PIETRO
(Pietro V). – Non sono noti il tempo della sua nascita e la famiglia di provenienza. Tarde tradizioni storiografiche gli attribuiscono di volta in volta origini vercellesi o pavesi e, in quest’ultimo caso, lo indicano quale membro della famiglia Toscana.
Nel 1146 Pietro è comunque attestato quale abate del cenobio cistercense di S. Maria di Lucedio, presso Trino Vercellese, e tra il febbraio e il marzo del 1147 fu consacrato vescovo di Pavia, quinto presule della città con questo nome. Nei primi anni del suo ufficio si impegnò in diversi interventi a favore di istituzioni ecclesiastiche pavesi fra i quali il monastero femminile del Senatore, l’ospedale di S. Lazzaro presso San Pietro in Verzolo e la canonica di S. Maria Gualtieri. Fu inoltre coinvolto da papa Alessandro III in una spinosa causa di diritto matrimoniale tra i membri di due famiglie appartenenti all’aristocrazia consolare pavese, al fine di tutelare il libero consenso della sposa al vincolo coniugale. Per la loro esemplarità, le decretali prodotte in questa occasione furono inserite dal canonista Bernardo, anch’egli vescovo di Pavia, nella cosiddetta Collectio Parisiensis II ed entrarono poi a far parte del Liber Extra.
Nel decennio successivo, quando si intensificò la dialettica tra Federico Barbarossa e i comuni italiani, aderì in un primo momento alle posizioni filoimperiali del Comune di Pavia. Nel 1158 fu a Roncaglia e ottenne (definito «vir suo tempore sanctissimus») un diploma per il monastero femminile di Cairate, situato nella diocesi di Milano ma a lui soggetto, e ne sottoscrisse un altro per S. Salvatore di Ponte Trebbia (presso Piacenza). Fu poi (settembre 1159) legato in Francia e in Inghilterra per conto dell’imperatore, con l’obiettivo di favorire la pace e di coinvolgere i due re nella soluzione dello scisma papale recentemente originatosi dopo la morte di Adriano VI, evitando che si schierassero immediatamente per Alessandro III o Vittore IV. Scrivendo all’arcivescovo Eberardo di Salisburgo, Federico IV lo definì «prudens ac discretus, magneque sanctitatis vir».
Per i colloqui avuti con alcuni abati cistercensi durante la legazione, Pietro maturò tuttavia una sua posizione e non partecipò al concilio convocato da Federico I a Pavia nel febbraio 1160 nella sua diocesi. Si oppose pertanto all’appoggio imperiale a Vittore IV e fu costretto ad allontanarsi dalla sua città, sostituito da Siro, che rimase a Pavia sino ai primi mesi del 1169. Peraltro, nonostante l’esilio i rapporti di Pietro con l’imperatore non si interruppero mai definitivamente. Come ricorda in una lettera Gerhoh di Reichesberg, nell’estate del 1163 Alessandro III lo inviò come legato presso la Curia imperiale, a Norimberga, con il vescovo cistercense, Enrico di Troyes, a un magister Rolando e ai cardinali Ottone di Brescia (di S. Nicola in Carcere Tulliano) e Alberto (di S. Lorenzo in Lucina). Solo i due, Pietro ed Enrico, furono ammessi, o meglio detenti, per due giorni ad amicabilem colloquium, ma la proposta di accomodamento di cui furono poi latori fu respinta da Roma. Una seconda analoga missione (primavera 1164), nella quale fu accompagnato dai cardinali Guglielmo di S. Pietro in Vincoli e Giacinto di S. Maria in Cosmedin, ebbe anch’essa esito negativo: i tre legati, che provenivano dalla Francia, furono respinti a Susa dall’emissario imperiale che non permise loro di accedere alla corte di Federico. Imperatore e vescovo mantennero comunque un rapporto di stima reciproca: dopo la morte di Vittore IV (1164), Federico I convocò Pietro (allora esule a S. Michele alla Chiusa), forse proprio a Pavia. I motivi di questa chiamata, su cui si ha notizia grazie a una lettera che un anonimo nunzio inviò a Thomas Becket, rimasero oscuri.
