Pio IV
Nacque Giovan Angelo Medici a Milano, in Porta Nuova parrocchia di S. Martino in Nosiggia, il 31 marzo 1499, da Bernardino e Cecilia Serbelloni. L'antica famiglia milanese dei Medici, compresa nella Matricula nobilium del 1377, era divisa in più rami: nel XIV e XV secolo quello dei Medici "de Nuxigia" annoverava tra i suoi membri diversi giuristi e notai. Non esistono indizi di un legame con la casata fiorentina, anche se Clemente VII prima e Cosimo I poi, per riconoscimento verso i servigi militari resi da Gian Giacomo (fratello maggiore di Giovan Angelo), detto il Medeghino, ovvero per assicurarsi i favori del futuro pontefice, allusero in più d'una circostanza a rapporti di parentela coi Medici milanesi, fino a concedere loro, probabilmente con la nomina a cardinale di Giovan Angelo nel 1549, l'uso del proprio stemma, le sei palle in campo d'oro. Il padre Bernardino, notaio, membro del Consiglio dei Dodici di Provvisione e appaltatore ducale sotto Francesco Sforza, subì le conseguenze della vittoria francese di Marignano (oggi Melegnano, 1515): finito in carcere, ottenne la libertà per intercessione dell'amico Girolamo Morone, ma morì di lì a pochi anni nel 1519. Uomo d'armi, Gian Giacomo affrontò quella difficile congiuntura con spregiudicatezza, guadagnandosi da subito la fiducia del cancelliere e dello Sforza, che lo riconobbe nel 1524 castellano di Musso (nell'alto lago di Como): il Medeghino vi aveva trovato rifugio dopo essere fuggito da Milano per un omicidio politico commesso per conto dello stesso Morone, e di lì aveva intrapreso un'intensa attività antigrigionese. Gli avvenimenti di quei decenni dovettero esporre l'intera famiglia a mutevoli fortune, sia politiche sia economiche, che non impedirono tuttavia a Giovan Angelo, protetto da Morone e favorito dalla rapida ascesa del fratello, di continuare a Pavia gli studi giuridici, che portò poi a termine nell'Ateneo di Bologna l'11 maggio 1525, laureandosi dottore in diritto civile e canonico. In quello stesso anno fece ritorno a Milano, dove fu cooptato nel Collegio dei giureconsulti e iniziò a esercitare la professione forense. Caduto in disgrazia Morone per la celebre congiura ed entrato il Medeghino, anch'esso probabilmente coinvolto nei fatti dell'ottobre 1525, al servizio della Lega di Cognac, Giovan Angelo Medici si portò l'anno seguente a Roma, inviatovi dal fratello per dirimere gli attriti insorti col comandante supremo della Lega, il duca di Urbino, e svolgere attività diplomatica antispagnola. Nella Roma di Clemente VII iniziò la sua carriera curiale come protonotario apostolico, coltivando l'amicizia di Giovanni Morone e iniziando a frequentare il cardinale Alessandro Farnese, futuro Paolo III. Seguiva intanto le complesse vicende del fratello, offrendogli costantemente il proprio aiuto e sapendo intercedere per lui presso il pontefice e gli altri principi italiani. I percorsi di Giovan Angelo e Gian Giacomo, tra loro così intrecciati, sono esemplari dei mutamenti sociali e politici che intervennero nello Stato di Milano nei decenni centrali del Cinquecento, dopo la definitiva conquista spagnola e l'affermazione del patriziato cittadino (e in particolare delle sue istituzioni più rappresentative, il Collegio dei giureconsulti e il Senato). Proprio Gian Giacomo e Giovan Angelo, l'uno condottiero, l'altro dottore "in utroque iure" e membro di quel Collegio che avrebbe beneficiato di ampie prerogative una volta salito al soglio pontificio, bene rappresentano le opzioni ancora possibili nei decenni iniziali del secolo e le scelte invece obbligate degli anni Cinquanta e Sessanta per legittimare la propria posizione sociale. Alle antiche condizioni di sangue e all'esercizio di un potere signorile autonomo, perseguiti attraverso il servizio delle armi e legami matrimoniali con le grandi famiglie feudali uscite indenni dalla bufera del primo Cinquecento - le sorelle Margherita e Clara sposarono rispettivamente Giberto Borromeo, conte d'Arona, e Wolfang Dietrich Altemps, alleato di Ferdinando d'Asburgo - occorreva infatti ora affiancare il nuovo status di patrizio, condizione essenziale per l'esercizio dei privilegi politici cittadini. Nella instabile situazione italiana di quei decenni, Gian Giacomo, coadiuvato con sollecitudine dal fratello, perseguì invano il progetto di una Signoria indipendente nel nord della Lombardia. Giovan Angelo stesso, che aveva ottenuto dal papa l'arcipretura di Mazzo, presso Tirano, sarebbe potuto diventare nel 1528 il fulcro di un piano di conquista territoriale in area valtellinese, solo che avesse conseguito, come sperava il fratello, la nomina al vescovado di Coira. Ma il progetto, forse legato alla congiura antigrigionese dell'abate Teodoro Schleger, fallì. Dopo gli accordi di Bologna fu giocoforza per Gian Giacomo accettare il proprio ruolo di semplice vassallo - ma non senza aver prima sostenuto un conflitto armato contro lo Sforza - e porsi definitivamente al servizio dell'imperatore e del suo maggiore alleato italiano, Cosimo I de' Medici. Suggello alla sua nuova collocazione politica doveva essere nel 1550 l'ingresso nel Senato milanese, l'istituzione che non aveva voluto interinare la sua investitura a marchese di Musso e a conte di Lecco voluta nel 1528 dagli Spagnoli. Riacquistato nel 1530 Francesco II Sforza il pieno controllo del Ducato milanese, fu Giovan Angelo a fungere da mediatore nella vertenza apertasi allora tra il duca e i fratelli (Gian Giacomo, Agosto e Gian Battista), pronti a tutto pur di non cedere i propri domini, come aveva loro imposto lo stesso Carlo V. Propose allo Sforza un incontro per dirimere la questione, ricordandogli quanto fosse nel suo interesse avere il fratello "a suo servitio" e avvertendolo che Gian Giacomo sarebbe stato comunque in grado di difendersi da qualsiasi assedio, nonostante il "gran foco" che aveva alle spalle di dodicimila tra Svizzeri e Grigioni. E si rivolse in quella circostanza, forte anche dell'appoggio di una parte della Curia papale, al vescovo di Vercelli, lamentando come le manovre dello Sforza finissero per favorire i comuni nemici luterani. Falliti i tentativi diplomatici, si passò al conflitto armato, ma le gravi perdite dall'una e dall'altra parte spinsero infine i contendenti a trovare un accordo, che fu favorito dalla mediazione dell'imperatore. Esso prevedeva la restituzione delle rocche di Musso e di Lecco in cambio di un compenso di 35.000 scudi d'oro e di una Signoria, il Marchesato di Marignano (21 febbraio 1532): fu stipulato a Milano da Agostino Ferrero, vescovo di Vercelli, dal protonotario Marino Caracciolo, inviato cesareo, e, nella veste di plenipotenziario del fratello, da Giovan Angelo Medici, che lo Sforza trattenne allora come ostaggio per essere certo del rispetto di quanto pattuito da parte del Medeghino. Tornato a Roma, Medici fece le prime esperienze nell'amministrazione temporale dello Stato pontificio come governatore d'Ascoli Piceno, dove Paolo III lo inviò nel 1534, Città di Castello (1535), Parma (resse quest'ultima per ben quattro volte tra il 1536 e il 1541) e Fano (1539): era l'avvio di una carriera che lo avrebbe visto passare "con varii successi per tutte le cariche dello Stato ecclesiastico e della Chiesa, percioché non restò per così dire città nobile che non fosse da lui governata" (B.A.V., Ottob. lat. 2690, Relatione delli due pontificati, c. 20v). Mentre si trovava a Parma, dovette intervenire nuovamente a difesa dei fratelli, entrati in conflitto questa volta con Alfonso d'Ávalos, marchese di Pescara e del Vasto, e incarcerati nel castello di Milano (1536). A Margherita Paleologa e a Federico II duca di Mantova, che beneficiavano da tempo dei loro servizi - "Vostra Excellenza gli ha sempre amati, ché in vero l'hebbero sempre per padrona" (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 1376, c. 352, lettera del 14 gennaio 1537) -, Giovan Angelo aveva chiesto di intervenire presso l'imperatore, l'Ávalos e la sua consorte, pregandoli di voler "prender in protettion le cose del marchese di Melegnano e del signor Baptista miei fratelli" (ibid.), incarcerati, secondo quanto egli stesso assicurava, ingiustamente, con la falsa accusa di tradimento per aver intrattenuto rapporti con i Francesi. Fu l'occasione per rafforzare un legame che doveva chiamare a sua volta il protonotario e governatore di Parma - nelle lettere con cui ringraziava il duca per il suo interessamento ribadiva i propri obblighi: "gliene resteremo tutti schiavi in perpetuo" (ibid.) - a comportamenti di riguardo verso la casata gonzaghesca nelle occasioni, che non mancarono di presentarsi, causa di conflitti lungo il confine tra la Legazia parmense e il dominio mantovano (contrabbando di grani, azioni delittuose e omicidi da parte di sudditi delle due parti, questioni giurisdizionali). Richiesto anche l'intervento del governatore Caracciolo e di esponenti della Curia papale, Giovan Angelo ottenne infine la liberazione dei propri fratelli da Carlo V nell'estate del 1538. Nel 1542 assunse la carica di commissario delle truppe pontificie inviate in Ungheria e Polonia contro Turchi e luterani, nella stessa missione a cui partecipò il marchese di Marignano, nel frattempo completamente riabilitato da Carlo V. Nel novembre dello stesso anno, veniva nominato da Paolo III commendatario perpetuo del priorato di S. Gemolo di Ganna, la cui presa di possesso avvenne da parte del nipote Gian Battista Serbelloni. Attraverso concessioni enfiteutiche e successive alienazioni, parte dei beni dell'abbazia benedettina situati a Frascarolo, in provincia di Varese, già dati in amministrazione al fratello Gian Giacomo, pervennero per successivi passaggi ereditari allo stesso Giovan Angelo, diventando a tutti gli effetti proprietà della famiglia: a Frascarolo venne così eretta la residenza estiva dei Medici milanesi, dove il futuro cardinale trascorse alcuni periodi della sua vita ospitando i nipoti Carlo e Federico Borromeo. La commenda fu invece annessa nel 1556, dopo la rinuncia da parte di Giovan Angelo, all'Ospedale Maggiore di Milano. Di nuovo a Roma nel 1543, fu incaricato da Paolo III di una missione diplomatica a Busseto, per risolvere una vertenza sui confini che opponeva il duca di Ferrara e il governo della Legazione bolognese. E proprio da Bologna, il 18 luglio comunicava al cardinal Ercole Gonzaga, reggente del Ducato di Mantova, la nuova imminente partenza "alla volta di Ungaria, con li fanti 4000 destinati per Sua Santità a quella impresa", secondo "la medesima via et loggiamenti dell'anno passato": perciò chiedeva a Ercole di "mandarne huomini in contra, et farne procceder di vittovaglia, ponti et cosse necessarie su la iurisdittione sua, che non si mancarà de pagamenti honesti et d'ogni rispetto a' suoi huomini, robbe et luoghi, sì come io particolarmente, che gli son servitore, sono debitore di fare" (ibid., 1157, c. 87). Rientrato in Italia, nel 1544 venne destinato al governo di Ancona e nominato referendario apostolico. Suo fratello, intanto, contraeva matrimonio con Marzia Orsini, cognata di Pierluigi Farnese: la nuova parentela col pontefice apriva a Giovan Angelo la possibilità di una più rapida carriera, e infatti in quello stesso anno egli otteneva da Paolo III la nomina al seggio episcopale di Ragusa (Dalmazia). Nel 1546 venne di nuovo chiamato a ricoprire il ruolo di commissario generale, alle dipendenze di Alessandro e Ottavio Farnese, nipoti di Paolo III e, rispettivamente, legato e generalissimo delle truppe ausiliare pontificie inviate in aiuto a Carlo V contro la Lega di Smalcalda; sul campo ebbe modo di collaborare col fratello Gian Giacomo, colonnello generale della fanteria dell'esercito imperiale. L'anno seguente ricoprì l'incarico di governatore di Bologna, nella Legazione del cardinale Giovanni Morone, e sempre nel 1547, dopo la congiura ordita da Ferrante Gonzaga contro Pierluigi Farnese col beneplacito di Carlo V e la partecipazione dello stesso marchese di Marignano, i legati radunati nel concilio gli affidarono, in virtù dei suoi legami parentali e della precedente esperienza di governo, la missione a Parma per riconfermare l'obbedienza della città a Ottavio Farnese. Fu poi inviato come vicelegato a Perugia, dove affiancò dal settembre 1548 il cardinale, appena quindicenne, Giulio della Rovere. Proprio allora il Consiglio Generale di Milano lo proponeva come candidato al vescovato di Como, ma le autorità grigionesi, memori delle guerre combattute contro di loro dal fratello Gian Giacomo, si opposero tenacemente, protestando presso il papa e ottenendo infine la nomina di Bernardino della Croce. Dopo queste esperienze, che affinarono le sue doti amministrative, militari e diplomatiche, mettendolo a contatto diretto con i problemi religiosi dell'Europa centro-orientale, l'8 aprile 1549 Giovan Angelo fu nominato cardinale presbitero del titolo di S. Pudenziana, poi mutato in quelli di S. Anastasia (1550), di nuovo di S. Pudenziana (1552), di S. Stefano al Monte Celio (1553) e infine di S. Prisca (1557). Con le promozioni del 1549 - insieme al Medici avevano ricevuto il berretto rosso Girolamo Veralli, Filiberto Ferreri e Bernardino Maffei - Paolo III intendeva rafforzare il gruppo di propri aderenti per ostacolare i piani per il pontificato del cardinale Ercole Gonzaga e del fratello Ferrante, acerrimi nemici dei Farnese dopo i fatti di Piacenza del 1547, e con loro costantemente in conflitto anche per la collazione di alcuni importanti benefici ecclesiastici nel Monferrato. In effetti, nonostante i rapporti intrecciati fin dagli anni Trenta coi Gonzaga e in particolare