PIO IV papa
Giovanni Angelo Medici, nato a Milano il 31 marzo 1499, aveva veduto rovinare per la conquista francese la fortuna della sua famiglia patrizia (1515); aveva tuttavia potuto studiare a Pavia e ottenere a Bologna la laurea in diritto (1525). Dal fratello, il turbolento Gian Giacomo, futuro marchese di Marignano, era stato inviato a Roma (1526); già protonotario apostolico, l'aveva seguito come cancelliere nelle imprese temerarie. Da Paolo III aveva ottenuto amministrazione e governo di città dello stato papale e ufficio di commissario negli eserciti inviati nell'Ungheria contro i Turchi (1542-43); poi, salita ancora la fortuna del fratello per le nozze con una cognata di Pierluigi Farnese, era stato nominato arcivescovo di Ragusa (1545), commissario nell'esercito papale contro la Lega smalcaldica, vicelegato di Bologna (1547) e di Perugia (1548), cardinale (1549). In questi diversi uffici, il Medici aveva acquistato grande esperienza ed era già tenuto per uomo "di gran governo" e apprezzato per mitezza d'animo, generosità, cultura di lettere e diritto canonico.
Caro a Giulio III, era stato legato di lui nella guerra di Parma (1551), vescovo di Cassano (1553) e di Foligno (1556), prefetto della Segnatura; e, sebbene non immune da macchie morali, delle quali non è certo fosse in tutto puro nemmeno quando fu salito a più alto ufficio, aveva avuto con altri l'incarico di studî per la la riforma della Chiesa. Da Paolo IV, al cui disegno di guerra contro la Spagna s'era opposto risolutamente, era stato giudicato uomo leggiero e tenuto in disparte, quantunque fosse incluso (1556) nel tribunale dell'Inquisizione. Alla morte di Paolo IV, stabilitosi, dopo un conclave lungo e tempestoso, un accordo tra la fazione spagnola e la francese, il Medici, ch'era fortemente appoggiato da Cosimo duca di Firenze e che, pure tenendo per la Spagna, era riuscito a conservare amichevoli relazioni con la Francia, fu eletto pontefice (26 dicembre 1559).
L'arresto dei cardinali Carlo e Alfonso Carafa e del duca di Paliano, nipoti di Paolo IV, e dei loro complici (7 giugno 1560), il lungo processo contro di loro innanzi a giudici appassionati, per delitti politici e comuni, veri e non veri, la condanna a morte di Carlo e del duca e il loro supplizio (5-6 marzo 1561), parvero a molti, giustamente, vendetta dei nemici di Paolo IV, piuttosto che atto di giustizia, fosse pure severa; ma erano insieme sconfessione della politica bellicosa e del grande nepotismo del papa Carafa.
Di quello che fu detto piccolo nepotismo, era però macchiato lo stesso P., che volle per i suoi i beni dei Carafa, fu largo con loro di uffici e di ricchezze, procurò matrimonî vantaggiosi. Gian Antonio Serbelloni, congiunto con lui per parte della madre, e Marco Sittich di Hohenems (Altemps), nipote, furono cardinali (31 gennaio 1560 e 26 febbraio 1561); il secondo, affatto immeritevole, fu uno dei legati al concilio di Trento (1561-63), più tardi legato d'Avignone e della marca d'Ancona. Ma soprattutto il favore del papa andò ai nipoti Borromeo: Federigo fu capitano generale della Chiesa (1561); creato da Filippo II marchese d'Oria, ebbe speranza del ducato di Camerino, forse di più alta dignità, finché la morte interruppe i disegni ambiziosi (1562); Carlo fu cardinale a ventun anno (31 gennaio 1560), arcivescovo di Milano, legato di Bologna, provveduto di benefizî d'ogni maniera, fatto "secretario intimo" del papa con pienezza di poteri su tutti gli affari ecclesiastici (marzo 1560). Per fortuna di P. e della Chiesa, questo primo "cardinale nipote" fu uno dei campioni più insigni della riforma cattolica (v. carlo borromeo, san).
