PIETRO
– Nacque probabilmente a Roma (l’Elencus chronicus vicariorum urbis lo indica sempre con l’aggettivo romanus), in data ignota e da famiglia ignota.
Divenne cardinale del titolo dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti nel 1088 per volontà di Urbano II; durante i primi anni del pontificato di Pasquale II e dopo la morte del predecessore Maurizio (1100-1101, Hüls, Kardinäle, Klerus, 1977, pp. 121 s.) ottenne il titolo di vescovo di Porto, già attestato da Falcone Beneventano al 1102. Pietro in quell’anno era a Benevento per contrastare l’attività dei cittadini che intendevano eleggere liberamente il vescovo della città e che chiedevano al papa di approvare tale richiesta. Preso atto del diniego papale, i beneventani sequestrarono il vescovo di Porto e chiesero che egli perorasse la loro causa, ma ottennero solo che Pasquale II inviasse a Benevento come rettore il monaco Rossemanno, un uomo di sua totale fiducia, che aveva già retto la città nel 1101.
È improbabile che Pietro sia intervenuto nel 1106 (così Cardella, 1792, ma contra Blumenthal, 1978, pp. 38-42) al concilio di Guastalla, dove Pasquale II discusse coi vescovi tedeschi delle investiture. Probabilmente, mentre il papa era a Guastalla e poi in Francia, Pietro rimase nella città campana, in veste di rector Beneventanus, come si intitola in un documento del gennaio 1107 (e come risulta da un atto relativo alla traslazione di s. Deodato, vescovo di Nola, e da un altro del febbraio 1108 concernente il monastero di S. Sofia).
La discesa in Italia del re Enrico V verso Roma indusse Pasquale II a richiamare presso di sé il vescovo di Porto. Con il collega Cencio di Sabina, Pietro fu con il papa nelle difficili giornate tra il 12 e il 16 febbraio 1111, quando Pasquale II e il suo seguito furono presi prigionieri dai cavalieri tedeschi e portati qua e là nella Sabina e nella campagna romana, mentre continuavano le discussioni sul problema delle investiture.
Alla fine il papa, anche su sollecitazione di Alberto di Biandrate, per liberare dalla prigionia tutti i suoi cardinali e chierici, che l’imperatore continuava a trattenere, accettò di trattare nei pressi di ponte Mammolo l’11 aprile 1111, e concesse a Enrico V di poter investire con pastorale e anello i vescovi non simoniaci liberamente eletti con l’assenso del re, da consacrarsi poi da parte dei metropoliti.
Pietro e Cencio di Sabina, con altri ecclesiastici prigionieri, giurarono di fronte al sovrano, e nei giorni successivi (12-13 aprile) il testo del precetto fu predisposto e consegnato al papa perché quamvis invitus lo sottoscrivesse, come fece Pietro con altri cardinali. Pietro dovette poi fronteggiare la denuncia e la protesta del cardinale Bruno di Segni (capo dell’ala radicale del collegio), assente, che con una lettera a lui indirizzata accusò di eresia coloro che avevano sottoscritto il precetto papale. Pietro non rispose; tuttavia nel marzo 1112, durante il sinodo del Laterano, con tutta la Curia cardinalizia e con lo stesso pontefice contestò quanto era avvenuto nel 1111, condannando l’azione di Enrico V, messa in atto per estorcere per violentiam il privilegio sulle investiture (che «vere debet dici pravilegium», e che fu cassato).
Non è certo se Pietro abbia seguito il papa a Benevento nel febbraio 1113, poiché manca la sua sottoscrizione su alcuni privilegi rilasciati in quella circostanza. Nel 1114 comunque Pasquale II lo inviò ancora in quella città (con l’arcivescovo di Capua e il cardinale Gregorio) per processare e deporre l’arcivescovo Landolfo, ribelle contro l’autorità papale. Rientrato a Roma con il pontefice nell’ottobre del 1114, rimase in città e fu presente al sinodo lateranense del marzo 1116.
A lui e ad altri tre cardinali vescovi Pasquale II affidò la risoluzione della causa concernente l’arcivescovo di Milano, Grossolano, in lite con Giordano da Clivio, eletto dai milanesi mentre il titolare era in Terra Santa. Grossolano fu costretto ad assumere la carica di vescovo di Savona, non senza le scuse (per iscritto) di Pietro, consapevole di aver trattato con grande severità il vescovo di Savona, che aveva recriminato presso il papa. Nello stesso anno (ante dicembre 1116) sottoscrisse quattro lettere papali (due per i canonici di S. Maria in Porto a Ravenna).
