PINAKES (πίναξ, πινάκιον; tabula, tabella)
La parola pìnax significa originariamente qualunque elemento piano (Od., xii, 67), ma in particolare una tavoletta per scriverci (Il., vi, 169; Aysch., Suppl., 946; Aristoph., Thesmophor., 778; Plat., Kritias, 120, c). Il significato di tavoletta per dipingere e quindi di pittura, viene da questa via, ed anche dal fatto che p. è chiamato ad indicare le tavolette votive, spesso ignote, che si appendevano all' immagine della divinità, sulle pareti dei santuarî o degli alberi sacri (Aysch., Suppl., 463; Aristot., Pol., 1341, e, 36; I. G., iv2, i, 121, 1.24, ad Epidauro, nel IV sec.; Strab., viii, 6, 15). L'esempio più cospicuo di questo genere di ex voto è dato dai rilievi di terracotta di Locri Epizefiri (v.), dei primi decennî del V sec. a. C. che peraltro rappresentano l'imitazione di quadretti di lamina sbalzata (πίνακεσ χαλκοί, I. G., ii, 5). Ma dei veri e propri quadri dipinti su legno sono noti fin dalla metà del VI sec. a. C. nei preziosi esemplari di Pitsà (v.). P. nel senso di quadro è documentato infatti già in Simonide (178) e Anassandro (33, 2); se più tardi si sente talvolta l'esigenza di una specificazione: πίνακεσ, οἱ γραϕώμενοι (Theophr., h. p. 5, 7, 4); ἔχοντασ γραϕάς (Inscriptions de Délos, 1470, I. ii), è perché la parola conservava la sua più ampia accezione di tavola per liste, decreti, indici, ecc.
Il più antico esempio di decorazione eseguita a mezzo di tavole dipinte, per una grande composizione, è quello di Polignoto da Taso alla Stoà Poikite di Atene e forse anche nella Lesche dei Cnidi a Delfi. La notizia di Sinesio (Epist., 135) che l'Ilionpèrsis di Polignoto, dipinta su tavole, σανίδες, era stata asportata al suo tempo, e la fortunata scoperta di elementi pertinenti con ogni probabilità alla Stoà Poikìle (E. Thompson, in Hesperia, xix, 1950, p. 327 ss.), tra i quali sono blocchi con una faccia non levigata e chiodi di bronzo, persuadono definitivamente che tale fosse la natura delle pitture ateniesi di Polignoto. Una maggiore incertezza resta per la Nèkyia, che poteva anche essere condotta direttamente sull'intonaco che doveva rivestire le pareti a mattoni crudi della Lesche. Tuttavia è interessante ricordare che un più arcaico precedente di questo genere di edifici, la Lesche di Taso (v. taso), presso il tempio di Eracle ha, sulla faccia superiore della cornice che limita gli ortostati, una lavorazione a martellina (come i blocchi della Stoà Poikìle) adatta ad accogliere la base di un traliccio di legno. È il sistema documentato fin nell'età ellenistica, con le evidenti tracce di telai nelle pareti del tempio di Atena a Lindo. Grandi pitture su tela e legno dovevano essere quelle di Agatharchos per il teatro di Eschilo, eseguite però in un'età successiva a quella in cui visse il grande tragico. È infatti nell'età di Pericle che si afferma definitivamente l'uso di dipingere su tavole forse con Apollodoros, che potrebbe aver decorato in questo modo la casa di Alcibiade. La produzione di Zeusi è tutta di quadri, tranne forse i cicli decorativi di Archelaos di Macedonia (413-399).
Nei Propilei di Mnesikles (v. atene) è il più antico esempio di un ambiente espressamente' destinato a conservare quadri; l'ala N, detta da Pausania οἴκημα ἔχον γραϕός (i, 22, 6-7) aveva assicurato una eccezionale illuminazione attraverso le due finestre meridionali, mentre la cornice continua in pietra di Eleusi, ricorda il limite inferiore della parte decorata com'era nella Lesche di Taso ed in quella di Delfi. Incerto resta pertanto anche qui se vi fosse nella parte superiore dell'ambiente una pittura su intonaco piuttosto che su tavole; ma che l'edificio fosse adibito a vera e propria pinacoteca è confermato dalla descrizione di Pausania che parla di quadri di diversi pittori, tra i quali nomina Polignoto e Timainetos; altre opere potrebbero essere di Parrasio.