col cardinal Ercole e gli sviluppi successivi, che dovevano avvicinare ancor di più i Medici milanesi al ramo minore dei duchi di Guastalla e alla rete di parentele e amicizie che attorno a quello si sarebbe consolidata coinvolgendo famiglie come quelle dei Borromeo, degli Altemps, dei Madruzzo, dei Colonna, degli Orsini, dei della Rovere, Giovan Angelo Medici, assurto ai livelli più alti della carriera curiale dopo i legami parentali intrecciati con Paolo III, si schierò costantemente tra gli oppositori del cardinale di Mantova nei conclavi degli anni Cinquanta. E solamente col progressivo indebolimento della fazione farnesiana lo vedremo allentare gli obblighi verso questa casata e agire in più stretto legame con altre famiglie principesche, anche contro gli interessi dei vecchi padroni, dimostrando dunque grande abilità nel saper valutare i cambiamenti in seno alla Curia romana e nelle relazioni tra i principi italiani; sempre mostrando tuttavia una grande inclinazione al compromesso e alla prudenza politica, qualità che segnarono in particolare il suo pontificato e la strategia con cui cercò di favorire l'ascesa dei propri nipoti, fino a spronare gli alleati gonzagheschi a ricercare, dopo tanti attriti, la pace coi Farnese, ancora potenti a Roma e con importanti contatti nelle corti europee. Nel conclave del 1550 Medici si schierò dunque col partito imperiale, capeggiato da Alessandro Farnese (che in seguito lo ricompensò con una pensione di 1.500 scudi sul vescovado di Cremona), contrapposto a quello francese guidato dal cardinale de Guise. Le due fazioni raggiunsero infine un accordo sul nome di Giovan Maria Ciocchi del Monte, eletto papa il 7 febbraio, contro le candidature del partito spagnolo e le aspirazioni alla tiara di Ercole Gonzaga. Dopo la congiura contro Pierluigi Farnese e l'occupazione imperiale di Piacenza, rimaneva irrisolta la questione del feudo di Parma. La politica della Santa Sede si era indirizzata già sotto Paolo III verso una riacquisizione del Ducato entro il dominio della Chiesa, scelta contro la quale si era ribellato il figlio di Pierluigi, Ottavio. Inizialmente Giulio III gli aveva riconosciuto il possesso di Parma, ma poi, di fronte all'ostinato rifiuto di Carlo V di ratificare l'investitura e all'alleanza nel frattempo intrecciata dal Farnese col re di Francia, il pontefice fece propria la posizione imperiale: tentò comunque dapprima una mediazione, offrendo in cambio di Parma il Ducato di Camerino; infine cinse d'assedio la città occupata, lasciando però ancora aperta la via diplomatica e chiamando a condurre i negoziati proprio Giovan Angelo Medici. Dichiarato decaduto dal proprio feudo Ottavio, come vassallo ribelle, nel Concistoro segreto del 22 maggio 1551, Medici, nominato legato di Romagna con la soprintendenza delle milizie della Chiesa, proseguì dunque la trattativa nei mesi successivi, entrando in Parma "quasi come un pegno che l'impresa si facesse per la Chiesa e perché Ottavio havesse ancora un huomo pronto da poter negociar" (in A. Pieper, p. 153). Ma la guerra prese il sopravvento, rompendo gli accordi di pace di Crépy e opponendo al Farnese, sostenuto da Enrico II di Francia, l'esercito imperial-pontificio. Il comando supremo della spedizione contro Parma fu affidato il 6 giugno al governatore di Milano Ferrante Gonzaga, che poté valersi dell'opera del marchese di Marignano. Giovan Angelo concluse la propria missione il 28 novembre, richiamato dal papa "per diverse buone ragioni": sia per gli "scorni sempre più segnalati" da lui subiti in quelle infruttuose trattative, sia per i costi elevati della sua Legazia (800 scudi al mese), "dove hora un commissario starà sempre appresso del marchese e di chi haverà la cura dell'impresa con assai meno provisione" (ibid.). Nel gennaio 1552, dopo aver collaborato col fratello e con Ferrante Gonzaga sui campi di battaglia, discutendo le strategie militari da seguire - "doveva piacer[gli] quel mescolarsi fra l'armi, quel cavalcare cogli eserciti combattenti, quegli uffici in una parola che il Pallavicino giudicò non confacevoli al chiericato, e dai quali non ripugnavano allora i principali dignitari ecclesiastici" (G. Campori, pp. X-XI) -, lasciava dunque Bologna per Roma. Sotto Giulio III, Medici era intanto stato nominato prefetto della Segnatura di Grazia e governatore di Campagna e Marittima (1552); aveva ricevuto in commenda l'abbazia di S. Silano in Romagnano e il priorato di S. Maria di Calvenzano, presso Marignano (poi assegnati nel 1558 al nipote Carlo Borromeo); nel 1553 Carlo V lo ricompensò con il vescovado di Cassano Ionio, di giuspatronato imperiale, da Medici concesso in amministrazione al nipote Marco Sittico Altemps, che a sua volta lo girò nel 1554 all'altro nipote Gian Battista Serbelloni. Inoltre, il 21 luglio 1550, era stato incaricato col cardinal Bernardino Maffei di predisporre un piano di riforma della Curia e del conclave, per sfuggire gli scandali e gli abusi che spesso accompagnavano il periodo di sede vacante. I lavori erano proceduti celermente, ma i fatti di Parma rimandarono al settembre 1552 la presentazione del progetto definitivo in Concistoro. Ebbe poi modo di manifestare il suo interesse per la riforma, motivo di preoccupazione costante anche negli anni successivi, in occasione del conclave dell'aprile 1555, quando appoggiò il candidato della fazione antifrancese guidata dal Farnese e da Ascanio Maria Sforza, Marcello Cervini, contestando tuttavia la sua elezione per acclamazione e il "procedere tumultuante" dei cardinali (L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, VI, Roma 1950, p. 309), da lui richiamati in quella circostanza a un più corretto svolgimento delle operazioni di nomina. Sulla questione venne di nuovo coinvolto da Marcello II e infine, durante il proprio pontificato, riordinò l'intera materia con la bolla In eligendis del 9 ottobre 1562. La morte improvvisa di papa Cervini rese necessaria nel maggio 1555 la convocazione di un nuovo conclave. Farnese guadagnò anche Medici all'ipotesi di Gian Piero Carafa che, nonostante l'opposizione ispano-imperiale e l'impopolarità di cui godeva anche presso i Francesi, divenne papa col nome di Paolo IV. In quello stesso anno, a novembre, moriva, pochi mesi dopo il vittorioso assedio di Siena di cui era stato protagonista, il fratello Gian Giacomo, fatto che costrinse Medici a Milano per assistere ai funerali e occuparsi del disbrigo delle pratiche ereditarie (in onore del fratello fece poi innalzare nel duomo, una volta papa, il maestoso sepolcro opera di Leone Leoni). I rapporti coi congiunti del nuovo pontefice furono improntati a un reciproco rispetto e a una confidenza che crebbe con gli anni. Da Marignano, il 7 gennaio 1556 Medici si congratulava con il conte di Montorio per la sua nomina a capitano generale di Santa Romana Chiesa - "cosa che meritava più tempo fa". Un mese più tardi, da Frascarolo scriveva al cardinal nepote Carlo Carafa: "havendo Nostro Signore a levarmi il governo d'Ancona [Medici vi era stato nominato l'anno precedente] non poteva collocarlo in persona che più mi contentasse che la Signoria Vostra Reverendissima. Spero nondimeno [gli confidava] che Sua Santità, per bontà sua, mi darà ricompensa in maggior cosa, et ciò col mezzo et favore da la Signoria Vostra Illustrissima" (B.A.V., Barb. lat. 5698, cc. 7, 9). Infatti in quello stesso anno Medici divenne membro della Congregazione del Sant'Uffizio e ottenne inoltre il vescovado di Foligno. Sotto Carafa la figura di Giovan Angelo doveva emergere soprattutto per le sue doti politico-diplomatiche e per i suoi richiami, rimasti inascoltati, alla pace: il conflitto tra pontefice e imperatore pose il cardinale milanese - che per i beni feudali acquisiti alla morte del fratello aveva giurato fedeltà al re di Spagna - nella difficile situazione di dover giustificare la propria posizione vincendo i sospetti che la sua condizione di suddito di Filippo II inevitabilmente suscitava agli occhi del partito carafesco. Tentò dunque di comporre pacificamente la vertenza, ma il suo richiamo a comportamenti "prudenti" e il confronto avviato nella commissione cardinalizia istituita su suo stesso consiglio dal pontefice non sortirono l'effetto sperato. A por fine al conflitto con gli Asburgo non valsero neppure i richiami successivi, suoi e dei cardinali Giovanni Morone e Zaccaria Delfino, alle conseguenze che la guerra avrebbe avuto sui progressi della Riforma in Germania e Austria. Fu, quello con Paolo IV e i suoi nipoti, un confronto comunque leale, che incrinò solo in parte la sua posizione in Curia, come ci viene testimoniato dai dispacci dell'ambasciatore veneziano Bernardo Navagero. Nel luglio del 1556 gli argomenti addotti da Giovan Angelo a favore di una soluzione diplomatica vertevano sostanzialmente su tre considerazioni: la debolezza dell'esercito pontificio; il pericolo che una sconfitta papale potesse favorire ulteriormente in Italia Filippo II; la necessità di un accordo con tutte le potenze europee per concludere l'opera del concilio. Proponeva inoltre al conte di Montorio la restituzione di Paliano ai Colonna in cambio del Ducato di Camerino, incontrando certa disponibilità alla trattativa. Nei mesi seguenti, forte della sua lunga esperienza, tornava sulla questione militare: disquisendo sulle capacità operative richieste a un esercito, constatava come le truppe papali, prive di aiuti stranieri (quello francese era venuto meno per la pace di Vaucelles del febbraio 1556 tra Enrico II e Carlo V) e con gli Italiani poco abili all'uso della picca, fossero del tutto incapaci sia di attacco sia di resistenza. Infine, mostrando una certa confidenza col pontefice, lo esortava a ravvedersi facendo leva sulla cattiva fama che avrebbe acquistato tra i posteri, quando il suo papato sarebbe stato ricordato per la guerra e lo scisma. Per Paolo IV era davvero troppo: chiese al Medici cosa mai avesse contro di lui, lo accusò di essere scismatico e di parlare nell'interesse della fazione nemica. Ma fu uno sfogo momentaneo, ché riconobbe di lì a poco la buona fede delle sue osservazioni. Il confronto continuò nei mesi successivi: nel gennaio 1557 Paolo IV consolava il cardinale delle ansie che, come servitore del re spagnolo, dovevano allora angustiarlo non poco, assicurandolo che avrebbe espulso Filippo - per lui ormai "olim rex" - da tutti i suoi domini italiani e persino dalla Spagna. E a giugno, poco prima dell'accordo che pose fine al conflitto (luglio 1557), Medici mostrava ancora nei confronti del papa, sempre secondo la testimonianza di Navagero, grande affezione. Intanto riceveva dall'amico Reginald Pole parole di conforto per il comportamento equilibrato, improntato al bene comune, tenuto in tutta la vicenda e il ringraziamento per l'immagine di Socrate inviatagli a Londra. Le difficoltà incontrate con Paolo IV, la gotta e il catarro che gli imponevano periodiche cure termali, il desiderio di consultarsi col proprio protettore Cosimo I de' Medici, presso cui doveva svolgere alcuni uffici per conto di Carlo Carafa (si trattava di verificare la disponibilità di un beneficio da destinare al suo segretario Andrea Sacchetti), lo indussero a lasciare Roma nell'estate 1558. Il 6 luglio, dalla Val d'Arno, si congratulava con Francesco Taverna, gran cancelliere milanese, finalmente liberato dopo una prigionia di quasi due anni per un'accusa di connivenza coi Francesi. Il 17 era a Firenze, dove riposava a causa della malattia, prima di partire per i bagni di Lucca. Intanto, gli giungevano buone notizie a proposito della cattedra arcivescovile di Milano. "Altre volte [scriveva al cardinal Carlo Carafa] Nostro Signore offerse di darmi liberamente la chiesa di Milano allhora vacante, ma io per non dispiacer a Monsignore Illustrissimo di Ferrara non volsi accettarla; et più volte Sua Santità me n'ha ripreso di poi, dicendomi ch'io era causa di un gran male. Hora che di buona volontà del predetto signore la cosa si può fare, supplico la Signoria Vostra Illustrissima che si degni far officio con Sua Santità acciò resti contenta de la nominatione che si farà in persona mia, nel che riputerò che la Santità Sua mi faccia un favore et una gratia singulare, et resteronne a la Sua Beatitudine et a Vostra Signoria Illustrissima con obligo infinito" (B.A.V., Barb. lat. 5698, c. 11, lettera del 18 luglio 1558). La lunga vacanza della sede episcopale ambrosiana, con le recenti difficoltà incontrate da Filippo Archinto (concesso il "placet" regio, erano intervenuti contro la presa di possesso il governatore, l'economo e il vicario generale, tanto che il papa aveva minacciato l'interdetto sulla città il 2 marzo 1558), aveva rimesso in gioco la candidatura di Medici. In precedenza, avevano costituito un ostacolo al negozio l'opposizione del cardinal d'Este e il possesso da parte di Medici dei vescovadi di Cassano Ionio, governato per sette anni attraverso dei vicari, e di Foligno, retto per tre anni da Antonio Bernabò e poi dato in coadiutoria - riservandosi Medici il regresso, la collazione dei benefici e la metà della rendita - al nipote Gian Antonio Serbelloni, nominato a sua volta vescovo il 15 maggio 1559 (l'arcivescovado di Ragusa Medici l'aveva resignato a favore di Sebastiano Portici, suo familiare e predecessore sulla cattedra di Foligno, fin dal 1553, assicurandosi comunque una pensione). Perciò Giovan Angelo aveva pensato, d'accordo con Cosimo I, di cedere il vescovado di Cassano a Giulio Medici, figlio illegittimo del marchese Alessandro, che era stato assassinato. Morto dunque Archinto (21 giugno 1558), il 20 luglio