L’anno successivo (1117) Pasquale II, allontanatosi da Roma, affidò a Pietro la carica di vicario papale sulla città; in tale veste affrontò i problemi legati alla morte del papa (21 gennaio 1118) e al conclave. In S. Maria in Pallara sul Palatino fu eletto papa il cancelliere Giovanni Caetani (Gelasio II), proprio su designazione di Pietro di Porto, vicino alle posizioni politiche dei Pierleoni. Insieme a Pietro il nuovo papa sfuggì dapprima – appoggiato dal popolo e dalla nobiltà – all’attacco di Cencio Frangipane, e poi – recandosi a Gaeta e in seguito a Capua – a Enrico V, che giunse a Roma per rivendicare il privilegio annullato del 1111. A Gaeta, Pietro fu a fianco di Gelasio in occasione dell’ordinazione sacerdotale e della successiva consacrazione papale, mentre a Roma il sovrano eleggeva come pontefice Maurizio Burdino, che assunse il nome di Gregorio VIII. Successivamente scortò il papa anche a Capua, dove sottoscrisse (18 aprile 1118) un precetto per S. Sofia di Benevento, relativo all’utilizzazione delle acque del fiume Calore. A conferma di uno stretto legame, venne infine designato come vicario di Roma quando Gelasio II partì per Pisa e successivamente per la Francia; morì a Cluny (29 gennaio 1119), ove fu eletto il successore Callisto II, e donde fu inviata ai cardinali rimasti a Roma una lettera per chiedere l’assenso all’elezione. Fu Pietro a gestire la delicata questione, scrivendo dapprima ai cardinali presenti a Cluny per informarli d’aver comunicato al popolo romano la morte del papa. L’accettazione dell’elezione di Guido di Vienne fu infatti approvata dal clero romano e da tutti i cardinali, preceduti dai tre cardinali vescovi, fra cui Pietro, che sottoscrisse la lettera per secondo.
Il loro assenso fu giustificato dal fatto che i colleghi in Francia avevano agito «summa necessitate cogente», ma che nel contempo avevano rispettato la romanam consuetudinem.
Dopo il rientro a Roma (9 giugno 1120), Callisto II incaricò Pietro di Porto e alcuni suoi fideles di trattare con Caffaro e Berizone, consoli di Genova, alcuni problemi relativi alla Corsica (16 giugno).
L’accordo fu stipulato davanti alla chiesa dei Ss. Cosma e Damiano in Silice e Pietro previde che entro la festa di s. Martino fosse effettuato il versamento di 1500 marche d’argento ad opus pape et Curie (rispettivamente, 1200 e 300, oltre a 50 ai chierici romani per il loro assenso) al fine di ottenere un privilegio che sottomettesse i vescovi della Corsica all’autorità metropolitica del pontefice, vietando all’arcivescovo di Pisa di consacrarli. Pietro ottenne per sé una tangente di 303 once d’oro de tarinis, cioè in tarì, moneta del Regno di Sicilia; il 3 gennaio 1121 sottoscrisse poi la decisione di Callisto II, che riservava solo alla Chiesa romana (e non al metropolita pisano) il diritto di consacrare i presuli di Corsica.
L’appoggio dato a Callisto II favorì la cessione definitiva al vescovo di Porto dell’episcopato di S. Rufina di Silva Candida, in modo che potesse godere dei redditi delle due sedi.
Nella tarda estate del 1120 Pietro accompagnò ancora una volta un papa a Benevento. Lì sottoscrisse il precetto che costituiva la Chiesa di Aversa come suffraganea della Chiesa romana (24 settembre) e pochi giorni dopo (10 ottobre) un privilegio per S. Pietro al Volturno che conseguì la diretta dipendenza dalla Chiesa romana; inoltre presenziò all’omaggio feudale al papa prestato dal duca di Puglia Guglielmo Borsa e dal principe di Capua.
L’anno successivo, dopo aver sottoscritto il 25 maggio con tutto il collegio il privilegio di delimitazione dei confini della parrocchia di S. Salvatore, basilica Costantiniana in Laterano, e dopo aver indotto il papa a donare alla Chiesa romana beni immobili per edificare una canonica (come ricorda una lettera papale del 24 luglio), Pietro fu inviato come legato a Venezia. Lo scopo era di consegnare al doge Domenico Michael il vessillo di s. Pietro, avendo i veneziani deciso di intraprendere una spedizione armata verso la Terra Santa (e infatti 200 navi partirono nel 1122). Nelle sue vesti di legato Pietro avrebbe dovuto imporre il pallio al patriarca di Gerusalemme, Guarmondo, tuttavia questa eventualità fu vanificata dalla precedente consegna di tale indumento liturgico agli ambasciatori di Baldovino II (cfr. lettera di Callisto II a costui e ai prelati della provincia ecclesiastica). Non si sa dunque se Pietro partì per la Terrasanta; in ogni caso il 28 dicembre 1121 era a Roma, in Laterano insieme con il papa e i cardinali.
Nell’ultimo periodo del pontificato di Callisto II, infine, Pietro partecipò al Concilio ecumenico Lateranense I del 1123 e sottoscrisse il 6 aprile la lettera papale ai vescovi della Corsica, che ribadiva il divieto per l’arcivescovo di Pisa di consacrarli, lasciando tale potere al papa. Tra il 1122 e il 1124 firmò tutte le bolle maggiori: tra di esse quelle indirizzate al vescovo di Pavia, ai canonici regolari di S. Frediano di Lucca e soprattutto alla Chiesa senese (1° aprile 1124) cui furono restituite 18 pievi sottratte alla diocesi di Arezzo.