Accanto alla produzione di maggiore impegno, si praticava nel V sec. a. C. anche una pittura per così dire minore, come quella dei modesti ex voto, che come nella tradizione arcaica, certamente, non erano solo in terracotta (Aristot., Polit., viii, 6, 1341 a), e soprattutto una serie di "divertimenti" dei più grandi pittori, forse di soggetto licenzioso come le libidines attribuite a Parrasio e a Timanthes ma anche mitologico, come il Ciclope dello stesso Timanthes (minoribus tabellis, Plin., Nat. hist., xxxv, 72; parvola tabella, xxxv, 74). Con criterio puramente didattico il disegno su tavolette di legno fu introdotto da Pamphilos nella scuola di Sicione (graphicen, hoc est pictura in buxo, xxxv, 77; v. petronio); qualcosa del genere erano i rudimenta di Protogene, forse opere giovanili, o schizzi preparatori per lavori di grandi dimensioni, che si conservavano, o almeno ce n'era la fama, ancora in età romana, come già per i disegni di Parrasio (Plin., Nat. hist., xxxv, 68).
Di Apelle e Protogene è naturalmente celebrata soprattutto la produzione di grandi quadri per committenti regali, come lo stesso Alessandro, o anche per delle città, come Coo, che conservava l'Anadiomène. Si intrecciano delle vere e proprie storie attorno alle tavole di questi pittori, si ha notizia della traslazione a Roma e di restauri eseguiti in età imperiale, più o meno felici. Sono appunto le vicende dei quadri più celebri del IV sec. a. C. ad ispirare a Plinio il suo singolare giudizio che la pittura era stata viva solo fintanto che si dipingevano tavole, perché queste, contese tra le diverse città e pagate a caro prezzo dai sovrani, rendevano celebri i loro autori (nulla gloria artificum est nisi qui tabulas pinxere, xxxv, 118). È probabile che veramente nel IV sec. fosse venuto meno l'uso di pitture monumentali sugli intonaci; il solo caso di un pittore che dipinse sui muri, è quello di Pausias, a Tespie (parietes penicillo, Plin., Nat. hist., xxxv, 123), ma si trattava del restauro di antiche opere di Polygnotos. La pittura di Apelle e Protogene, si caratterizza soprattutto come pittura di cavalletto, ed è a proposito di questi pittori che per la prima volta viene anche ricordato il caratteristico apparecchio per sostenere il quadro durante la lavorazione nello studio: in machina aptatam della tavola su cui si sarebbero esercitati in gara a chi facesse la linea più sottile, Apelle e Protogene, nell'atelier di quest'ultimo. Ciò naturalmente senza escludere che ben prima si usasse il cavalletto, come farebbe intuire già la vivace immagine che è in Euripide, del pittore che fa qualche passo, indietro per giudicare degli effetti del quadro (Eurip., Hec., 807). È comunque nel IV sec. che si diffonde con la massima larghezza il quadro da cavalletto, e si comincia anche a studiare una certa varietà di disposizione delle tavole per puro scopo decorativo; di Pausias, uno dei più versatili pittori dell'età di Alessandro, autore di quadri grandi e piccoli (granaes tabulas, Nat. hist., xxxv, 126; tabellas, xxxv, 124), si ricordava l'invenzione di inserire tavolette dipinte nei cassettoni dei soffitti (xxxv, 124; cfr. i cosiddetti πίνακεσ ὁροϕικοί, Inscriptions de Délos, iii, 1414, A, ii, 1.14). E forse il costituirsi di una tradizione, per così dire, laica del quadro come oggetto di ornamento, non più votivo, dunque, e neppure celebrativo, uno degli aspetti più durevoli della pittura greca del IV sec., e anche dei più criticati dagli scrittori antichi di cose d'arte. Già alla fine del IV sec. la fama di Antiphilos d'Alessandria pare velata dalla notizia della sua produzione di grylloi piccole scene caricaturali; più tardi, le opere di Kalathes, derivate dalla Commedia Nuova (Plin., Nat. hist., xxx, 114), di Kallikles (Varro, Charis, Inst. gr., p. 126, K) quaternum digitum tabellis, o di Peiraikos (Plin., Nat. hist., xxxv, 112) sono compresi dalle fonti in una sola, modesta categoria, quasi di pittura minore, per il contenuto, o il formato, dei loro quadri. Accade cioè che la produzione di maggiore impegno, megalographia (v.), e le più varie serie di quadri e quadretti, non siano più il frutto dell'attività di un singolo pittore, ma, almeno agli occhi degli antichi scrittori di cose d'arte si avrebbe, da parte di molti pittori, il completo abbandono della vera arte; è forse