ministro Carlo Orsucci di mettere sotto controllo la posta e le corrispondenze di Vollaro, considerato un possibile cospiratore per il passato napoletano.
Nonostante la 'cattiva' fama di liberale e posto per questo sotto sorveglianza, Vollaro seppe comunque inserirsi nell’ambiente culturale, politico e sociale del patriziato lucchese, dal quale ricevette una cordiale ospitalità per le sue qualità oratorie ed intellettuali. Poco dopo il suo arrivo nel Ducato Vollaro si sposò con una esponente di un’antica famiglia nobiliare cittadina, Elisabetta Bartolomei, vedova del marchese Cristoforo Boccella e madre di Cesare. Con la morte di Maria Luisa nel 1824 la guida del Ducato passò al figlio Carlo Lodovico, uomo dai molteplici interessi e dalle grandi letture, ma pure dal carattere volubile ed incostante, profondamente influenzabile. Carlo Ludovico nei primi anni di regno favorì alcune riforme, dalla revisione della politica daziaria, fiscale e mercantile all’istituzione di nuove scuole, ma si dedicò soprattutto a lunghi e dispendiosi viaggi attraverso l’Italia e l’Europa, lasciando il governo della città e del suo territorio nelle mani del fidato ministro Antonio Mansi, in carica fino al 1840. Per le proprie qualità intellettuali e probabilmente per intercessione della moglie, Vollaro seppe inserirsi in breve tempo nella cerchia ristretta dei consiglieri e degli uomini di fiducia di Carlo Ludovico, che nel 1826 ordinò la compilazione del Libro d’oro del patriziato lucchese. In questo registro furono compresi sia le famiglie nobiliari ereditarie storiche come i Boccella, i Guinigi, i Bartolomei, i Bernardini, sia i pari a vita o coloro che, ricoprendo cariche istituzionali all’interno della corte lucchese, diventavano nobili per decreto. In questo elenco fu inserito pure Vollaro come pari a vita e con un decreto del 13 dicembre 1830 il titolo nobiliare diventò ereditario ed esteso ai suoi fratelli, Giuseppe e Roberto, giunti anche loro a Lucca.
Il 1830 rappresentò in effetti l’apice della vita lucchese di Vollaro, perché il 30 gennaio Carlo Ludovico, in un dispaccio da Vienna, chiese espressamente l’istituzione della Intendenza del Particolare Patrimonio, ovvero un unico ufficio e un’unica cassa che rendicontassero e unissero tutte le rendite e le spese della Corte, e a capo di questo ufficio fu posto proprio Vollaro, anche grazie ai buoni uffici di Daulo Augusto Foscolo, arcivescovo di Corfù e poi patriarca di Gerusalemme, direttore onorario della Regia Biblioteca privata del duca. Con questa nomina nel luglio 1830 Vollaro entrò automaticamente nel Consiglio di Stato e nel Consiglio dei ministri, i due organi esecutivi del Ducato lucchese, diventando così uno degli esponenti più anziani della compagine governativa. I rappresentanti dei due regni borbonici di Spagna e Due Sicilie residenti a Firenze fecero giungere a Lucca dure proteste per la scelta dell’anziano giurista a causa dei suoi trascorsi nella Napoli di Murat, ma Carlo Ludovico rimase fermo nelle proprie decisioni, anche per dimostrare una propria autonomia di azione nei confronti sia delle famiglie regnanti dei Borbone che del controllo austriaco, interessato a mantenere lo status quo nello scacchiere italiano. Vollaro sembrava così essere avviato a una serena anzianità di servizio negli organi del Ducato, ma dopo neanche un anno nel gennaio 1831 fu invitato a rassegnare le proprie dimissioni.
Il 1830 fu infatti anche l’anno in cui il nome di Vollaro tornò ad essere al centro dell’attenzione per i suoi antichi sentimenti liberali in uno degli episodi più enigmatici e confusi della storia lucchese. Con il duca in Germania per uno dei suoi lunghi viaggi nelle corti europee, quando a Lucca giunsero le voci della rivoluzione che in Francia aveva portato sul trono Luigi Filippo il governo ducale guidato da Mansi (e di cui lo stesso Vollaro faceva parte) votò per la costituzione di una guardia civica per scongiurare il possibile scoppio di moti liberali e uno sbarco di rivoluzionari sulle coste di Viareggio. Tutte queste furono paure immotivate e presto dimostratesi prive di fondamento, ma i plenipotenziari austriaci a Firenze chiesero lo stesso una ferma condanna per coloro che venivano considerati ‘liberali’ dall’opinione pubblica; Vollaro rientrò quindi in questi elenchi per il suo passato napoletano, con la conseguente scelta di dimettersi per le pressioni politiche sempre più avverse e crescenti.
