PIO V, papa, santo
PIO V, papa, santo. – Antonio Ghislieri nacque a Bosco (oggi Bosco Marengo, Alessandria), all’epoca ducato di Milano, il 17 gennaio 1504 da Paolo e Domenica Augeri.
Nel 1518 entrò nel convento domenicano di S. Maria della Pietà, a Voghera, appartenente alla congregazione riformata di Lombardia, trascorse il noviziato nel convento di S. Pietro Martire a Vigevano ed emise i voti il 18 maggio 1521, prendendo il nome di Michele. Nel 1528, a Genova, ricevette l’ordinazione sacerdotale. Frequentò i corsi dello Studium generale di Bologna, cui risulta iscritto dal 20 dicembre 1529. Divenuto lettore di teologia, insegnò nei conventi di Casale Monferrato e di Pavia. Negli anni Trenta e Quaranta, fu procuratore e poi priore a Vigevano, Soncino e Alba. Nel luglio 1539 fu assegnato al convento di S. Secondo sull’isola veneziana di S. Erasmo: il motivo del breve trasferimento può essere collegato all’incendio che solo un mese prima aveva distrutto gli edifici conventuali e alle operazioni di ricostruzione.
L’11 ottobre 1542 fu nominato dai superiori commissario e vicario inquisitoriale a Pavia. Nel 1543, a Parma, pronunciò le conclusioni pubbliche del capitolo provinciale dell’Ordine sostenendo 36 tesi, la gran parte a confutazione delle dottrine riformate e a difesa della Chiesa, in aderenza con le direttive impartite da Paolo III alle assemblee locali di alcuni Ordini regolari. Nel 1546 partecipò al processo contro i confratelli Cornelio da Alzano e Damiano da Brescia, nel corso del quale raccolse informazioni compromettenti sul vescovo di Bergamo Vittore Soranzo. Nel 1550 fu nominato inquisitore di Como dal capitolo provinciale.
Inseritosi in una situazione di conflitto, Ghislieri rifiutò di sottostare alla volontà del capitolo del duomo e ignorò le disposizioni emanate l’anno prima dalle istituzioni cittadine e confermate dal governatore di Milano. Chiese alle autorità statali di sostenerlo nella sua opera e di promulgare un bando «che tutti gli suggetti a mia jurisditione, debbano ubedire alle monitioni qual me se harano a fare, et che niuno ardisca contradirmi nelle cose pertinenti a esso officio» (in Giannini, 2003, p. 310). Inoltre, alla metà di luglio, alcuni membri del capitolo diocesano furono citati come sospetti di eresia dal S. Uffizio, su sua richiesta. Con queste misure, Ghislieri affermò un doppio principio: l’autorità esclusiva del papa in materia di fede e nella persecuzione dell’eterodossia, da cui discendeva quella dell’inquisitore; e l’identificazione tra l’eretico e chi ostacolava l’opera dell’Inquisizione. Tuttavia, all’inizio di ottobre l’eventualità di un arresto da parte del governatore e atti di violenza correlati alla citazione romana dei canonici lo indussero a lasciare Como.
Il 7 aprile 1551 venne nominato commissario nella causa contro il vescovo Soranzo. È allora, e non nel dicembre precedente, che si colloca la missione a Bergamo, dove si recò passando per Ferrara e presenziando qui, il 30 marzo, all’abiura pubblica di Giorgio Siculo, dal quale tuttavia non ottenne la rinuncia ai propri convincimenti. A Bergamo, che raggiunse il 29 aprile, raccolse testimonianze contro Soranzo e sequestrò casse di libri e i documenti che giudicò di rilievo, suscitando in tal modo la reazione sdegnata delle autorità veneziane e cittadine.
Su suggerimento del cardinale Gian Pietro Carafa, che aveva respinto tutte le proposte avanzate dal maestro generale dei domenicani Francesco Romeo, Giulio III nominò Ghislieri commissario generale dell’Inquisizione in sostituzione di Teofilo Scullica il 3 giugno 1551, e il 9 egli prese parte alla prima seduta.