il cardinal d'Este, fatto cadere il proprio veto, presentava Medici come suo successore, con il solito vincolo di regresso e il diritto di pensione. Il corso degli eventi, dunque, imponeva a Giovan Angelo di lasciare la Toscana per Milano: tanto più che ai primi di agosto gli giungeva notizia della morte del cognato Giberto Borromeo; il 17 Filippo II gli concedeva il "placet" per il possesso temporale dell'arcivescovado. Tuttavia la nomina incontrava ancora qualche difficoltà a Roma, per via del regresso imposto dall'Este; e anche i lavori della commissione cardinalizia istituita dal papa non erano giunti ad alcun risultato. Medici ne sollecitava nuovamente la soluzione in una lettera a Carlo Carafa del 24 settembre. Si trovava a Pescia, "per pigliar l'aqua di Montecatino, quale tutti li medici me persuadono che saria al compimento de la mia cura e sanità"; al cardinale - "io ho messo tutte le speranze in lei", gli confidava - chiedeva pure di "voler essere mezo con Sua Santità" per fargli "haver il priorato di Vertemate, quale è in casa mia et confina a le cose mie": non si preoccupasse il cardinal nepote di aggravare la rendita, di circa 500 scudi, "di qualche pensione per qualche suo signore o amico"! (ibid., c. 15). Da Milano, dove giunse probabilmente verso le fine dell'anno, il 22 febbraio 1559 Giovan Angelo Medici scriveva al cardinal nepote, caduto in disgrazia e da poco estromesso dallo zio dagli appartamenti vaticani, di essere dispiaciuto di non trovarsi a Roma "nel tempo de li travagli di Vostra Signoria Illustrissima, sapendo lei ch'io haverei fatto tutto quel poco che havessi potuto in suo servitio acciò non seguisse questa rottura" (ibid., c. 20). Ed era nel suo palazzo di Frascarolo nel mese di luglio, quando la malattia di Paolo IV era già avanzata. Costretto a un breve soggiorno ai bagni di Lucca - dove si era recato per gli stessi motivi il cardinale di Tournon, che, al pari di Medici, si consultava col duca di Toscana sull'imminente successione papale -, venne a conoscenza della morte di Carafa (18 agosto 1559) a Viboldone: la convocazione del conclave (5 settembre) e il suo esito dovevano condurlo, questa volta definitivamente, a Roma. Il viaggio non fu facile: l'ultimo giorno di agosto Giovan Angelo Medici era a Viterbo, "necessitato a reposare" per i "fastidi di questa mia maligna infermità", che lo avrebbe costretto a letto per quasi l'intera durata del conclave. Fu probabilmente l'ultima volta che scrisse a Carlo Carafa: con tono fermo, non dilungandosi a consolarlo per la morte dello zio perché ben conosceva la sua "costanza" e "prudenza", lo rassicurava del proprio imminente arrivo a Roma, "per servirla in quanto me commanderà" (ibid., c. 22). P. fu eletto dopo uno tra i più lunghi conclavi della storia il 26 dicembre 1559. La contrapposizione tra il partito francese e quello spagnolo si risolse a favore di Medici quando su di lui decisero di far convergere i loro voti, definitivamente fallite le candidature di Pio Rodolfo Carpi, Giacomo Puteo, Ercole Gonzaga e Pedro Pacheco, anche i cardinali della fazione carafesca. Sostenuto fin dall'inizio da Cosimo I, il nome del cardinale milanese era del resto stato compreso tra quelli proposti per la tiara dallo stesso Filippo II. Le sue polizze avevano avuto quotazioni al rialzo sin dalle prime votazioni: figuravano al terzo posto, con un valore di 18 scudi, già il 19 agosto. "È tenuto alto [spiegava l'informatore mantovano Bernardino Pia in un dispaccio dell'11 novembre] perché vi sono dua cardinali che hanno in lui in scomesse spesi più di sei millia scudi" (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 889, c. 654v). L'"Avvisatore Romano" dava conto nei primi mesi del 1560 dell'arrivo a Roma dei numerosi nipoti di P.: futuri cardinali, vescovi, abati commendatari, candidati ai maggiori uffici curiali e amministrativi, nonché destinatari di pingui rendite ecclesiastiche. Innanzitutto i due Borromeo, Federico e Carlo; poi Gian Antonio, Gian Battista, Gabriele e Fabrizio Serbelloni; quindi Marco Sittico Altemps con altri due suoi fratelli, Gabriele e Iacopo Annibale: tutti con il loro seguito di familiari e amici. L'ambasciatore Girolamo Soranzo riportava le voci sulla presenza a Perugia del figlio naturale di P., tenuto "molto bassamente, non gli avendo assegnato più di 400 scudi l'anno per suo trattenimento", ora finalmente raccomandato al Borromeo, "che ha in animo di provvederlo di tanto che basti a vivere comodamente" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 95). I legami parentali della famiglia del pontefice si stavano intanto allargando ai della Rovere, col matrimonio di Federico Borromeo con Virginia, figlia di Guidobaldo duca di Urbino, e ai Gonzaga di Guastalla: la nipote Cecilia, figlia del marchese di Marignano, sposava Ottavio, fratello di Cesare Gonzaga, a sua volta unito in matrimonio con Camilla Borromeo; il terzo figlio di Ferrante, Francesco, veniva invece nominato da P. protonotario apostolico e quindi cardinale nel 1561. Si intensificava il fenomeno che vedeva membri delle nuove famiglie cardinalizie e papali usare la loro posizione per contrarre matrimoni con la vecchia nobiltà: così, dalla seconda metà del Cinquecento, molti cardinali furono tra loro legati da consanguineità o per via matrimoniale. In doti, regali, rendite e pensioni lo stesso P. finì per distribuire durante i suoi sei anni di pontificato un'ingente quantità di denaro della Camera apostolica e della Dataria, superando ampiamente la somma utilizzata per questi stessi fini da Paolo IV, e raggiungendo livelli molto vicini a quelli calcolati da W. Reinhard per il pontificato di Paolo V. Si trattava di strategie matrimoniali che potevano tuttavia apparire spregiudicate anche agli occhi dei più fedeli alleati. Preoccupato per le conseguenze di "queste tante e così honorate parentele che in poco tempo il papa ha fatto con li signori d'Italia" era Ercole Gonzaga (la sua candidatura a pontefice era stata esclusa dalla Spagna anche a causa dei legami da lui intrecciati con le principali casate italiane, fatto che poteva essere stato letto a Madrid come conferma alle accuse di macchinare contro il re Cattolico mossegli dal Farnese): "non è dubbio [precisava il Gonzaga] che in un certo modo Sua Maestà haverà presa qualche ombra di questo" (Avvertimenti del cardinal di Mantova, p. 20). La politica nepotistica di P., volta all'affermazione signorile di alcuni esponenti della propria famiglia, oltre a ricercare l'alleanza dei maggiori principi italiani, rafforzandone il ruolo nella penisola e sulla scena curiale romana - come spiegava l'ambasciatore fiorentino a Cosimo I, "è necessario che i principi d'Italia pensino ai fatti loro; e stiano uniti e ristretti, particolarmente con lei [il papa], i Veneziani e Vostra Eccellenza" (Legazioni di Averardo Serristori, p. 383, dispaccio del 26 settembre 1561) -, dovette appoggiarsi ovviamente alla potenza allora dominante, con la quale tuttavia, come dimostra il caso dei Borromeo nello Stato di Milano, non mancarono motivi di conflitto e reciproci sospetti. La vicenda dell'episcopato milanese, dopo lo scontro dell'Este con i canonici del duomo per la nomina del vicario, si era conclusa con la decisione del cardinale di rassegnare definitivamente il beneficio nelle mani del papa. Ma non era pensabile una sua rinuncia a pensione e regresso senza la promessa di una adeguata contropartita. Fu l'esito della disputa tra P. e la corte del re di Francia sui benefici vacanti in Curia di Jean du Bellay a rendere disponibili per il cardinal di Ferrara tre abbazie francesi quale ricompensa dell'arcivescovado, dato dal pontefice in amministrazione a Carlo Borromeo il 7 febbraio 1560. Forte del suo ruolo in Curia e a Milano, il nuovo amministratore indirizzò le sue prime scelte verso il consolidamento delle posizioni del proprio casato nello Stato attraverso la risoluzione di acquisire a livello l'isola d'Orta, con la sua giurisdizione, dal cardinal Morone, a cui apparteneva come vescovo di Novara, e verso le trattative con Emanuele Filiberto per ottenere il Marchesato di Romagnano, e il recupero delle piazze appannaggio dei soldati italiani ad Arona. Erano passati pochi mesi da quando, nel 1559, il fratello Federico, poi investito da P. del bastone del Generalato della Chiesa, si era scontrato con gli Spagnoli, il cui presidio ad Arona aveva giudicato un vero e proprio attacco alla sua sovranità. Ora, a suo favore, la diplomazia borromaica e quella pontificia tentavano di ritagliare un piccolo Stato nel nord della Lombardia, in un'area strategicamente importante. Mentre fervevano le trattative per l'invio a Trento dei rappresentanti delle monarchie europee in vista della riapertura del concilio, P. non mancava dunque di dare ai propri inviati a Madrid - e a quelli del re che facevano ritorno in patria - indicazioni precise per ottenere da Filippo II le pensioni e i diritti di naturalità già promessi ai congiunti di Paolo IV negli accordi del 1557 e dal pontefice destinati ai propri nipoti, considerati i veri eredi dei diritti dei Carafa: per Carlo rendite cospicue sull'arcivescovado di Toledo; per Federico entrate sopra le dogane del Regno di Napoli, il governo di alcune galere e il Marchesato d'Oria (come ricompensa di Paliano), di circa 5.000 ducati di reddito, con la clausola che sarebbe andato al fratello (insieme con le galere), come in effetti avvenne, qualora Federico fosse morto senza figli. Era la contropartita delle concessioni fiscali - il sussidio quinquennale di 420.000 scudi annui, parte di una ben più cospicua entrata sulle rendite ecclesiastiche spagnole - oggetto di negoziato tra P. e il re cattolico, destinate a fronteggiare il pericolo turco al pari di quelle già riconosciute dal papa ad altri sovrani europei (i re di Portogallo e Francia, e Venezia). Contrattazioni e accordi diplomatici intrecciavano tra loro questioni di pubblico interesse e affari privati, in uno scambio tra le controparti di reciproci favori; come era avvenuto in occasione della ricordata lite con la corte di Francia sui benefici del cardinale du Bellay, quando P. non si fece scrupolo di compromettere un diritto riconosciuto alla Santa Sede per favorire i propri nipoti. Perciò l'ambasciatore veneto Girolamo Soranzo, fatta propria la lezione - "io ho osservato che quei principi che hanno dimandato ed ottenuto delle grazie, hanno anche gratificato la Beatitudine Sua e li suoi" - ricordava al proprio signore "con la debita riverenza che, volendo ella dimandar e ricever delle grazie importanti, saria di suo servizio disponersi ancora lei a compiacere la Santità Sua in certe cose che si possono onestamente fare" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 117). Di qui le gelosie degli Altemps, meno favoriti dei nipoti milanesi (probabilmente anche per i ricorsi giudiziari da loro frapposti all'adizione dell'eredità di Gian Giacomo Medici), e le comprensibili rimostranze e accuse di chi in Curia - era il caso del cardinale Prospero Santa Croce - individuava l'origine dei propri continui spostamenti e cambiamenti di incarichi nell'avidità dei fratelli Borromeo, considerati onnipotenti avendo "il primo luogo nella gratia di Sua Santità, così nelli honori come nelli utili" (Avvertimenti del cardinal di Mantova, p. 24), e dunque in grado di attribuire a loro beneplacito gli uffici più lucrosi. Le pratiche diplomatiche che dovevano assicurare a Federico Borromeo un principato adeguato al suo rango di nipote del pontefice - si era pensato anche a Camerino e a Salerno; in ogni caso occorreva fare in fretta, perché, avvertiva il cardinal Gonzaga, "posto che il papa possa vivere molti anni, il che è però incerto et posto nella volontà di Dio, innanzi ch'una casa di Gentil'homini privati sia stabilita nel luogo di prencipe con Stato e giurisditione di qualche importanza et nuova vi vuole del tempo assai" (ibid., p. 25) - sortirono dunque i risultati sperati, che vennero però vanificati dalla morte precoce del nipote di Pio IV. Nei mesi finali del pontificato non mancò a papa Medici l'opportunità di ottenere da Filippo II qualche favore "principale" per l'altro nipote, il conte Iacopo Annibale Altemps, da poco rientrato nelle sue grazie, "e principalmente [...] di qualche Stato importante nel regno di Napoli, come sarebbe il principato di Salerno" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 150). Una fortuna simile doveva infine arridere al nipote Roberto, figlio naturale del cardinale Marco Sittico Altemps e sposato a una Orsini, in grado di acquistare il feudo di Soriano, Bassano e Gallese, poi trasformato in Ducato da Sisto V, proprio per i favori ricevuti da Pio IV. Lo stesso papa, nel Concistoro del 18 maggio 1565, ragionando dei problemi dello Stato legati alla politica nepotistica: "i papi molte volte alienano et danno a i suoi parenti le cose della Sedia apostolica et accioché non gli possino esser levate procurano di debilitarla et fare successori a modo suo", confessava appunto "d'haver donato [...] a suoi nipoti alcune gabelle della Sede apostolica in Soriano e Gallese", ed "una giurisdittione nel territorio di Castello [...] a Giulio Buffalino, nel figliuolo del quale haveva maritato una cugina del cardinal Borromeo" (B.A.V., Barb. lat. 5360, Ragionamento di Pio IV, cc. 26, 27). Agli obiettivi perseguiti dalla politica nepotistica non furono dunque del tutto estranee neppure le misure di riforma del conclave e le preoccupazioni più volte manifestate da P. sul sistema di nomina papale e sulle "mutationi" continue nella Corte romana che esso comportava. Si trattava