Ed è in quel momento che la storia assume toni nebulosi, perché nelle mai appurate, ma nemmeno mai del tutto smentite memorie di Giovanni La Cecilia, uno scrittore e intellettuale partenopeo che in quei decenni partecipò a molte – reali e immaginarie – congiure patriottiche sia di stampo monarchico costituzionale e bonapartista che repubblicano, Vollaro fu posto al centro di una grande cospirazione patriottica che avrebbe previsto la partecipazione dello stesso Carlo Ludovico come affiliato alla carboneria, cosa di cui lo scrittore napoletano era sicuro perché a suo dire era stato testimone della cerimonia di affiliazione del duca. Secondo La Cecilia, alla fine del 1830 Carlo Ludovico sarebbe dovuto tornare dal viaggio in Germania per proclamarsi re costituzionale d’Italia e avviare così la definitiva rivoluzione liberale, che da Lucca e dalla Toscana si sarebbe poi diramata in tutta la penisola tramite la struttura segreta dell’associazionismo carbonaro. Nella primavera del 1831 queste paure e questi progetti rivoluzionari non avevano avuto seguito, ma Carlo Ludovico dovette cedere sul fronte del rigore richiesto soprattutto da Vienna e quindi il 14 aprile ordinò per decreto l’espulsione dal Ducato di Carlo Massei, Ferdinando Chifenti e Vollaro, considerati i membri più eminenti della nascosta opposizione liberale lucchese. Nel 1832, anche grazie all’arrivo a Lucca di numerosi rivoluzionari romagnoli, si costituì effettivamente una segreta Compagnia liberale, che avviò una serie di dimostrazioni pubbliche, edizioni anonime di pamphlets patriottici, furti di armi da fuoco, volantini contro gli Austriaci. Il timore da parte del governo ducale di Mansi superò di gran lunga il reale rischio di una rivolta liberale, ma quando furono approvate misure sempre più drastiche di pesante repressione nei confronti delle associazioni segrete e dell’opinione pubblica, con pure l’avvio di un processo penale nei confronti dei sospettati membri della Compagnia liberale, la possibilità di una sommossa diventò più concreta.
Carlo Ludovico nell’agosto del 1833 decise però di tornare finalmente a Lucca e concesse una piena amnistia che pose fine al momento di tensione tra il governo Mansi e l’opinione pubblica liberale. Grazie anche all’intercessione di Cesare Boccella, consigliere e amico personale del duca ma soprattutto figlio della moglie Elisabetta, anche Vollaro ottenne il perdono ducale.
Con la fine delle turbolenze, Vollaro si trasferì definitivamente nelle campagne lucchesi a Monte San Quirico, dove gestì le proprietà terriere della moglie Elisabetta per conto di Boccella, dedito ai suoi tours culturali e letterari per tutta Europa. Vollaro non concluse del tutto la sua vita politica, perché nel 1842 Carlo Ludovico lo nominò nuovamente consigliere del Portafoglio della R. Casa e della Corte, ma la sua presenza a Palazzo Ducale fu sempre più diradata, fino a che nel 1847 il Ducato di Lucca cessò di esistere per essere assorbito al Granducato di Toscana.
Pietro Vollaro morì a Monte San Quirico nel 1854 all’età di ottantacinque anni.
Fonti e Bibl.: per la documentazione archivistica delle cariche pubbliche ricoperte da Vollaro a Lucca: S. Bongi, Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca, III, Lucca, 1880, pp. 74-103. C. Massei, Storia civile di Lucca dall’anno 1796 all’anno 1848, II, Lucca, 1878, pp. 216-251; G. Sforza, L’ultimo Duca di Lucca, in Nuova Antologia, 1° agosto 1893, pp. 447-468; Id., L’ultimo Duca di Lucca – Parte II, Ventidue anni di governo patriarcale, in Nuova Antologia, 1° settembre 1893, pp. 88-112; Id., La fine di un Ducato I-IV, in Nuova Antologia, 15 novembre 1893, pp. 306-332; Id., La fine di un Ducato V-IX, in Nuova Antologia, 15 dicembre 1893, pp. 675-711; G. Sforza, Ricordi e biografie lucchesi, Lucca 1918, pp. 306-355; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, VI, 1932, p. 963; E. Lazzareschi, Una memoria sulla Corsica di Carlo Massei, in Archivio storico di Corsica, XIV (1938), 1, pp. 242-252; G. La Cecilia, Memorie storico-politiche, Milano 1946, pp. 30-72.