PILONE
È il nome che si suol dare all'entrata monumentale dei templi egiziani. Geneticamente esso deriva dalla pratica architettonica che tende a differenziare la porta dal resto della costruzione, e che già in epoca protostorica fa sì che gli stipiti siano in pietra mentre i muri sono in mattoni crudi, o siano in granito quando il resto della costruzione è in calcare.
A partire dalla XVIII dinastia noi troviamo documentata l'abitudine di sottolineare l'ingresso del santuario da una costruzione assai complessa, che consta di due torrioni a pianta rettangolare e assai rastremati verso l'alto, fra i quali è inquadrata la vera e propria porta dell'insieme architettonico, che dà sul cortile. I torrioni sono sormontati da una cornice che aggetta secondo una curva assai accentuata e che è comune, nell'architettura egiziana, a molte altre estremità superiori di muro. Il fatto che il lato più lungo del rettangolo della pianta complessiva del p. sia perpendicolare all'asse del tempio, fa sì che il p. stesso assuma il carattere ed il valore di una facciata, che nasconde dietro di sé l'edificio nel suo insieme. Come parte più immediatamente in vista, esso è anche destinato ad essere decorato in modo assai accentuato. In apposite scanalature della muratura si adattano alti pennoni (uno, due, quattro e fino cinque per parte) in legno di cedro, che superano il margine superiore della costruzione e si completano con stoffe bianche e rosse usate come bandiere. In molti casi (templi dedicati a divinità solari) ai lati della porta sono disposte coppie di obelischi (v.) che ravvivano il complesso architettonico. Un più chiaro valore celebrativo (e potremmo dire propagandistico) hanno le statue regali che spesso son disposte simmetricamente ai lati dell'ingresso e che tendono alle dimensioni colossali (basti ricordare i "colossi di Memnone" che si levavano in origine appunto davanti a un p.) e ancor più i rilievi - in antico policromi - che coprono le pareti anteriori e che celebrano negli esempi più antichi le imprese guerresche, in quelli più tardi la pietà del sovrano. I più antichi esempi in genere offrono una composizione unitaria delle scene, mentre quelli posteriori usano - così come è del resto tendenza generale - spezzare l'unità dello spazio a disposizione in una serie di rappresentazioni minori. La costruzione dei p. sembra che, così come in genere tutte le costruzioni monumentali egiziane, fosse effettuata con l'aiuto di impalcature in mattoni crudi: un esempio ne resterebbe ancora in parte mantenuto dietro il primo p. del tempio di Amon a Karnak. L'interno della costruzione era massiccio, eccetto uno stretto passaggio a scalini, che in alcuni casi (nei templi tolemaici) è anche fornito di camere, e che porta alle sommità delle due torri, ottimi punti di speculazione per scopi astronomici o altri. In genere il pietrame della costruzione è stato collocato assai disordinatamente: e questo ha fatto sì, con il passar dei secoli, che la maggior parte dei p. sia andata in rovina. In taluni casi come materiale di riempimento sono stati usati blocchi provenienti da edifici più antichi distrutti: così un p. di Karnak ha conservato le pietre del "chiosco" di Sesostris I, che si è potuto recentemente ricostruire per intero, o del tempio elevato ad Aton da Amenophis IV. Le dimensioni dei p. mantenutisi fino ad oggi sono naturalmente assai diverse, in quanto sono in funzione della mole dei rispettivi templi. Il maggiore che si conosca, a Karnak, misura m 113 di lunghezza per 15 di spessore e, benché incompiuto, raggiunge i m 43,50 di altezza. Nell'economia del tempio classico egiziano, il p. è l'elemento più chiaramente impegnato a giustificare la costruzione davanti a uno spettatore esterno: la pianta bene articolata del complesso non mostra, al di fuori, la sua ricchezza, e il tempio figura come un quadrilatero in muratura, senza finestre, che solo attraverso l'impennarsi dei torrioni dell'entrata assume un carattere dinamico e interessante. Per questo naturalmente il p. manca là dove altri accorgimenti ravvivano la facciata del tempio (così ad esempio Denderah, v.).
Bibl.: G. Jéquier, Manuel d'archéologie égyptienne, Parigi 1924, p. 65.