infatti non solo di stabilire un giusto equilibrio tra i poteri giurisdizionali del Sacro Collegio e quelli delle autorità cittadine nel periodo di vacanza, evitando così il ripetersi degli scandali di cui si erano resi protagonisti i nipoti di Paolo IV e il popolo romano proprio per l'immobilismo di entrambi; o, impresa davvero vana, di limitare le pressioni dei principi secolari; ma anche di assicurare un passaggio al nuovo pontificato il più possibile indolore per i nipoti del papa defunto, conservando al riparo da possibili colpi di mano le loro fortune. Nel settembre del 1561 P. aveva portato all'attenzione dei cardinali la questione, già affrontata da Paolo IV, "se fosse possibile per il papa nominare un successore"; i pareri dei teologi e dei dottori consultati erano stati in larghissima maggioranza negativi e il pontefice aveva dato veste ufficiale al responso nel Concistoro del 19 novembre, mettendo così a tacere i sospetti suscitati in molti per aver semplicemente posto simile problema (anche quando la questione venne di nuovo riproposta nel Concistoro del 18 maggio 1565 molti sottolinearono l'inutilità di un decreto papale, "parendo che portasse infamia solo il mostrare che si ci fosse potuto pensare", ibid., c. 27v). Nel settembre del 1561 era inoltre stata pubblicata la bolla che proibiva la nomina del pontefice da parte dei prelati riuniti in concilio e indicava l'unica sede a ciò idonea nel conclave da convocarsi a Roma. La riforma dell'ottobre 1562 infine, confermando le misure già emanate a partire da Gregorio X, prevedeva la limitazione delle spese della Camera apostolica in sede vacante a un massimo di 10.000 scudi - ma un decreto dell'8 dicembre 1565 riconobbe al Sacro Collegio il potere di spendere "in utilità" della Chiesa quanto avesse giudicato necessario -, la sospensione dell'attività delle Segnature di Grazia e Giustizia e della Dataria, e la limitazione delle facoltà del camerlengo e del penitenziere; la riduzione del numero dei conclavisti (due per i cardinali sani, tre per quelli cagionevoli; erano esclusi da questo ruolo fratelli e nipoti di cardinali, mercanti, ministri di principi, padroni di giurisdizioni temporali); più rigide regole di clausura per i partecipanti; l'ammissione al conclave anche dei cardinali sottoposti a censura o scomunica; pene più severe per chi avesse contravvenuto al divieto di fare scommesse. Un vero e proprio mercato di compravendita di polizze intestate ai singoli prelati, contraddistinto da manovre speculative al rialzo o al ribasso a seconda che fossero maggiori o minori le probabilità, ovvero le voci, alimentate dagli stessi cardinali, relative alla nomina dei diversi candidati, caratterizzava infatti da tempo lo svolgimento dei conclavi; e in verità scommesse e contrattazioni su nomine papali e cardinalizie continuarono ancora a lungo a Roma (tra gli stessi partecipanti al conclave!), come in molte altre città italiane, sollecitando negli anni a venire ulteriori interventi censori delle pubbliche autorità. Non è difficile intravedere in queste disposizioni gli echi della vicenda Carafa, che vide protagonista P. subito dopo la sua nomina (il processo, apertosi il 1° luglio 1560, si concluse il 15 gennaio successivo, con la condanna a morte, eseguita tra il 5 e il 6 marzo, del cardinale Carlo Carafa, del fratello Giovanni, conte di Montorio e dei loro complici). La scelta di P. di perseguire penalmente i nipoti di Paolo IV - come sollecitavano i loro numerosi nemici, quali Giovanni Morone, Guido Ascanio Sforza, Marco Antonio Colonna (quest'ultimo fu riconfermato nel possesso di Paliano nel luglio 1562, qualche mese dopo il matrimonio del primogenito Fabrizio con una nipote di P., Anna Borromeo); nonostante i richiami a maggiore moderazione, peraltro poco convincenti, di Cosimo I e degli stessi Spagnoli; affidando il processo a personalità cadute in disgrazia durante il precedente pontificato e da lui riabilitate, come Girolamo Federici e Alessandro Pallantieri (poi definitivamente condannato a morte sotto Pio V); permettendo che si esagerassero le colpe dei nipoti del papa quando egli per primo sapeva esserne responsabile lo stesso Paolo IV; dimostrando una perseveranza nella condanna, che enorme paura e scandalo suscitò tra cardinali e ambasciatori - la scelta, dicevamo, di perseguire con tanta ostinazione i Carafa, vista l'esorbitanza ai suoi occhi di quanto da loro commesso, rispondeva a un disegno preciso, quello di smobilitare una fazione cardinalizia ancora forte in Curia, indebolendo in questo modo gli stessi Farnese per renderli più malleabili ai suoi piani. Non doveva poi rimanere un semplice dettaglio che i beni requisiti ai congiunti di Paolo IV, tra cui i compensi loro promessi dalla Spagna nell'accordo del 1557, venissero destinati da P. ai propri nipoti. Infine, dovette influire su quella che apparve a molti una vera e propria vendetta da parte del nuovo pontefice anche il ricordo dei sospetti di eresia che su di lui aveva sollevato durante il conclave Alfonso Carafa, arcivescovo di Napoli, infine graziato da P. in cambio di pesanti riparazioni e di un compenso di 25.000 scudi, ovvero della rinuncia forzata ai propri benefici napoletani a favore di Carlo Borromeo (trattamento simile doveva subire il cardinale Innocenzo del Monte, incarcerato da P. per un delitto commesso mentre si recava al conclave del 1559). Del resto, la politica di papa Medici recuperava alcuni tratti caratteristici dei pontificati del primo Cinquecento, indirizzandosi apertamente contro le rigidità del suo predecessore: "quasi in ogni parte [scriveva di lui il Soranzo] si può chiamare il rovescio dell'altro" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 50); e segnava una vera e propria svolta rispetto al programma antispagnolo di Paolo IV, trovando i suoi referenti ideologici e culturali nell'opera filoasburgica di Onofrio Panvinio. La riabilitazione solenne di Morone (13 marzo 1560), a cui non poté essere estranea la lunga amicizia e la protezione che in giovinezza i fratelli Medici avevano ricevuto a Milano dal padre di Giovanni, Girolamo, la riammissione nei loro ruoli di molte altre personalità cadute in disgrazia sotto Paolo IV (si pensi solo a Giovanni Francesco Commendone), e le assoluzioni di Pietro Carnesecchi e di Egidio Foscarari erano la dimostrazione dello scontro in atto ai vertici della Curia papale e della supremazia, in quella fase, del partito imperiale, costituito in larga parte da cardinali di alta statura intellettuale, ancora legati agli ideali politici umanistici e al clima religioso del primo Cinquecento, consapevoli delle urgenze del mondo germanico: proprio sotto P., su alcune questioni di politica religiosa, complice lo stesso pontefice, si realizzò la rottura tra i rami spagnolo e tedesco degli Asburgo. Inoltre, affidandosi a uomini come Morone, Gonzaga, Seripando per i maggiori problemi allora in discussione nell'Europa cristiana, P. dimostrava di condividere, seppure nei limiti imposti dai tempi mutati, un abito mentale aperto e ancora disponibile al confronto. Con la commissione istituita nel 1561 e la promulgazione nel 1564 del cosiddetto Indice tridentino P. intese dunque da un lato attenuare le censure di Paolo IV su alcune categorie di libri, dall'altro investire gli ordinari diocesani di competenze fino allora esercitate dai commissari dell'Inquisizione (redazione dello stesso Indice, autorizzazione alla lettura dei volgarizzamenti biblici ai laici, facoltà di assolvere nel foro interno e nel foro esterno lettori e proprietari di libri proibiti). Si trattava di una strategia volta a contenere i poteri dell'Inquisizione - con questo obiettivo P. aveva subordinato al proprio giudizio finale l'esito dei processi contro personalità laiche ed ecclesiastiche - costretta in quella congiuntura a venire a patti col concilio e i legati papali, critici verso le sue procedure giudicate troppo dure e inadatte ai tempi, e impegnati a risolvere casi come quello di Agostino Centurione, o del patriarca Giovanni Grimani, per il quale lo stesso P. chiese di accontentare in tutto e per tutto la Serenissima. E all'assemblea tridentina si rivolsero nel novembre 1562 anche gli amici di Bartolomé Carranza, detenuto dal 1559 nelle carceri dell'Inquisizione spagnola, sorda ai richiami provenienti da Roma - in verità fin troppo accondiscendente nel concederle (e prorogarle) sempre più ampi poteri - a consegnare gli atti del processo e a subordinare le proprie decisioni alla sentenza finale del papa. Infine, anche le vicende mantovane, con l'avvio solo sotto Pio V dei procedimenti inquisitoriali contro l'entourage politico di Ercole Gonzaga e del duca Guglielmo, confermavano la testimonianza del Soranzo di un P. che chiedeva agli inquisitori di usare "termini di cortesi gentiluomini anziché di frati severi" (ibid., p. 74). Pure in ambiti del tutto diversi, come nelle materie economico-finanziarie, le scelte di P., sebbene non sempre coerenti e lineari e perciò oggetto di valutazioni contrastanti da parte degli storici, segnarono un mutamento d'indirizzo rispetto a Paolo IV. Le più rigide disposizioni di quest'ultimo sui contratti d'affitto di proprietà ecclesiastiche e in fatto di alienazioni furono infatti annullate, perché, si giustificò nel 1565 P., erano troppo rigorose e revocavano anche le alienazioni fatte "ex causa onerosa" (papa Medici non mancava comunque di sottolineare in quell'occasione, consapevole degli errori da lui stesso commessi, la necessità di provvedere alle alienazioni fatte "ad vitam vel ad secundam vel tertiam generationem"); e per quanto concerne le pratiche beneficiali si ebbe un rilassamento della politica contro le designazioni con diritto di regresso e di pensione avviata da papa Carafa. Anche le direttive di P. riguardanti la comunità ebraica, attenuando i più rigorosi provvedimenti del predecessore, erano coerenti con il tentativo di restaurare condizioni di maggior flessibilità e apertura. La figura di P. appare insomma legata ai canoni etici e intellettuali dell'ecclesiastico d'alto rango del primo Cinquecento: in lui ritroviamo la stessa cultura umanistica e la disponibilità al dialogo che lo fecero avvicinare a posizioni non completamente ortodosse; la medesima flessibilità d'incarichi e di carriera, che lo portò dalle aule dei tribunali ai campi di battaglia, dall'amministrazione cittadina al governo della cristianità; la stessa condotta morale così lontana dai parametri moderni, che non gli impedì di costellare la sua vita di chierico di figli illegittimi, conducendolo infine, dopo un'esistenza "poco sobria e casta", a una morte giudicata "vergognosa" dall'ambasciatore spagnolo Luis de Requeséns. "Così cortese e così facile nelle conversationi di burle e d'amicizie" (B.A.V., Ottob. lat. 2690, Relatione delli due pontificati, c. 22), dovette provare grande insofferenza verso le "teatinerie" del nipote Carlo, da lui stigmatizzate in più d'una occasione. Il suo pontificato, nonostante le conclusioni del Tridentino dovessero infine indirizzare anche le sue scelte verso esiti più coerenti con il clima di chiusura di quegli anni, costituì una parentesi per la Chiesa romana: Pio V sarebbe infatti tornato su più d'una sua decisione, minacciando la riapertura del caso Morone, riabilitando i Carafa, condannando definitivamente il Carnesecchi, criticando la sua politica di ampie concessioni ai sovrani europei e italiani in ambito giurisdizionale. La ripresa del concilio, a cui il nuovo pontefice era tenuto giusta la "capitolazione" concordata in conclave l'8 settembre, richiese lunghe trattative tra Roma e le maggiori potenze cattoliche (Spagna, Impero e Francia). In particolare Filippo II desiderava fosse esplicitamente affermata nella bolla di convocazione la continuità con le precedenti assemblee. Ma la situazione di quegli anni, con il pericolo di scisma nella Francia di Caterina de' Medici e la sempre più ampia diffusione dell'eresia nei territori dell'Impero, richiese al pontefice particolare attenzione anche alle richieste che provenivano da Parigi e da Vienna, non ultime proprio quelle che auspicavano l'apertura di un concilio del tutto nuovo, in una città che non fosse Trento. La bolla di convocazione (29 novembre 1560), frutto della grande capacità diplomatica di P., fatta di compromessi e dissimulazioni, fu dunque redatta in maniera vaga e generale, con formule ambigue e diversamente interpretabili, proprio per evitare la reazione contraria delle potenze cristiane. Tuttavia, per tacitare i sospetti spagnoli, fu infine necessario assicurare il re cattolico con un breve segreto (17 luglio 1561), che dichiarava trattarsi a tutti gli effetti di continuazione delle precedenti sessioni. I rapporti con Filippo furono complicati anche dall'accoglienza riservata da P. all'inviato del preteso re di Navarra, Antonio di Borbone duca di Vendôme, allora in predicato appunto di un riconoscimento papale, e che addirittura qualcuno in Curia pensava di ricompensare, in cambio della sua rinuncia alla Navarra, col Ducato di Milano. La situazione francese angustiava non poco P. sia per la politica di compromesso adottata da Caterina de' Medici, sia per il progetto di concilio nazionale (poi concretizzatosi nell'assemblea di Poissy). Perciò nel maggio del 1562 il papa subordinava il proprio contributo finanziario alla guerra contro i calvinisti - non era stato accettato dalla reggenza l'invio di un esercito pontificio guidato dal cardinale Marco Sittico Altemps - a misure più repressive nei confronti degli eretici (revoca dell'editto del gennaio 1562) e alla soluzione della