Nel dicembre 1124, dopo la morte di Callisto II, Pietro si schierò in conclave per il candidato dei Pierleoni, il cardinal Tebaldo Buccapecus, ma per la violenta interferenza dei Frangipane e la rinuncia del neoeletto, i cardinali scelsero come pontefice il vescovo di Ostia, Lamberto. Pietro di Porto (e con lui altri cardinali) inizialmente si opposero chiedendo al neoeletto «ut de papatu nullatenus se intromittat», perché fosse eletto un vero pastore per la Chiesa romana. Ma secondo il racconto di Pandolfo, il vescovo di Porto cambiò idea dopo aver ottenuto dai sostenitori di Lamberto (Leone Frangipane, il cardinale Aimerico) il castello di Formello; sicché Lamberto ottenne l’unanimità e assunse il nome di Onorio II.
Rimasto a Roma anche nel 1125-26, Pietro sottoscrisse la lettera papale (2 aprile) che attribuiva a Pietro il Venerabile abate di Cluny il controllo di tutta la Cluniacensis Ecclesia (contro Ponzio); il privilegio (4 maggio) per i canonici di S. Maria in Porto di Ravenna (che assicurava loro ampie esenzioni e libertates); la bolla per l’arcivescovo ravennate (con conferma dei suoi diritti metropolitici); la lettera per il cenobio di S. Biagio in diocesi di Costanza (28 marzo 1126). Per coerenza con quanto aveva avallato ai tempi di Callisto II, non intervenne invece, il 21 luglio 1126, alla cerimonia in cui Onorio II, dopo aver ascoltato il parere di molti vescovi e arcivescovi italiani e dopo aver inutilmente convocato i rappresentanti di Genova, restituì all’arcivescovo di Pisa il potere di consacrare i vescovi della Corsica, annullando così la disposizione del predecessore.
Lo scontro maggiore con il gruppo dei cardinali legati al papa, al cancelliere Aimerico e ai Frangipane, avvenne nel febbraio del 1130, alla morte di Onorio II. Nella Chiesa si aprì uno scisma: il 14 febbraio il Collegio cardinalizio si divise ed elesse due papi, Gregorio di S. Angelo (Innocenzo II), e Pietro Pierleoni (Anacleto II). Fu proprio Pietro il regista dell’elezione di Anacleto II, secondo Guglielmo di Malmesbury (Historiae Novellae), che ne riporta una pungente lettera ai quattro colleghi Matteo di Albano, Guglielmo di Preneste, Corrado di Sabina e Giovanni di Ostia, definiti novitii e responsabili d’aver eletto Innocenzo II in modo furtivo, nella notte, subito dopo la morte di Onorio.
Essi avrebbero agito neglecto ordine, contempto canone, senza aver avvisato i confratelli maiores et priores né aver aspettato gli assenti da Roma o ascoltato Pietro (prior vester, il cardinale vescovo più anziano di consacrazione). L’elezione era quindi inesistente (nihil omnino existere), mentre manifesta, legittima e fatta d’intesa con popolo e clero era l’elezione di Anacleto II. Egli chiese pertanto agli avversari di rientrare in se stessi e di non scatenare uno scisma nella Chiesa. Da parte sua Pietro di Porto aveva sempre ricercato l’unità della Chiesa, aderendo alla verità e alla giustizia, perché la verità lo avrebbe liberato (veritas liberabit me).
La divisione non si ricompose e il gruppo degli innocenziani, legati a Bernardo di Chiaravalle e ai cistercensi, fu costretto a fuggire da Roma. Pietro di Porto il 26 febbraio consacrò nella basilica di S. Pietro Anacleto II e considerò come decaduto il rivale. Era ormai molto vecchio, ma poté ancora sottoscrivere il privilegio del 27 marzo 1130 per il monastero romano di S. Paolo, e un altro documento del 24 aprile dello stesso anno. Dopo queste date non si hanno più notizie di Pietro. Il successore Teodevino, eletto da Innocenzo II, ebbe la nomina sulla sede di Porto nel concistoro del dicembre 1134.
Pietro nella sua lunga attività cardinalizia svolse sempre un’azione legata alla difesa degli interessi del gruppo romano, senza alcun dubbio ancorato alla posizione riformatrice di Urbano II e di Pasquale II, con il quale il vescovo di Porto operò in collegamento stretto sul dibattuto tema delle investiture; ma poi egli seppe anche accettare la soluzione finale raggiunta da Callisto II. Al contrario egli non condivise le aperture che il cancelliere Aimerico impresse al Collegio cardinalizio verso la creazione di una Curia di respiro europeo, e quindi si legò sempre più al gruppo dei cardinali capeggiati dal giovane romano Pietro Pierleoni, un uomo formatosi nella Francia del XII secolo e nella Cluny travagliata dalla lotta tra Ponzio e Pietro il Venerabile. La conclusione portò allo scisma del 1130, ricomposto solo dopo la ‘provvidenziale’ morte dei due cardinali ‘romani’, il papa Anacleto e Pietro di Porto.
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