Del resto, il pontificato di Pio IV fu esempio di moderazione, d'indipendenza, di sagacia. Fin dall'inizio, il pontefice temperò la severità dell'Inquisizione, riconobbe imperatore Ferdinando di Austria, ristabilì o creò nunziature, nominò una commissione per la riforma dei tribunali pontifici e del conclave. Si rivolse poi, secondo l'obbligo che gli era fatto dalla capitolazione del conclave a condurre a termine il concilio ecumenico, sospeso già dal 1552. Dopo lunghe e difficili trattative con la Spagna, che voleva continuata l'opera del Concilio tridentino, e la Francia e l'Impero che, per riguardo ai protestanti, volevano una convocazione nuova per distruggere gli effetti dell'antica, indisse a Trento il concilio (bolla Ad Ecclesiae regimen, 29 novembre 1560), senza pronunciarsi esplicitamente sulla questione spinosa della validità dei precedenti decreti; e tentò, sebbene vanamente, di ottenere l'adesione al concilio anche dei principi protestanti. Dovette superare ancora infinite difficoltà prima che il concilio si aprisse, il 18 gennaio 1562, presenti i legati del pontefice, il capo dei quali, Ercole Gonzaga, fu presidente dell'alta assemblea; alla sua morte (2 marzo 1563) fu sostituito dal cardinale Giovanni Morone, diplomatico abilissimo, intimo amico e uomo di fiducia del papa. Ma, ancor più che per mezzo dei legati, il pontefice stesso dirigeva da Roma, con le istruzioni inviate dal Borromeo, i lavori del concilio; e, spiegando insieme energia, temperanza e disinvolta accortezza, facendo dipendere dall'adesione di Ferdinando alla conclusione del concilio la conferma di Massimiliano II a imperatore, riuscì a condurlo a termine (4 dicembre 1563), ne approvò i decreti (dichiarazione del 26 gennaio 1564, espressa poi nella bolla Benedictus Deus), ordinò di questi l'edizione ufficiale (marzo 1564).
Si volse allora a eseguire e a compiere l'opera del concilio. Impose (13 novembre 1564) a tutti i vescovi, i curati, i superiori di ordini religiosi, i dottori di università e di collegi la Professio fidei Tridentinae, condanna delle eresie, riconoscimento dell'autorità del pontefice e della Chiesa romana, rimasta immutata fino al 1877. Lreò la Congregazione del concilio per applicare e interpretare i decreti conciliari; pubblicò (24 marzo 1564) norme nuove e più temperate quanto all'Indice e un catalogo più ristretto dei libri proibiti. Provvide alla compilazione del Catechismo romano, curandone anche la veste letteraria, che fu affidata all'umanista G. Pogiani, ma non arrivò a vederne la stampa (1566); fece preparare la riforma del breviario e del messale; iniziò la revisione tlella Volgata; favorì la riforma della musica ecclesiastica, approvando l'opera del Palestrina.
Per la riforma della Chiesa egli aveva, già dal 9 ottobre 1562, pubblicato una bolla sull'ordinamento del conclave; restrinse poi le spese sue e del nipote, impose limitazioni ai cardinali, tolse abusi, soprattutto insistette sull'obbligo della residenza dei beneficiati: la corte romana apparve, sotto l'azione di lui e del Borromeo, trasformata profondamente. Per l'educazione del clero futuro il papa ordinò, secondo un decreto tridentino, la fondazione di un Seminario romano, affidandone la direzione ai gesuiti, dei quali favorì i collegi romano e germanico, mentre il suo vicario faceva esaminare da loro gli aspiranti all'ordinazione e ai benefici e visitare le chiese di Roma. Migliorò, per i decreti di lui, per l'esempio del Borromeo, per l'ardente predicazione di gesuiti e di oratoriani, il costume dd clero e dei laici.