vertenza giurisdizionale apertasi con l'ordinanza d'Orléans del gennaio 1561 sulla collazione dei benefici e la questione delle annate (ordinanza che in effetti fu abrogata due anni più tardi). Sul fronte tedesco, immediato, dopo la rottura tra Impero e papato sotto Carafa, fu da parte di P. il riconoscimento della validità della nomina imperiale di Ferdinando I e di quella a re dei Romani del figlio Massimiliano. La sensibilità di P. verso i problemi dell'area germanica doveva emergere proprio nella missione presso Massimiliano, re di Boemia, prossimo all'incoronazione a re d'Ungheria e imperatore "in pectore", affidata al nunzio Stanislao Osio: la comunione col calice alla fine concessa dal papa al figlio di Ferdinando I - l'Osio, contrario al provvedimento, aveva tentato invano di convincere Massimiliano dell'erroneità delle sue posizioni - era il segno di una disponibilità al compromesso che si concretizzò più tardi (16 aprile 1564), complice il Morone, nella decisione di riconoscere il medesimo privilegio anche ai cattolici di alcuni Principati tedeschi e austriaci (e nella disponibilità, almeno formale, di discutere la richiesta imperiale di concedere il matrimonio ai preti in Germania, demandata l'anno seguente a una commissione cardinalizia). La testimonianza del cardinale Ottone von Truchsess, proprio durante il conclave del 1559, a proposito delle discussioni avute col Medici su tali questioni - "altre volte, nel 1552 e 1555, ragionando [...] di Germania, mi parlò più volte di tali suoi concetti, ma con tutto ciò non ho tenuto mai S.S. Rev.ma per heretico, se bene non mi sia piaciuta una certa sua inclinatione di pensare a tali concessioni" (Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 889, cc. 655-58) - coglieva dunque un aspetto importante dell'atteggiamento di P. verso l'eresia, frutto non tanto, come affermò il Pastor, della sua ignoranza teologica, quanto piuttosto dell'esperienza diretta dei problemi che la Chiesa andava incontrando nei territori tedeschi, che necessitavano dunque di risposte adeguate. Queste scelte si inquadravano nell'indirizzo "irenico" del suo pontificato, riscontrabile tanto nella personale ambizione a un concilio che fosse davvero universale (perciò rivolse l'invito a parteciparvi anche ai paesi protestanti e di fede ortodossa, tra cui la Russia di Ivan IV); quanto nei tentativi di riconciliare con Roma la Chiesa di Alessandria e, attraverso negoziati segreti dopo il fallimento di alcune ambasciate ufficiali, di recuperare al cattolicesimo e all'obbedienza romana anche la regina Elisabetta. L'anelito alla ricomposizione dell'unità cristiana gli faceva però perdere di vista la gravità della situazione e l'irreparabilità della rottura. Ben più realisticamente altri lavoravano per creare attorno ai legati papali, per la verità non sempre uniti nelle loro posizioni, il maggior consenso possibile; per cui, in un clima di generale disaffezione dei vescovi italiani verso il concilio (da Venezia e dalla Savoia piovevano le rinunce a causa di vecchiaia, infermità, angustie economiche; Cosimo I dal canto suo metteva a disposizione, per creare un fronte compatto contro le probabili coalizioni anticuriali dei vescovi d'Oltralpe, ben venticinque ordinari diocesani), Carlo Borromeo chiedeva al nunzio a Venezia Ippolito Capilupi di impedire che arrivassero a Trento quei personaggi, come il patriarca d'Aquileia Giovanni Grimani, che con la loro presenza e la loro fede sospetta avrebbero messo "sossopra [...] Ambasciatori et Prelati, et tutto il Concilio in confusione" (in G.B. Intra, p. 101). Tra questi ostacoli, e con gravi ritardi nell'invio dei delegati dei diversi paesi, il concilio finalmente si aprì il 18 gennaio 1562, incontrando le prime serie difficoltà a primavera, quando il confronto si incentrò sull'obbligo di residenza. La divisione tra i sostenitori dell'obbligo "de iure divino" e i curialisti suscitò contrasti - e perciò grande rabbia e imbarazzo nel papa - tra gli stessi legati (alle posizioni radicali di Gonzaga e Seripando fece da contr'altare il curialismo dell'uomo di fiducia di P., il cardinale Ludovico Simonetta). Iniziarono così una difficile fase nei rapporti tra le differenti componenti nazionali, partitiche e teologiche presenti a Trento e un lungo braccio di ferro tra P. e Filippo II, per il ruolo svolto nella vertenza dai prelati spagnoli. Prevalsero infine, anche sull'indecisione del pontefice - "voleva prima ben consultare", scriveva a Trento il Borromeo dopo la burrascosa seduta del 20 aprile (in L. Castano, Pio IV e la curia, p. 169); finì per proibire ogni discussione disapprovando la scelta del Gonzaga e del Seripando - il punto di vista dei curialisti (dopo mesi di discussioni, mediato dalla distinzione laineziana tra potere d'ordine, di origine divina, e potere di giurisdizione, di delega papale) e le pressioni esercitate su tutti i fronti per sottolineare gli effetti che avrebbe provocato un decreto fondato sul diritto divino: "non mirava ad altro che a legar le mani al papa", affermava il Simonetta; "l'intentione è che ognuno sia papa nel suo vescovato", ribadiva Giambattista Cicada (ibid., p. 164). E presso lo zio Ercole era intervenuto da Roma, spinto da "molti amici [che] lo pregavano di fare quella raccomandazione", il cardinale Francesco Gonzaga, dando così voce agli interessi coinvolti in quella disputa: "Qui si fa gran rumore che si habbia da trattare an residentia sit de iure divino, et questi cardinali che hanno chiese, et i cortigiani che hanno parrocchiali stanno tutti con l'animo sospeso; però [suggeriva] quando si potesse fugir questo scoglio, crederei che si darebbe a questa corte una buonissima nuova" (ibid., p. 166). La stessa posizione di P. sulla residenza dei vescovi, in bilico tra un'istintiva adesione alla tesi radicale e un più ponderato, e politicamente opportuno, sostegno delle argomentazioni curialiste, di fatto non facilitò l'opera dei legati. Alcune sue scelte confermavano d'altra parte l'attenzione verso ruolo e poteri del vescovo, la cui funzione anche giurisdizionale volle difendere nei confronti sia dell'Inquisizione, sia dei nunzi (riservando alla potestà episcopale le cause in prima istanza, e facendo intervenire i nunzi solo nei casi appellati a Roma). Nella stessa direzione, che era poi una significativa convergenza con alcune posizioni di matrice gallicana e una risposta alle incessanti richieste di riforma "in capite" provenienti dalle corti europee, andavano le decisioni del 1562 di ritirare le facoltà di legato "a latere" ai nunzi, lasciando di conseguenza più autonomia e potere giurisdizionale agli ordinari diocesani. Le incomprensioni con Gonzaga e Seripando vennero dunque superate. Non ebbero strascichi a Roma le voci diffuse contro il cardinale di Mantova: si disse che era pronto a farsi eleggere papa in concilio vista la cattiva salute di Pio IV. Neppure ebbero seguito la minaccia di quest'ultimo di nominare nuovi legati e le dimissioni presentate dal Gonzaga. P. si limitò a inviare a Trento come proprio uomo di fiducia il milanese Carlo Visconti, vescovo di Ventimiglia. Nuove difficoltà sopraggiunsero nel mese di novembre, con l'arrivo del combattivo cardinale di Lorena Charles de Guise, e la minaccia di abbandonare i lavori dei prelati francesi e imperiali, decisi a sostenere fino in fondo le loro richieste in merito alla riforma della Curia, alla definizione dei poteri del papa e ad alcune questioni dogmatiche, come la concessione del calice ai laici. Per la positiva conclusione del concilio fu infine decisivo il ruolo di Giovanni Morone, subentrato al Gonzaga, deceduto col Seripando nel marzo del 1563, nella carica di presidente. Riuscì a guadagnarsi sia l'imperatore, con la missione a Innsbruck di aprile, sia il cardinale di Lorena, fino allora capo dell'opposizione e tacciato di criptoprotestantesimo, diventato infine il principale collaboratore dei legati papali, consapevole ormai - forse anche per i favori pontifici ricevuti nell'occasione - della necessità di arrivare a una riforma accettabile per la Chiesa gallicana, al fine di conservarla fedele al cattolicesimo romano, contro tutte le tentazioni in senso opposto della corte francese. La nuova situazione esacerbò ulteriormente i rapporti con Filippo II: non erano stati affatto graditi a Madrid gli onori tributati al Guise durante il suo viaggio a Roma nel settembre 1563. Il comportamento spagnolo rimaneva quindi l'unico vero ostacolo alla positiva conclusione del concilio; P., scriveva il Serristori, si "doleva molto [...] per essere di tutto cagione i cattolici, volendo inferire del re Filippo" (Legazioni di Averardo Serristori, p. 388, lettera del 20 ottobre 1563). Anche la malattia del pontefice e il pericolo della controversia che sarebbe potuta sorgere, nonostante il precedente decreto papale, tra i prelati radunati in concilio e i cardinali riuniti in conclave a Roma per il diritto di elezione spinsero i legati a una rapida conclusione, portando a compimento l'ultima sessione (la venticinquesima, la nona sotto P.) il 4 dicembre. Tra difficoltà e opposizioni - P. resisteva alle pressioni, numerose in Curia, di coloro che desideravano modificasse i decreti conciliari per riaffermare la supremazia pontificia - prendeva avvio l'opera di applicazione del Tridentino. I decreti vennero confermati dal pontefice nel Concistoro del 26 gennaio 1564 (la bolla fu pubblicata solo il 30 giugno); il 18 febbraio vennero revocati privilegi e indulti, in contrasto con le norme tridentine, concessi a qualsiasi persona o ente ecclesiastico secolare e regolare, ordini militari, luoghi pii, università; ad agosto venne istituita la Congregazione sopra l'Esecuzione e l'Osservanza del Concilio; a ottobre fu pubblicata la bolla che vietava confidenze e riserve di benefici; nel marzo 1564 fu ribadito l'invito (ripetuto a novembre e nel maggio 1565) ai vescovi presenti in Curia a rispettare l'obbligo di residenza; venne imposto il giuramento di fede ai provvisti di benefici curati, ai superiori di Ordini religiosi, a professori e dottorandi (13 novembre 1564); venne proseguita la redazione iniziata a Trento del nuovo catechismo, così come la riforma del breviario e la nuova edizione della Vulgata. A Roma intanto P. avviava la visita delle chiese cittadine e sollecitava l'erezione del seminario, affidandosi per quest'opera - nonostante le numerose polemiche che coinvolsero contro la Compagnia parte della Curia e lo stesso pontefice - ai Gesuiti, da lui riammessi nei loro privilegi dopo la parentesi di papa Carafa, favoriti in varie città italiane e nelle difficili realtà politico-religiose di area germanica, francese e fiamminga; difesi, infine, anche presso il diffidente Filippo II. La chiusura dei lavori conciliari aveva lasciate irrisolte molte delle incomprensioni tra P. e il re Cattolico. Sui loro rapporti, destinati a rimanere difficili, pesavano la querelle sulla precedenza, iniziata a Trento, proseguita a Roma e risolta da P. a favore della tesi francese nella speranza di favorire in questo modo l'applicazione del concilio da parte di Caterina de' Medici; il destino della Corsica, ambita da entrambi i sovrani, ma dai suoi abitanti offerta al papa; il caso Carranza, rimasto infine irrisolto; la questione dei vescovadi dei Paesi Bassi, per i quali Filippo II aveva chiesto invano a P. una revisione delle bolle del 1559 e del 1561 - con cui erano state approvate le nuove circoscrizioni ecclesiastiche, definiti i loro confini e la fonte delle loro entrate, e concesso il giuspatronato regio sulle nomine episcopali - per venire incontro alle proteste delle abbazie del Brabante colpite nelle loro rendite; l'irritazione del papa per il controllo esercitato dal sovrano sui concili provinciali spagnoli; e la politica dei rappresentanti regi a Milano sempre più ostile ai "familiari" del Borromeo. Grande rammarico doveva inoltre suscitare nel pontefice il temporeggiare di Filippo II nella questione turca. Si giunse così all'asprezza di toni dei tempi di Paolo IV: in questo modo, faceva intendere il papa, Filippo rischiava di "perdere i suoi domini" e di "ruinare" (Legazioni di Averardo Serristori, p. 411, 22 febbraio 1564). Tanto più che si intensificavano contemporaneamente i tentativi della Santa Sede per riallacciare più strette relazioni con la corte del cristianissimo - dopo la morte di Ferdinando I e persistendo la crisi francese pesava su P. il ruolo di unico referente per la Chiesa rappresentato dal re spagnolo - attraverso la politica "prudente" e di piccole concessioni del pontefice e le scelte del cardinal nepote Marco Sittico Altemps - alla direzione della Segreteria in sostituzione del Borromeo per alcuni mesi del 1565 - di aperto sostegno al partito francese e ai piani del nunzio a Parigi Prospero Santa Croce, in perfetto accordo con l'altro segretario Tolomeo Gallio (Galli): l'intesa portò alla sospirata nomina del Santa Croce a cardinale e alla concessione all'Altemps di alcuni benefici in Francia. La decisione di delegare al pontefice la cosiddetta riforma dei principi, presa a Trento per questioni di opportunità politica e per salvaguardare precisi interessi familiari - un compromesso per tacitare le autorità secolari sul tema della riforma "in capite" della Chiesa e per non alienare a Roma e al clan papale le simpatie del re Cattolico - doveva lasciare a P. ampi margini di manovra sulle questioni (amministrative, fiscali e giurisdizionali, relative a decime, benefici, reati d'eresia) che erano costantemente motivo di discussione o materia di scambio di favori tra Roma e le corti principesche. Di fronte alle proteste dei sovrani cattolici contro la progettata riforma, P., cercando l'appoggio di Venezia, nel novembre del 1563 ebbe modo di tacitare sospetti e paure: "Et lasciate pur fare al Concilio quello che li piace [confidava all'ambasciatore] perché noi siamo Papa et vi volemo essere, né si può far cosa contra di noi. La auttorità la habbiamo da Dio [...] et Noi volemo fare delle gratie et dispensare quello che ne parerà. [...] Intendeteci signor ambassador, saremo papa anco dapoi il Concilio [...]