Svolse subito un ruolo attivo nella causa contro Soranzo, che abiurò il 3 luglio 1551, e nell’inchiesta contro gli ‘spirituali’, che Carafa aveva impiantato fin dal pontificato di Paolo III. Pertanto nel 1552 assistette a interrogatori riguardanti il cardinale Giovanni Morone, il protonotario Pietro Carnesecchi, Soranzo stesso e la loro cerchia: un’indagine investigativa che Ghislieri seguì negli anni successivi anche occultamente.
Dall’interno dell’Ordine domenicano, infatti, si informò Giulio III delle indagini segrete e il papa, che già nel 1551 aveva annullato i provvedimenti contro Soranzo e Planta, le interruppe, recuperò gli incartamenti e sottopose alla propria autorizzazione gli atti contro cardinali e vescovi. Ma diverse testimonianze contro Morone e gli altri inquisiti rimasero nelle mani di Carafa e dal giugno 1553 Ghislieri raccolse nuove prove. Nel 1554, poi, quando Giulio III concesse a Soranzo di rientrare in possesso del vescovato, l’inquisitore di Bergamo fra Adelasio e Ghislieri accusarono il vicario Giulio Agosti, il quale due anni più tardi fu allontanato.
Nel maggio del 1555, con l’ascesa al soglio pontificio di Carafa (Paolo IV), Ghislieri, austero, ascetico e munito di una concezione radicale e intransigente dell’ufficio di inquisitore, acquisì crescenti responsabilità, attestazione del rapporto privilegiato instaurato tra i due uomini.
Dal giugno ripresero le indagini segrete contro il cardinale Morone. Il 1° settembre Ghislieri, insieme con l’assessore Giovan Battista Bizoni, fu investito dei medesimi poteri riservati ai cardinali in materia d’Inquisizione e ottenne la facoltà di agire contro qualunque ecclesiastico e di ordinare la tortura dei rei, dei complici e dei testimoni. Presiedette la commissione composta di soli membri dell’Inquisizione che il papa incaricò di preparare l’Indice dei libri proibiti. Nel 1557 il catalogo fu presentato al pontefice, che non l’approvò malgrado contenesse la condanna di tutti i testi editi da stampatori riformati perché i parametri adottati non erano adeguatamente severi. Il limite, per Ghislieri, era tuttavia diverso: «Di prohibire Orlando, Orlandino, Cento novelle et simili altri libri, più presto daressimo da ridere ch’altrimente, perché simili libri non si leggono come cose a qual si habbi da credere, ma come fabule et come si legono ancor molti libri de gentili, come Luciano, Lucretio et altri simili» (Genova, Biblioteca universitaria, Mss., E.VII.15, c. 76v). Un secondo Indice – estremamente rigoroso nella selezione dei testi e nelle condanne prescritte anche per i detentori o lettori di libri proibiti, ancorché non fossero eretici nel contenuto – fu approntato e pubblicato nel dicembre del 1558. A esso, da pontefice, Ghislieri si sarebbe rifatto indirettamente, pur senza sconfessare l’Indice approvato dal Concilio di Trento nel 1564.
Nel corso del 1556 Ghislieri collaborò anche con gli organi deputati dal papa per la riforma generale della Curia. Insediata il 20 gennaio 1556, la commissione per la riforma generale della Curia, nelle intenzioni del papa, avrebbe dovuto costituire una sorta di concilio generale: Ghislieri partecipò ai lavori nella sezione teologica insieme con il gesuita Diego Laínez, il francescano Felice Peretti e il cardinale Carlo Carafa. Si trattò di un’esperienza breve, che Paolo IV aveva concepito in modo strumentale alla politica estera e che accantonò per creare, dall’autunno, un organo dalle dimensioni ridotte e composto di soli membri dell’Inquisizione, tra cui Ghislieri.
Il 4 settembre 1556 Ghislieri fu nominato vescovo di Nepi e Sutri, quindi prefetto del palazzo dell’Inquisizione; il 15 marzo 1557 ottenne la porpora cardinalizia. Tra la metà del 1557 e l’agosto 1559 l’attività del S. Uffizio, coordinata da Ghislieri con crescente protagonismo, s’indirizzò contro uno schieramento, attentamente ricostruito nella rete di rapporti, più che nei singoli convincimenti, che condivideva, pur con le debite sfumature, posizioni dottrinali, progettualità pastorali di rinnovamento ecclesiale e collocazione filoimperiale.