All'accoglimento dei decreti tridentini da parte delle potenze, P. si adoperò con grande attività. Non trovò difficoltà gravi quanto alle deliberazioni dogmatiche; incontrò invece forti opposizioni quanto ai decreti disciplinari, dai quali le potenze temevano violazione dei diritti dello stato. Ottenne subito l'adesione degli stati italiani, pur con qualche restrizione da parte di Venezia, quella del Portogallo e della Polonia, e con molto ritardo quella degli Svizzeri; ma dovette contentarsi che Filippo II di Spagna accettasse i decreti con la riserva che non ne avessero pregiudizio i diritti regi. Nella Francia, di fronte alla diffusione del calvinismo e al tentennare della corte, aveva cercato dapprima, con una prudente azione diplomatica, di guadagnare la reggente e i personaggi più autorevoli e d'impedire la minacciata convocazione di un concilio nazionale; scoppiata la guerra contro gli ugonotti, aveva dato aiuto al governo e iniziato procedimento contro i vescovi sospetti di calvinismo; ma né poté condurre questo al suo termine, né riuscì mai ad ottenere che fossero pubblicati i decreti di Trento. Alla Germania, all'Ungheria, alla Boemia dovette concedere, pur con molte riserve, la comunione dei laici sotto ambedue le specie (16 aprile 1564); e per non guastarsi in tutto con l'imperatore, differì fino al termine del suo pontificato una risposta decisiva alla pretesa di questo che fosse limitata la legge sul celibato dei preti. Quanto all'Inghilterra, già separata da Roma, non si poteva pensare all'accoglimento dei decreti del concilio; ma Pio IV non perdette mai, nonostante l'aspra persecuzione contro i cattolici, la speranza di un ritorno di Elisabetta alla fede romana, né volle perciò colpirla mai di scomunica.
La persuasione che giovasse contro gli eretici più la mitezza che il rigore fece Pio IV non troppo favorevole ai procedimenti severi dell'Inquisizione romana, della quale tuttavia estese l'autorità, regolò la procedura, appoggiò lo sforzo per mantenere l'unità della fede. Anche meno fu amico all'Inquisizione spagnola; non le volle abbandonare l'arcivescovo di Toledo B. Carranza, non ne consentì l'introduzione nel milanese, e di fronte alla pretesa di Filippo II, di dominare sulla Chiesa, pure cedendo per la mitezza dell'animo e la scarsità delle forze fino all'estremo, affermò tuttavia che, se il re voleva essere re, egli voleva essere papa.
Pio IV non trascurò l'amministrazione dello stato papale, quantunque non ne sapesse reprimere gli abusi e con gl'inasprimenti fiscali desse occasione al malcontento del popolo e fino a una congiura contro la stessa sua vita. Fu generoso con i letterati e i dotti; vide stabilita nel suo palazzo da S. Carlo Borromeo l'Accademia Vaticana, nelle cui Noctes si discorreva di lettere, di filosofia, di teologia; rialzò l'università di Roma, riformò quella di Bologna, ne fondò una nuova ad Ancona, chiamò a Roma per la stampa degli scrittori ecclesiastici Paolo Manuzio. Fece eseguire importanti lavori nel Vaticano, fra i quali la facciata occidentale e il nicchione del Belvedere (1561-65) e la loggia della Cosmografia; eresse nei giardini il Casino, che ne ha tuttora il nome, originale creazione di Pirro Ligorio; diede valido impulso alla michelangiolesca fabbrica di S. Pietro. A Roma fece eseguire le nuove fortificazioni di Castel S. Angelo, ampliò col Borgo Pio la Città Leonina e vi aprì Porta Angelica, rifabbricò Porta del Popolo, eresse su disegno di Michelangelo Porta Pia; costruì la strada, che conduce da questa al Quirinale e la Flaminia sino a Ponte Milvio, sulla quale sorgeva il suo nuovo palazzo; fece trasformare dal Buonarroti il tepidarium delle Terme di Diocleziano nella chiesa di Santa Maria degli Angeli. E molti altri lavori e restauri compì in Roma e nelle città dello stato papale, soprattutto in Bologna, dove sono del tempo suo il palazzo dell'università e la piazza del Nettuno. Così il pontificato di quest'uomo savio ed equilibrato ebbe nella storia dell'arte importanza non molto minore di quella assai grande che ebbe nella storia della riformaa cattolica.
P. morì il 9 dicembre 1565; la salma riposa in una tomba di gusto michelangiolesco nella sua chiesa di S. Maria degli Angeli.
Bibl.: L. Pastor, Storia dei papi, VI e VII, Roma 1922-23 e opere ivi citate; inoltre, G. Constant, La légation du cardinal Morone, Parigi 1922; P. Richard, Concile de Trente, in Hefele-Hergenröther-Leclercq, Histoire des conciles, IX, Parigi 1930-31; G. Constant, in Dict. de théol. cathol., XII (1934), col. 1633 segg., con ricca bibliografia.