. Lasciate fare al Concilio quello che vogliono, che faremo ancor Noi quello che ci parerà quando sarà tempo" (in A. Pizzati, p. 71). In effetti la politica di P., nonostante alcuni evidenti cedimenti nei confronti di Cosimo I, fu rivolta a salvaguardare il nuovo equilibrio raggiunto con la pace di Cateau-Cambrésis e a rafforzare l'immagine e la presenza nella penisola dei principi italiani, fino a sacrificare, su alcune questioni, gli stessi interessi temporali della Chiesa, "non movendo cosa alcuna e dissimulando ogni cosa per bene universale; né cercò di ricuperare altrimenti quel della Chiesa per non fare novità alcuna" (Legazioni di Averardo Serristori, p. 385). La concessione di P. ai duchi di Firenze, Mantova e Urbino e alla Repubblica di Venezia dei diritti di nomina alle principali chiese cittadine, così come della facoltà di riscuotere decime o di tassare beni ecclesiastici per finanziare università, biblioteche, accademie, Pio V le avrebbe giudicate causa della rovina dell'autorità della Chiesa. Sottolineando le differenze col predecessore Paolo IV, Girolamo Soranzo scriveva nel 1563 che, "mentre quello usava dire il grado dei pontefici esser per mettersi sotto i piedi gl'imperatori e i re, [P.] dice che senza l'autorità dei principi non si può conservare quella dei pontefici; e però procede con gran rispetto verso ogni principe, e fa loro volentieri delle grazie, e quando le niega, lo fa con gran destrezza e modestia" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 75). Del resto, nel sostenere la politica conciliare i maggiori Principati italiani riconoscevano la stretta dipendenza dei loro interessi dalla posizione del papato sullo scacchiere europeo. La stessa consapevolezza aveva espresso l'ambasciatore spagnolo Francisco de Vargas poco prima della conclusione del concilio: "difficilmente si potea mantenere Italia quieta senza i medesimi italiani, in fra i quali il papa era di maggior considerazione di tutti" (Legazioni di Averardo Serristori, p. 400, lettera del 27 ottobre 1563). In tale contesto, dunque, certamente determinante per il pontificato di P. fu il ruolo di Cosimo I de' Medici, sia in occasione del conclave, sia nel condurre a buon fine il concilio di Trento. Il duca di Firenze fu ricompensato con le nomine cardinalizie dei figli Giovanni (1560) e Ferdinando (1563), appena undicenne, e del favorito Angelo Nicolini (1565); per l'altro figlio Francesco, P. stesso avviò le trattative per il suo matrimonio con Giovanna d'Austria (1566). Nell'ambito del piano di ripristino delle Nunziature vacanti dopo la rottura di Paolo IV con gli Asburgo e di costituzione di rappresentanze diplomatiche permanenti nei Principati usciti ridefiniti e rafforzati dalle guerre d'Italia, nel 1562 venne definitivamente istituita la Nunziatura di Firenze. Cosimo I ricevette poi da P. l'approvazione dell'Ordine militare religioso di S. Stefano, che venne dotato di rendite di provenienza regolare: i suoi membri poterono beneficiare di importanti privilegi in fatto di pensioni ecclesiastiche (trasmissibili per testamento), di esenzione dal pagamento delle decime pontificie e di immunità dalla giurisdizione vescovile. Ma soprattutto spettò a P. l'avvio dell'iniziativa che doveva portare il successore Pio V a riconoscere ai Medici il titolo di granduchi, temporaneamente ostacolata sotto il suo pontificato dal sempre più sospettoso Filippo II. I positivi rapporti con Firenze dovevano d'altra parte creare non poche difficoltà al papa anche nelle sue relazioni col duca d'Este, per i problemi di confine col territorio pontificio e per il sale di Comacchio, ben noti a P., già chiamato nei decenni precedenti a dirimere simili contese. Era ormai opinione diffusa tra i contemporanei - e non mancavano a giustificazione di tale giudizio i favori papali ai Medici nelle questioni di precedenza - che all'origine di quelle dispute fosse lo stesso pontefice, la cui "dipendenza" dalla casata fiorentina gli impediva le giuste attenzioni verso il duca di Ferrara. Ai già stretti rapporti parentali e alle larghe intese in ambito politico-diplomatico si affiancarono per quanto concerne i Gonzaga rilevanti accordi sulla collazione delle maggiori dignità ecclesiastiche mantovane, tra cui il giuspatronato sulla cattedrale, riconosciuto al duca Guglielmo in cambio di 25.000 scudi da destinare alla guerra contro il Turco. Inoltre, all'Accademia degli Invaghiti, fondata dal nipote Cesare di Guastalla e ricordata da Stefano Guazzo nella sua Civil conversazione, P. concesse importanti privilegi, quali l'autorità di legittimare bastardi, creare notai e dottori, laureare poeti, nonché di conferire nobiltà cavalleresca a tutti i suoi membri. L'attività antiprotestante costituì il terreno di confronto, tra collaborazione e incomprensioni, con Venezia, il cui ceto dirigente, in particolare i patrizi che facevano capo alla Zonta del Consiglio dei Dieci, aveva dimostrato di aver fatto proprie le richieste del papa, ricevendone in cambio ampie concessioni in fatto di nomine ai principali vescovadi di Terraferma e alle più importanti commende abbaziali. I contrasti tuttavia non mancarono. P. si era lamentato con la Serenissima per "essersi congiunta, nelle cose del Concilio, con l'opinione degli altri principi, i quali tutti uniti attendevano al fine di abbassare la sua autorità" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 151). Poi vi erano stati i ripetuti dinieghi veneziani a consegnare a Roma alcuni sospetti d'eresia, la tolleranza padovana verso gli studenti calvinisti, le proteste dei tipografi contro l'Indice tridentino e il malessere per i provvedimenti emanati da P. nel 1564 per sottomettere i Greci alla giurisdizione degli ordinari, abolendo le esenzioni precedentemente concesse alla Serenissima; mentre vicende come la nomina cardinalizia dell'ambasciatore Marco Antonio da Mula (Amulio) alimentavano i soliti sospetti veneziani verso i propri sudditi conquistati alla Corte romana. Proprio sul terreno della lotta contro l'eresia crebbe invece la collaborazione tra P. e Emanuele Filiberto, sollecitato a misure più repressive verso i Valdesi e sostenuto nella sua opera dai Gesuiti e dal cardinale Michele Ghislieri (futuro Pio V), inviato a Mondovì per seguire e organizzare l'attività missionaria e inquisitoriale nelle Valli. L'istituzione della Nunziatura (1560) costituì nello stesso tempo motivo d'onore per il duca, equiparato in questo modo agli altri "principi grandi", e uno strumento importante per colpire l'eresia. La cedevolezza di Emanuele Filiberto sul piano giurisdizionale permise di superare il temporaneo incrinamento delle relazioni dovuto all'editto di tolleranza di Cavour del 1561. Particolarmente privilegiato, e non poteva essere altrimenti, fu il rapporto di P. con la propria città natale, Milano. Nella Corte di Roma arrivarono con i nipoti Borromeo e Serbelloni molti altri milanesi, avviati a una carriera curiale che doveva portarne alcuni al cardinalato. Ben quattro furono membri del Collegio dei giureconsulti: Ludovico Simonetta, eletto nella seconda promozione del 1561, Carlo Visconti, Francesco Alciati e Francesco Grassi; a questi si aggiunsero Alessandro Crivelli, nunzio in Spagna nel 1561, e Francesco Abbondio Castiglioni, vescovo di Bobbio dal 1562, nominati cardinali nel 1565 con altri diciotto italiani. La particolare attenzione al Collegio di cui era stato membro doveva portare P. a elevare i giureconsulti milanesi alla dignità di conti dei Palazzi Apostolici (1560), confermando l'antico privilegio di creare notai, giudici e dottori, e concedendo loro il diritto di presentare una terna di nomi per gli uffici di avvocato concistoriale e di auditore di Rota nella Curia pontificia. Significativa testimonianza della fama di cui godette a Milano papa Medici è una memoria di metà Settecento, in cui le doglianze della nazione milanese contro la nomina ai benefici ecclesiastici cittadini di chierici stranieri vengono giustificate con un supposto decreto di P. che riservava a sudditi naturali tali investiture; decreto che in verità le ricerche negli archivi vaticani avevano dimostrato inesistente. Dall'indagine, notava l'anonimo estensore, risultavano semmai le altre "singularissime grazie" concesse dal papa alla città, "quella in specie d'un auditorato della Sagra Rota Romana e d'un Avvocato Concistoriale", posti dai quali passarono molti dei futuri cardinali oriundi milanesi (A.S.V., Segr. Stato, Germania, 763, c.n.n., memoriale del 22 maggio 1744). Inoltre, con breve del 7 luglio 1560, P. donava un assegno di 5.000 scudi per la costruzione del nuovo edificio del Collegio, su progetto di Vincenzo Seregni; e infine, per il finanziamento della carica di custode della biblioteca, acconsentiva all'applicazione di alcune rendite ecclesiastiche. Una certa inquietudine suscitò a Milano nel 1563 il temporaneo consenso papale alla richiesta di Filippo II di introdurre in città l'Inquisizione di tipo spagnolo, probabilmente dettato dalla necessità di non irritare ulteriormente il re Cattolico; comunque le autorità vescovili dello Stato, che rimarcarono le gravi conseguenze di simile provvedimento per l'esercizio della loro giurisdizione, e quelle civili, preoccupate invece dei danni economici e di sottolineare la profonda religiosità dei Milanesi, opposero il loro rifiuto; e la loro supplica, attraverso la mediazione di Carlo Borromeo, fu accolta. L'attività politico-diplomatica degli anni di P. richiese alla Curia papale e alla sua diplomazia un intenso impegno nella conduzione degli affari spirituali e temporali della Chiesa. La Segreteria di Stato, affidata al giovane Carlo Borromeo e al segretario domestico di P., Tolomeo Gallio, che seppe collaborare efficacemente e con pari autorità col cardinal nepote, conobbe proprio in quegli anni significativi mutamenti nella propria organizzazione, riuscendo a concentrare su di sé funzioni spettanti fino allora "a quattro o sei segretari consumati nei negozi, e letterati" (Le relazioni degli ambasciatori veneti, p. 95). Si trattava probabilmente del più importante cambiamento - destinato a ulteriori sviluppi - all'interno della Curia papale, che, anche sulla scia dei provvedimenti sollecitati dai sovrani cattolici, subì sotto P. altri interventi riformatori. Ne furono investiti tra il 1561 e il 1562 i maggiori dicasteri e tribunali, con provvedimenti intesi a ridimensionare la pletora degli uffici, a precisarne procedure e competenze - la Penitenzieria dovette astenersi in sede vacante dal giudicare in foro esterno; alla Sacra Rota non vennero più affidate cause criminali -, ad estirparne gli abusi e a migliorarne, come nel caso della Camera apostolica, l'amministrazione interna, attraverso più rigorosi controlli contabili e l'avvio di una moderna pratica di conservazione archivistica del materiale documentario prodotto. Permaneva nel loro funzionamento l'intreccio tra i compiti amministrativo-temporali propri dello Stato e le finalità universali appartenenti alla Chiesa, ulteriormente complicato dal ruolo che in quegli organi finivano per svolgere "familiari" la cui autorità proveniva dal loro diretto rapporto col papa, come nel caso del tesoriere segreto, amministratore delle entrate personali del sommo pontefice e con competenze sia nella Camera, sia nella Dataria. Si trattò di riforme attinenti più all'operato della Chiesa come autorità universale e spirituale che all'ambito d'intervento della sua potestà temporale. Sotto quest'altro aspetto, nonostante le misure restrittive prese dallo stesso P. ad esempio in materia di feudi e alienazioni territoriali (misure in verità contraddittorie), ovvero in campo annonario, con il divieto di esportazione dei grani, già imposto alle province attorno a Roma e ampliato a tutto lo Stato pontificio, prevalse, più che una volontà di centralizzazione, la salvaguardia dell'equilibrio raggiunto tra feudalità, ceti dirigenti cittadini e legati papali nei decenni precedenti; in particolare la politica di papa Medici può essere inquadrata nella serie di provvedimenti adottati dalla Santa Sede per dare omogeneità giuridica ai regimi patriziali delle differenti realtà cittadine, definendone i meccanismi d'accesso, formalizzandone lo status di ceti separati, riconoscendo loro onori e privilegi e la compartecipazione nella gestione del potere locale. A causa del vistoso aumento delle uscite - in particolare per l'organizzazione del concilio, la difesa di Avignone, lo sviluppo urbanistico promosso in Roma - anche l'organizzazione fiscale e finanziaria dovette in parte essere rivista. Si fece fronte alle enormi spese soprattutto attraverso un pesante fiscalismo, che colpì le popolazioni degli Stati pontifici causando le agitazioni dell'estate del 1562; servirono allo scopo anche la ripresa su vasta scala della vendita degli uffici, l'incremento dell'attività di composizione "in denari" delle liti giudiziali e la rinnovata pratica, nonostante i decreti tridentini, di "regressi e ogni altra cosa come già si soleva [...], essendosi Sua Santità sempre dimostrata in tali cose assai larga" (ibid., pp. 