Nel settembre del 1166 Pietro partecipò probabilmente al capitolo generale cistercense e, insieme a Gilberto, abate di Cîteaux, e ad altri abati dell’Ordine prese parte alla legazione che si lamentò con Thomas Becket, riparato a Pontigny, delle minacce di Enrico II contro le abbazie cistercensi inglesi, e dei rischi per l’Ordine intero a causa dell’asilo a lui concesso in quell’abbazia francese, e che lo sollecitò implicitamente a rifugiarsi presso il re di Francia. Con Becket Pietro rimase in contatto anche in seguito (lettera post febbraio 1167). Tra la fine dello stesso anno e l’inizio del 1168 Pietro tentò, ma ancora una volta invano, una terza legazione presso Federico Barbarossa, grazie alla mediazione del certosino Teodorico di Silve-Bénite familiarissimus del Barbarossa, come narrato da Giovanni di Salisbury.
Il certosino indusse l’imperatore, ingabbiato nell’Italia padana dal blocco dei passi alpini, a convocare Pietro con due religiosi di primo piano come Basilio, priore della Grand Chartreuse e Alessandro, abate di Citeaux (in seguito sostituito da Goffredo di Auxerre, ex abate di Clairvaux) per un ennesimo tentativo di conciliazione con il papa. Ma Federico si accordò con i marchesi di Monferrato e Savoia e – rotto l’accerchiamento – ritenne inutile l’abboccamento.
Pietro rientrò in patria nella primavera del 1169, quando Pavia per convenienza politico-strategica si avvicinò alle posizioni della Lega lombarda, e affiancò il legato papale (il cardinale Guglielmo di S. Pietro in Vincoli) che depose i chierici scismatici che avevano occupato importanti uffici ecclesiastici pavesi. Il 30 marzo, sempre insieme a Guglielmo e al console di giustizia di Pavia, Guido de Gambolate, intervenne nella causa tra la canonica pavese di S. Giovanni Domnarum e il monastero di S. Maurizio in Lomellina. Cinque anni più tardi, nell’autunno del 1174, dovette però probabilmente abbandonare ancora una volta Pavia quando la città passò di nuovo al partito filoimperiale, al ritorno del Barbarossa in Italia; fu sostituito nuovamente dal vescovo Siro, ma la posizione ondivaga e opportunistica della città fu punita da Alessandro III che tolse ai vescovi pavesi l’antica prerogativa di portare il pallio e la croce. Il 1° agosto 1177 Pietro era a Venezia tra i testimoni all’accordo tra il papa e l’imperatore, e nello stesso anno intercedette presso il pontefice a favore del clero scismatico pavese colpito da pesanti interventi disciplinari. Morì il 21 maggio 1180 secondo quanto riportato nel martirologio contenuto nel Liber capituli dell’abbazia di Lucedio (Biblioteca Ambrosiana, Mss., H 230 inf), e fu sepolto probabilmente nella cattedrale di Pavia.
Pietro fu dunque un presule non soltanto attivo nella sua diocesi, ma anche molto conosciuto fuori dal Regnum Italiae; pur schierandosi decisamente con Alessandro III, fu fortemente apprezzato anche dalla parte avversa e svolse un importante ruolo di mediazione tra Papato e Impero in un momento di forte contrapposizione.
Durante il suo episcopato, continuò a sostenere il suo Ordine, come prova la fondazione dell’abbazia di S. Maria della Barona. Nel codice di Lucedio fu trascritto anche il suo epitaffio e registrata una cospicua donazione, destinata ad apparecchiare, in occasione dell’anniversario della sua morte, un pranzo commemorativo a favore della comunità monastica vercellese.
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