il concetto adombrato nel contrasto tra magna ars e compendiaria in Petronio, e certamente codificato nel termine plimano di ryparographìa. In realtà non manca anche per il III sec. a. C., soprattutto tra gli ultimi epigoni della scuola di Sicione, e perfino nel rivoluzionario ambiente alessandrino, la testimonianza della continuità della megalografia: si ricorda infatti la pittura di Timanthes Il con la vittoria di Arato (241-40 a. C.) sugli Etoli, e quella di Nealkes con la vittoria degli Egiziani sui Persiani, che erano certo grandi composizioni, nella tradizione dei quadri di battaglia del V e IV sec.; così alla scuola pergamena si può attribuire un ciclo di pitture ad Atene, con battaglie di Galati (Dittenberger, Inscr. Syll., 3, n. 401). Ma per il Il e il I sec. a. C., a prescindere da qualche sporadica notizia delle fonti, come quella delle grandi tavole di Serapion nel Foro Romano, pare che la produzione pittorica si esaurisse nei pìnakes con valore ornamentale, viva attività pittorica presso i santuarî, per la fornitura di ex voto. Una singolare rispondenza si scopre a questo punto tra le notizie epigrafiche dei pînakes raccolti nei santuarî, e l'evidenza fornita dalle pitture parietali pompeiane sulla collocazione dei quadri in funzione decorativa. Indicativa è anche l'identità del nome, pinacotheca, usato per definire tanto un santuario ricco di quadri (Strab., xiv, i, 4) quanto una parte della casa romana destinata alla raccolta di pitture (Vitruv., i, 2, 7; vi, 5, 2; vi, 7, 3), ma soprattutto colpisce che molti dei soggetti dei pìnakes riprodotti ad affresco nelle case romane siano religiosi e chiaramente votivi: scene di sacrificio, apparizioni di divinità, ecc., e che d'altra parte la tipologia anche esteriore dei quadri votivi descritti nei templi, e la loro disposizione, corrisponda compiutamente alle finzioni illusionistiche della pittura pompeiana. Gli inventarî redatti dagli Ateniesi a Delo, a partire dal 166 a. C., parlano infatti di pìnakes con sportelli, a due o quattro ante, di quadri protetti da un velo, di tavolette posate su basi, o direttamente al muro; di quadretti appesi alle colonne o sospesi al soffitto, di veri e proprî cassettoni dipinti, ecc. oltre a cicli di tavole disposti nella parte alta dei muri ed emblemata incassati negli intonaci (Inscriptions de Délos, iii, passim). Tutto ciò corrisponde esattamente alla tipologia dei pìnakes riprodotti nelle pitture di Il e IV stile, soprattutto, tanto da far pensare che nella creazione di queste fittizie pinacoteche, non fosse estranea la suggestione dei grandi santuarî ellenistici. Il tipo di decorazione con quadri appesi tra cortine, come è conosciuto dalla descrizione della tenda di Tolomeo Filadelfo (Athen., vi, 196 ss.) sembra piuttosto aver ispirato il cosiddetto III stile, in cui il rapporto quadromuro sembra sottintendere un più vivo senso della funzionalità di quest'ultimo come parete chiusa. Dei veri e proprî pìnakes, nel senso che questo termine assunse nell'architettura del teatro antico, sono anche i grandi quadri scenografici della Villa di Boscoreale (v.); così erano chiamati nelle iscrizioni ellenistiche (I. G., vii, 423 a, 3209; ecc.), le tavole dipinte inserite tra le colonne del proscenio, alternate alle porte.
Bibl.: W. Helbig, Untersuchungen über die Campanische Wandmalerei, Lipsia 1873, p. 136 ss.; A. Mau, Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeji, Berlino 1882, p. 165; M. Bieber-G. Rodenwaldt, in Jahrbuch, XXVI, 1911, p. 12 ss.; R. Vallois, Le pìnakes déliens, in Mélanges Holleaux, Parigi 1913, p. 289 ss.; F. Studniczka, in Abhandl. d. Sächs. Gesellsch. d. Wissensch., XXX, 2, 1914, p. 53; E. Pfuhl, Malerei und Zeichnung der Griechen, Monaco 1923, p. 613 ss.; V. Spinazzola, Le arti decorative in Pompei e nel Museo Nazionale di Napoli, Milano 1928, tavv. 94, 101, 117, ecc.; H. G. Beyen, Die Pompeianische Wanddekoration, I, L'Aia 1928, II, 1960; A. W. van Buren, Pinacothecae, in Memoirs of the American Academy in Rome, XV, 1938, p. 70 ss.; K. Schefold, Pompejianische Malerei, Basilea 1952, p. 32 ss.; V. Spinazzola, Pompei alla luce degli scavi nuovi di Via dell'Abbondanza, Roma 1953, p. 387 ss.; W. Ehlich, Bild und Rahmen im Altertum, Lipsia 1954; A. W. van Buren, in Pauly-Wissowa, Suppl. VIII, 1956, c. 500 ss., s. v. Pinacotheca.