133-34); le stesse promozioni cardinalizie, immettendo sul mercato le cariche lucrose di chierico e di auditore di Camera che erano state lasciate vacanti dai neoeletti, finivano per costituire una cospicua voce d'entrata. P. incrementò poi il debito pubblico istituendo Monti e cariche onorarie - nel 1560, ad esempio i cavalierati pii -, un totale di cinquecentotrentacinque uffici del valore ognuno di circa 500 scudi, che rappresentavano per il titolare un investimento a interesse e un'immediata promozione sociale. La sensazione degli investitori privati fu tuttavia quella di trovarsi di fronte a un quadro economico-finanziario estremamente debole, in cui gran parte delle entrate dello Stato e della Curia erano praticamente ipotecate, in costante aumento le uscite, soggetti a processi deflazionistici i titoli onorifici, diffuso un forte malessere sociale - a cui fu comunque estranea la cosiddetta "congiura Accolti", frutto delle inclinazioni visionarie e millenaristiche del suo protagonista -, a rischio, per il conflitto religioso in corso, le entrate spirituali, direttamente legate ai ricorsi destinati ai tribunali romani dalle Chiese nazionali e quindi dipendenti dall'autorità e dal prestigio da queste riconosciuti alla Sede apostolica. L'opera di P. in campo culturale e artistico è stata giustamente giudicata degna di un pontefice del Rinascimento. "De' letterati et virtuosi amicissimo, [...] desiderosissimo anchora di favorirli et sollevarli" (Oratione volgare, p. 9), in effetti P. accolse molti intellettuali presso gli uffici curiali e la Biblioteca Vaticana, colmandoli di benefici ed elevando alcuni anche alla porpora, come il grecista Guglielmo Sirleto. Su consiglio di Seripando chiamò a Roma Paolo Manuzio, fondatore della Stamperia Vaticana, che inaugurò la propria attività con la pubblicazione del De Concilio del cardinale Reginald Pole, cui seguì nel marzo 1564 la prima edizione dei decreti tridentini. Nell'Accademia delle Notti Vaticane, fondata dal Borromeo, furono accolti tra gli altri Sperone Speroni, Francesco Alciati, Silvio Antoniano e Giovanni Battista Amalteo: quattro volte la settimana, l'Accademia radunava personalità laiche ed ecclesiastiche, intellettuali, conti, vescovi e cardinali, su argomenti che, dapprima di carattere letterario e filosofico, furono poi tratti dai santi padri, dal vangelo e dalla teologia. Ma fu in campo urbanistico e architettonico, dove si servì in particolare dell'opera di Michelangelo e dell'eclettico Pirro Ligorio, che P. ebbe modo di manifestare compiutamente il proprio mecenatismo, proseguendo l'opera dei pontefici rinascimentali e anticipando quella di Sisto V. Egli pianificò lo sviluppo di Roma fondando, a partire da esigenze difensive, Borgo Pio; migliorò la rete viaria, ampliando vecchie strade, aprendone di nuove e restaurando le porte cittadine (affidò a Michelangelo il progetto di Porta Pia); continuò la costruzione di S. Pietro; portò a compimento il Belvedere, col famoso Nicchione, e il Casino che porta il suo nome, su progetto del Ligorio e con decorazioni interne di Federico Zuccari e Federico Barocci; favorì numerose altre fabbriche, civili e religiose, obbligando i cardinali al restauro delle chiese di cui erano titolari e trasformando egli stesso le Terme di Diocleziano in S. Maria degli Angeli, sempre su disegno di Michelangelo. Come già era accaduto in Roma con la "Civitas Pia", i lavori in Castel S. Angelo (la cinta muraria pentagonale) e le mura ancora più imponenti che tuttora corrono a sud della basilica, le preoccupazioni militari, frutto delle esperienze di guerra vissute a fianco del fratello, ma soprattutto dei rischi corsi dalla città sotto Paolo IV, spinsero papa Medici a intraprendere opere di fortificazione anche nei porti di Civitavecchia, Ostia, Ancona e in altre città dello Stato come Anagni, Bologna e Ravenna, sulla scorta delle informazioni raccolte dal nipote Gabriele Serbelloni, esperto di ingegneria militare. Pochi mesi prima di morire, il 18 maggio 1565, P. tracciava davanti ai cardinali riuniti in Concistoro una sorta di bilancio del proprio pontificato, ritornando sui temi a lui cari della lega contro i Turchi, della nomina del successore, delle conseguenze per la Santa Sede della politica nepotistica. Diviso tra pentimento per gli errori commessi e consapevolezza della necessità di imporre delle regole più rigide per impedire lo sfaldamento della Sede apostolica, trovava comunque ancora modo di giustificare alcuni favori concessi al nipote Borromeo e al cardinale Medici (l'alienazione di parte della vigna di Giulio III) e di chiedere per il cardinal Gonzaga la chiesa di Mantova, con facoltà di regresso e diritto di pensione. Segno emblematico di un'attività riformatrice costretta entro l'"antico" sistema di valori, la "pietas", il dovere di carità verso il proprio clan, conobbe un ultimo sussulto l'8 dicembre, sul letto di morte. P. chiese ai cardinali riuniti nelle sua stanza 100.000 scudi per il nipote conte Iacopo Annibale Altemps, 40.000 per la dote della nipote Cecilia, altri 10.000 per il fratello Agosto, marchese di Marignano, e i nipoti Gabriele Altemps, Fabrizio e Gabriele Serbelloni; probabilmente - ma su questo le interpretazione degli storici sono discordi - tali richieste non poterono essere soddisfatte: lo impedivano, teoricamente, i limiti di spesa in sede vacante stabiliti nella bolla di riforma del conclave del 1562, peraltro rivisti in quello stesso 8 dicembre dal Sacro Collegio. Rimaneva da eseguire il testamento, redatto l'8 febbraio 1564 da Alessandro Pellegrini: erede per un quinto era stato dichiarato da P. il fratello Agosto; per le altre quattro parti i beneficiati erano i figli delle due sorelle, Carlo Borromeo e i fratelli Marco Sittico, Iacopo Annibale e Gabriele Altemps; a favore di Gian Battista e Gabriele Serbelloni e delle nipoti Ortensia Borromeo e Cecilia Medici erano stati disposti alcuni legati. P. morì il 9 dicembre 1565, probabilmente per le complicazioni seguite a una infezione alle vie urinarie, accompagnata da febbre elevata. Il suo corpo, sepolto dapprima in S. Pietro, fu definitivamente trasferito in S. Maria degli Angeli il 4 gennaio 1583.
fonti e bibliografia
Su P. manca una moderna biografia; il lavoro più importante rimane quello di L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, VII, Roma 1950, a cui si rimanda per tutta una serie di indicazioni archivistiche e bibliografiche (in partic. v. Appendice, pp. 652-64, sulle diverse redazioni della Vita di Pio IV di Onofrio Panvinio, edite tra il 1562 e il 1567; e a questo proposito cfr. A. Aubert, Paolo IV. Politica, Inquisizione e storiografia, Firenze 1999, pp. 167-86). Al lavoro del Pastor è da affiancare, per quanto concerne gli anni precedenti il pontificato, L. Besozzi, Giovannangelo Medici (Pio IV) nei documenti dell'Archivio di Frascarolo (1525-1559), "Libri e Documenti", 11, 1982, nr. 2, pp. 1-23; nr. 3, pp. 14-30, basato su documentazione dell'archivio di famiglia dei marchesi di Marignano, conservato a Frascarolo, in provincia di Varese (cfr. F. Calvi, Famiglie notabili milanesi. Cenni storici e genealogici, IV, Milano 1885, in partic. Medici di Marignano, tavv. III, IV). Qualche ulteriore notizia su P. e la sua famiglia anche nel recente C. Amelli, Il cuore e la legge. Giovanni Angelo Medici papa Pio IV, Melegnano 1995. Sempre utili le informazioni contenute in: L. Cardella, Memorie Storiche de' Cardinali di Santa Romana Chiesa, IV, Roma 1793, pp. 293-97; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XLIV, Venezia 1847; LIII, ivi 1852, rispettivamente s.v. Medici, e Pio IV; L. von Ranke, Storia dei papi, I, Firenze 1965, pp. 233-56, e ad indicem.
Tra le fonti inedite meritano particolare attenzione quelle dell'A.S.V.: Segr. Stato, Principi, 18 (per il periodo relativo alla guerra di Parma), 22-6, 28; Segr. Stato, Spagna, 1, 2, 39, 469; Segr. Stato, Germania, 4, 10, 64-6, 730, 762-64; Segr. Stato, Napoli, 319, 319A, 412; Segr. Stato, Polonia, 1A, 5, 5A; Segr. Stato, Savoia, 224, 224A, 343; Segr. Stato, Venezia, 2, 361, 386, 420-22; Segr. Stato, Legaz. Avignone,
Ricchi di documentazione sono gli Arm. I-XV, coi loro rimandi ai Vat. lat. della B.A.V. (a titolo di esempio: per il caso Carafa, 12086; per le diverse redazioni della vita di P. di Onofrio Panvinio, 12114-21; per i "Diaria" dell'epoca, 12280, 12282, 12309, 12326, 12423, 12424). Per i brevi, oltre ai regesti degli Indici 309 e 738: Arm. XXXIX, 64; Arm. XLII, 13-23; Arm. XLIV, 7, 10, 11; inoltre: Cam. Ap., Div. Cam.; Arch. Concist., Acta Camerarii, 9, 10; Arch. Concist., Acta Vicecanc., 9; Arch. Concist., Acta Misc., 10, 11, 12, 34, 63, 65; Arm. LII, Registrorum Signaturarum, voll. 1, 2, 3, 4; per i Reg. Lat., in partic. 1860-66, 1868; per i Reg. Vat., 1855-1934. Inoltre ricordiamo a titolo di esempio per le interessanti informazioni biografiche relative ai singoli auditori ammessi sotto P., S. R. Rota, Processus in Admissione Auditorum, b. 1, fascc. 22-6. Nella B.A.V. documentazione di un certo interesse la si ritrova, oltre che nei Vat. lat., anche in: Barb. lat. (es.: 846, registro delle lettere di Carlo Borromeo ed altri durante il concilio; 2793 e 2800, "Diaria" dell'epoca; 5360, Ragionamento di Pio IV de re publica del 1565 18 maggio in Concistoro, cc. 21-9; 5698, lettere originali di P. degli anni 1556-1559, cc. 7-22); Ottob. lat. (es.: 2690, Relatione delli due pontificati Pio IV e Pio V. Scritta al re di Spagna Filippo II).
Per le fonti edite:
Legazioni di Averardo Serristori, ambasciatore di Cosimo I a Carlo V e in corte di Roma (1557-1568), a cura di G. Canestrini, Firenze 1853, pp. 383-416.
Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, ser. II, IV, ivi 1857.
Bullarum, diplomatum et privilegiorum Sanctorum Romanorum Pontificum [...], VII, a cura di A. Tomassetti, Augustae Taurinorum 1862, pp. 1-422.
Nuntiaturberichte aus Deutschland, 1560-1572, I, Die Nuntien Hosius und Delfino, 1560-1561, a cura di S. Steinherz, Wien 1897; II, Nuntius Commendone 1560 (Dezember)-1562 (März), a cura di A. Wandruszka, Graz-Köln 1953; III, Nuntius Delfino 1562-1563, a cura di S. Steinherz, Wien 1903; IV, Nuntius Delfino 1564-1565, a cura di S. Steinherz, ivi 1914; V, Nuntius Biglia 1565-1566, Commendone als Legat auf dem Reichstag zu Augsburg 1566, a cura di I.Ph. Dengel, ivi-Leipzig 1926; Correspondencia diplomática entre España y la Santa Sede durante el pontificado de s. Pio V, a cura di L. Serrano, I, Madrid 1914, ad indicem.
K. Fry, Giovanni Antonio Volpe Nuntius in der Schweiz. Dokumente, I, Die Erste Nuntiatur 1560-1564, Firenze 1935.
Nunziature di Savoia, I, a cura di F. Fonzi, Roma 1960 (Fonti per la Storia d'Italia, 44); cfr. L. Chevaillier, Les origines et les premières années de fonctionnement de la "Nonciatura de Savoia" à Turin (1560-1573), in Études d'Histoire du droit canonique dédiées à Gabriel Le Bras, I, Paris 1965, pp. 489-512.
Acta Nuntiaturae Gallicae, XIV, Correspondances des nonces en France Lenzi et Gualterio, légation du cardinal Trivultio (1557-1561), a cura di J. Lestocquoy, Rome 1977 (è tuttora inedito il volume annunciato negli anni Ottanta a cura dello stesso autore per la Nunziatura di Prospero Santa Croce, 1561-1565).
L. Baldisseri, La Nunziatura in Toscana, Città del Vaticano-Guatemala 1977.
Acta Nuntiaturae Polonae, VI, Iulius Ruggieri (1565-1568), a cura di Th. Glemma-S. Bogaczewicz, Roma 1991.
L. Nanni, Epistolae ad principes, I, Leo X-Pius IV (1513-1565), Città del Vaticano 1992, pp. 349-472.
G. Rosselli, L'Archivio della nunziatura di Venezia, sez. II (an. 1550-1797), ivi 1998.
Di particolare rilievo per la documentazione in essi contenuta anche:
Negociations ou lettres d'affaires ecclesiastiques et politiques escrittes au pape Pie IV et au cardinal Borromée depuis canonizé Saint par Hippolite d'Est [...] legat en France, au commencement des guerres civiles, Paris 1650.
Calendar of State Papers and Manuscripts Relating to English Affairs Existing in the Archives and Collections of Venice, a cura di R. Brown, V-VII, London 1873-90, ad indicem.
G. Campori, CIII lettere inedite di sommi pontefici scritte avanti e dopo la loro esaltazione, Modena 1878, pp. 13-28.
Nonciatures de France. Nonciatures de Paul IV (avec la dernière année de Jules III et Marcel II), a cura di R. Ancel, I, Paris 1909, ad indicem.
Per il periodo precedente il papato, oltre al citato lavoro di L. Besozzi e a C. Marcora, Lettere del cardinale Giovanni Angelo Medici (Pio IV) al nipote Carlo Borromeo, "Studia Borromaica", 3, 1989, pp. 289-301 (ma v. ibid., anche in altri scritti, interessanti riferimenti a P.), v. alcuni saggi relativi alla vita del fratello Gian Giacomo: M.A. Missaglia, Vita di Gian Giacomo Medici Marchese di Marignano [1605], Milano 1854.
L. Bignami, Nel crepuscolo delle signorie lombarde (Gian Giacomo de Medici, 1495-1555), ivi 1925.
Inoltre: Ricordi della città di Perugia dal 1527 al 1550 di Cesare di Giovannello Bontempi. Continuata fino al 1563 da Marcantonio Bontempi, "Archivio Storico Italiano", 16, 1851, nr. 2, p. 395.
F. Calvi, Il gran cancelliere Francesco Taverna conte di Landriano e il suo processo secondo nuovi documenti, "Archivio Storico Lombardo", 9, 1882, pp. 38-9.
A. Pieper, Die Päpstlichen Legaten und Nuntien in Deutschland, Frankreich und Spanien seit der Mitte des 16. Jahrhunderts, I, 1550-1559, Münster 1897, pp. 150-54.
E. Scarabelli-Zunti, Consoli, governatori e podestà di Parma dal 1100 al 1935, Parma 1935, pp. 81-3.
F. Arese Lucini, Introduzione all'età patrizia, in Storia di Milano, XI, Il declino spagnolo (1630-1706), Milano 1958, pp. 7-13.
C. Marcora, La chiesa milanese nel decennio 1550-1560, "Memorie Storiche della Diocesi di Milano", 7, 1960, pp. 331-63.
R. Comandini, Relazioni intercorse fra il marchese Giacomo Malatesta (1530-1600) e le famiglie milanesi Medici e Borromeo, Faenza 1964.
M. Troccoli-Chini-H. Lienhard, La diocesi di Como (fino al 1884), in Helvetia Sacra, sez. I, Arcidiocesi e diocesi, t. 6, Basilea-Francoforte sul Meno 1989, p. 185.
Legati e governatori dello Stato pontificio (1550-1809), a cura di Ch. Weber, Roma 1994, p. 635.
Sul conclave del 1559:
F. Petrucelli della Gattina, Histoire diplomatique des conclaves, II, Paris 1864, pp. 118-70.
R. de Hinojosa, Felipe II y el Cónclave de 1559, Madrid 1889.
Th. Müller, Das Konklave Pius' IV. 1559, Gotha 1889.
L. Staffetti, L'elezione di papa Pio IV, "Archivio Storico Lombardo", 23, 1896, pp. 158-63.
Diario romano di Niccolò Turinozzi (anni 1558-1560), a cura di P. Piccolomini, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 32, 1909, pp. 5-28.
M. François, Denis Lambin et le conclave de 1559, in Mélanges offerts à M. Abel Lefranc, Paris 1936, pp. 301-06.
R. Rezzaghi, Cronaca di un conclave: l'elezione di Pio IV (1559), "Salesianum", 48, 1986, pp. 539-81.
Sulla prima fase del papato di P. e il caso Carafa:
E. Motta, Otto pontificati del Cinquecento (1555-1591) illustrati da corrispondenze trivulziane, "Archivio Storico Lombardo", 30, 1903, pp. 352-60.
R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1965, ad indicem.
G. Evangelisti, Il "caso" Pallantieri (1561-1571): ovvero le due giustizie, "Il Carrobbio", 10, 1984, pp. 109-19.
A. Aubert, Paolo IV, ad indicem.
Per il periodo conciliare e i rapporti con le principali monarchie europee e principati italiani, oltre a Die Römische Kurie und das Konzil von Trient unter Pius IV. Actenstücke zur Geschichte des Koncils von Trient, I-IV, a cura di J. ŠSusta, Wien 1904-14 e a Concilii Tridentini Diariorum, pt. II, a cura di S. Merkle, Friburgi Brisgoviae 1911, v. Ottho Truchsess, Praefatio, in Societatis Jesu Defensio versus Obtrectatores ex testimonio et literis Pij Quarti Pontificis Maximi, Dilingae 1565.
P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino, Londra 1619 (sotto il nome di Pietro Soave Polana).
S. Pallavicino, Dell'Istoria del Concilio di Trento, I-III, Roma 1657.
Colección de documentos inéditos para la historia de España, IX, Madrid 1846.
E. Reimann, Unterhandlungen Ferdinands I. und Pius' IV. über das Konzil im Jahre 1560 und 1561, "Forschungen zur Deutschen Geschichte", 6, 1866, pp. 585-621.
Avvertimenti del cardinal di Mantova Ercole Gonzaga al nipote Cesare per l'andata sua in corte a Roma, a cura di F. Zamponi, Firenze 1872.
G.B. Intra, Di Ippolito Capilupi e del suo tempo, "Archivio Storico Lombardo", 20, 1893, pp. 97-101, 121-37.
R. de Hinoyosa, Los despachos de la diplomacia pontificia en España, I, Madrid 1896, pp. 111-67.
G. Drei, La politica di Pio IV e del cardinale Ercole Gonzaga (1559-1560), e Il card. Ercole Gonzaga alla presidenza del Concilio di Trento, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 40, 1917, rispettivamente alle pp. 65-115 e 205-23.
G. Baserga, Carteggio diplomatico del vescovo di Como Gio. Antonio Volpi colle varie corti d'Italia nel secolo XVI, "Periodico della Società Storica della Provincia e Antica Diocesi di Como", 25, 1924, pp. 24-36.
J. Birkner, Das Konzil von Trient und die Reform des Kardinalkollegiums unter Pius IV., "Historisches Jahrbuch", 52, 1932, pp. 340-55.
H.O. Evennett, Pie IV et les bénéfices de Jean du Bellay. Étude sur les bénéfices français vacants en curie après le concordat de 1516, "Revue d'Histoire de l'Église de France", 22, 1936, pp. 28-461.
A. Cocconcelli, La rivalità dei Farnese e la riconciliazione voluta da Pio IV a mezzo di san Carlo Borromeo e del Cardinal di Mantova, Reggio Emilia 1937.
L. Castano, Mons. Nicolò Sfondrati vescovo di Cremona al Concilio di Trento 1561-1563, Torino 1939.
Id., Pio IV e la curia romana di fronte al dibattito sulla residenza, 7 marzo-11 maggio 1562, "Miscellanea Historiae Pontificiae", 7, 1943, pp. 139-75.
R. Quazza, Pio IV e il giuspatronato dulla cattedrale di Mantova, "Atti e Memorie dell'Accademia Virgiliana di Mantova", n. ser., 27, 1949, pp. 99-128.
H. Jedin, La politica conciliare di Cosimo I, "Rivista Storica Italiana", 62, 1950, pp. 345-496.
E. De Moreau, Histoire de l'Église en Belgique, V, L'Église des Pays-Bas 1559-1633, Bruxelles 1952.
R. De Simone, Tre anni decisivi di storia valdese. Missioni, repressione e tolleranza nelle valli piemontesi dal 1559 al 1561, Romae 1958.
P. Paschini, Cinquecento romano e Riforma cattolica, ivi 1958.
Id., Venezia e l'Inquisizione romana da Giulio III a Pio IV, Padova 1959.
M. Dierickx, Documents inédits sur l'Érection des Diocèses aux Pays-Bas (1521-1570), II, De la promulgation des bulles de circonscription et de dotation à la désincorporation des abbayes brabançonnes (août 1561-juillet 1564), Bruxelles 1961.
P. Prodi, Operazioni finanziarie presso la corte romana di un uomo d'affari milanese nel 1562-63, "Rivista Storica Italiana", 73, 1961, pp. 640-59.
I. Cloulas, L'aide pontificale au parti catholique et royal pendant la première guerre de religion d'après les dépêches du nonce Santa-Croce, "Bibliothèque de l'École des Chartes", 120, 1962, pp. 153-71.
R. De Simone, L'invito di Pio IV ad Ivan IV Zar di Russia per la partecipazione al Concilio di Trento, "Unitas", 17, 1962, pp. 342-63.
F.G. Cuéllar, Política de Felipe II en torno a la convocación de la tercera etapa del Concilio Tridentino, "Hispania Sacra", 16, 1963, pp. 1-36.
G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo, Roma 1964, pp. 95-101.
La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto Centenario della Fondazione (1564-1964), Città del Vaticano 1964.
M. Scaduto, L'epoca di Giacomo Laínez 1556-1565. Il governo, Roma 1964, ad indicem.
P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), I-II, ivi 1967, ad indicem.
M. Scaduto, L'epoca di Giacomo Laínez 1556-1565. L'azione, ivi 1974, ad indicem.
J.I. Tellechea Idígoras, Carranza y Pio IV. El proceso (1559-1564) enjuiciado por el reo, "Salmanticensis", 22, 1975, pp. 527-54.
N.M. Sutherland, The Cardinal of Lorraine and the Colloque of Poissy 1561. A Reassessment, "The Journal of Ecclesiastical History", 28, 1977, pp. 265-89.
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H.D. Wojtyska, San Carlo Borromeo esponente della politica pontificia verso l'Europa centro-orientale, "Archivio Ambrosiano. Ricerche Storiche sulla Chiesa Ambrosiana", 8, 1978-79, pp. 198-213.
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B. Casado Quintanilla, La cuestión de la precedencia España-Francia en la tercera asamblea del Concilio de Trento, "Hispania Sacra", 36, 1984, pp. 195-214.
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C. Mozzarelli, Formazione aristocratica, riti accademici e studio del diritto in Italia tra Cinque e Settecento. Appunti e dubbi dai casi lombardi, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi-F. Barcia, II, ivi 1990, pp. 489-501.
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Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi-W. Reinhard, Bologna 1996.
A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, ad indicem.
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A. Tallon, La France et le Concile de Trente (1518-1563), Rome 1997.
I tempi del Concilio. Religione, cultura e società nell'Europa tridentina, a cura di C. Mozzarelli-D. Zardin, ivi 1997.
M. Firpo-D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), I, I processi sotto Paolo IV e Pio IV (1557-1561), Città del Vaticano 1998, pp. XXXVII-XCIX.
In generale sullo Stato della Chiesa durante il pontificato di P.:
J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, I-II, Paris 1957-59, ad indicem.
G. Carocci, Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del secolo XVI, Milano 1961, ad indicem.
F. Litva, L'attività finanziaria della Dataria durante il periodo tridentino, "Archivum Historiae Pontificiae", 5, 1967, pp. 79-174.
M. Caravale-A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino 1978, pp. 298-324.
P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982, ad indicem.
B. McClung Halmann, Italian Cardinals, Reform, and the Church as Property, Berkeley-Los Angeles-London 1985, ad indicem.
A. Gardi, Lo Stato in provincia. L'amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna 1994, ad indicem.
B.G. Zenobi, Le "ben regolate città". Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Roma 1994, ad indicem.
Per la Curia di P. e i decreti di riforma, oltre al fondamentale, Die Römische Kurie:
G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XV, Venezia 1842, s.v. Conclave, e Conclavisti.
Th.R. von Sickel, Ein Ruolo di famiglia des Papstes Pius IV., "Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung", 14, 1893, pp. 537-88.
J.B. Sägmüller, Ein angebliches Decret Pius' IV. über die Designation des Nachfolgers durch den Papst, "Archiv für Katholisches Kirchenrecht", 5-6, 1896, pp. 413-29.
P.O. von Törne, Ptolémée Gallio, cardinal de Côme. Étude sur la cour de Rome, sur la secrétairerie pontificale et sur la politique des Papes au XVIe siècle, Paris 1907, ad indicem.
E. Cerchiari, Capellani Papae et Apostolicae Sedis Auditores causarum Sacri Palatii Apostolici seu Sacra Romana Rota ab origine ad diem usque 20 septembris 1870, II, Romae 1920, pp. 103-08.
P. Paschini, Il primo soggiorno di s. Carlo Borromeo a Roma 1560-65, Torino 1935.
J. Lestocquoy-L. Duval Arnould, Le cardinal Santa Croce et le Sacré Collège en 1565, "Archivum Historiae Pontificiae", 18, 1980, pp. 262-96.
G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997, ad indicem.
A. Menniti Ippolito, Note sulla Segreteria di Stato come ministero particolare del Pontefice Romano, in La Corte di Roma tra Cinque e Seicento. "Teatro" della politica europea, a cura di G. Signorotto-M.A. Visceglia, Roma 1998, pp. 167-87.
Sul mecenatismo e gli aspetti culturali e storico-artistici:
Oratione volgare dell'Eccellente M. Alessandro Lionardi. Al Beatissimo et Santissimo Nostro Signore Papa Pio IV. Dedicata all'Illustrissimo et Reverendissimo Signor Cardinale Borromeo, Padova 1565.
L. Beltrami, Il Palazzo di Pio IV in Milano, Roma 1889.
S. Ambrosoli, Una medaglia poco nota di papa Pio IV nel R. Gabinetto Numismatico di Brera in Milano, "Archivio Storico Lombardo", 30, 1903, pp. 409-27.
W. Friedlaender, Das Kasino Pius des Vierten, Leipzig 1912.
L. Berra, L'accademia delle Notti Vaticane fondata da san Carlo Borromeo, Roma 1915.
Il Palazzo di Pio IV sulla via Flaminia a Roma, Milano-Roma 1923 (rist. a cura dell'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, 1989).
P. Paschini, I papi milanesi. Pio IV, in Italia Romana. Lombardia Romana, Milano 1938, pp. 195-231.
F. Barberi, Paolo Manuzio e la Stamperia del Popolo Romano (1561-1570), Roma 1942.
A. Patrignani, Ombre sulla grande figura di un papa milanese. Pio IV, "Rivista Italiana di Numismatica", 52-3, 1950-51, pp. 75-84.
E.B. McDougall, Michelangelo and the Porta Pia, "Journal of the Society of Architectural Historians", 19, 1960, pp. 97-108.
R. De Maio, La biblioteca vaticana sotto Paolo IV e Pio IV (1555-1565), in Collectanea Vaticana in onore del card. M. Anselmi Albareda, Città del Vaticano 1962, pp. 265-313.
A. Ciceri, Pio IV e il Duomo, "Diocesi di Milano", 6, 1965, pp. 412-17.
M. Fagiolo-M.L. Madonna, La Roma di Pio IV, "Arte Illustrata", 5, 1972, pp. 383-400; 6, 1973, pp. 186-212.
H. Gamrath, Pio IV e l'urbanistica di Roma intorno al 1560, in Studia Romana in honorem Petri Krarup septuagenarii, Odense 1976, pp. 190-203.
R.W. Gaston, Pirro Ligorio, the Casino of Pius IV and Antiques for the Medici: Some New Documents, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 47, 1984, pp. 205-09.
Sul testamento e la morte di P.:
F. Cerasoli, Il testamento di Pio IV (8 febbraio 1564), "Studi e Documenti di Storia del Diritto", 14, 1893, pp. 314 ss.
G.M. March, El Comendador mayor de Castilla Don Luis de Requeséns en el gobierno de Milán 1571-1573, Madrid 1943, p. 200 n. 16.
Sono ovviamente utili le voci del D.B.I. di personaggi legati al pontificato di P., ad esempio Altemps, Borromeo, Carafa, Commendone, ecc.; e i riferimenti a P. nei volumi della Storia d'Italia, diretta da G. Galasso. Tra i profili biografici dei vari dizionari meritano attenzione: E.C., IX, s.v., coll. 1496-98; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1143-44.