Alla fine di maggio del 1557, il cardinale Morone fu arrestato, al tempo stesso furono imprigionati i presuli Giovanni Tommaso Sanfelice e Andrea Centani; furono citati Soranzo, che non abbandonò il rifugio veneziano, il vescovo di Modena Egidio Foscarari e, alla fine di ottobre, Pietro Carnesecchi, il quale, accampando ragioni di salute, rifiutò a sua volta di lasciare Venezia. Nella causa contro Morone, condotta insieme con i cardinali Scipione Rebiba, Jean Suau Reuman e Virgilio Rosario, Ghislieri condusse di persona l’esame del prelato. Tali iniziative, dirette contro esponenti del partito filoimperiale, coincisero con il conflitto bellico tra Paolo IV e gli Asburgo; tuttavia Ghislieri prese le distanze dalle scelte del papa e gli espresse le proprie riserve sfidandone l’ira. Nel maggio del 1558 Ghislieri, che era stato nominato tra i cardinali e i canonisti incaricati di pronunciarsi in merito alla legittimità o meno dell’abdicazione di Carlo V e della successione del fratello Ferdinando al titolo imperiale, si fece interprete, insieme con Girolamo Sirleto, di una posizione in linea con l’ostilità antiasburgica del papa, ma più duttile: il riconoscimento pontificio e l’accettazione dell’ambasciatore incaricato di prestare obbedienza dovevano essere subordinati a una politica imperiale di pieno e inequivocabile sostegno alla causa cattolica.
Nel 1558 Ghislieri diresse il processo contro Girolamo Savonarola: un’operazione complessa che condusse con discrezione e abilità impegnando l’Ordine domenicano al proprio fianco a tutela della figura del frate ferrarese e, di contro, a sostegno del procedimento contro Morone, senza però cedere sul piano dei principi. Sempre nel 1558 fu arrestato il vescovo Giovanni Francesco Verdura, membro del gruppo valdesiano meridionale (già citato nel 1552). In aprile Soranzo fu condannato in contumacia e la sede episcopale bergamasca fu dichiarata vacante, ma la morte del presule, meno di un mese dopo, pose fine all’annosa vicenda. In autunno giunse a Roma il domenicano Foscarari, che nel corso dell’anno aveva cercato di trasmettere a Morone carte che potessero scagionarlo, e fu citato il vescovo Pietro Antonio Di Capua, che Giulio III aveva fatto liberare nel 1553 dopo la purgazione canonica.
Il 14 dicembre 1558 il papa in concistoro assegnò a Ghislieri il titolo e la funzione di «summus ac perpetuus inquisitor», a vita. Nel gennaio 1559, Foscarari fu arrestato e in aprile Carnesecchi, già dichiarato contumace, scomunicato e privato dei benefici ecclesiastici, fu condannato.
Nell’agosto del 1559 Paolo IV morì e ancor prima che il papa esalasse l’ultimo respiro la folla prese d’assalto e saccheggiò il palazzo dell’Inquisizione, prelevandone carte e documenti e liberando i detenuti. Il cardinale Morone entrò in conclave il 4 settembre e l’incartamento del suo processo fu bruciato con l’autorizzazione di Ghislieri. In conclave aderì al partito dei Carafa, che intendeva essere un’alternativa agli schieramenti di parte francese e asburgica, e sostenne prima il cardinale Antonio, quindi Giovanni Angelo Medici, che fu eletto il giorno di Natale.
Il 1° gennaio 1560, su commissione del papa, Ghislieri pronunciò la pubblica assoluzione di Foscarari: fu il segnale che lo stile adottato dall’Inquisizione avrebbe dovuto essere moderato e l’ambito d’azione circoscritto (11 gennaio). Ghislieri, confermato nel suo ruolo di inquisitore maggiore, fu infatti affiancato dai cardinali Francesco Pacheco, Giacomo Dal Pozzo, Bernardino Scotti e Rodolfo Pio; inoltre dovette firmare la sentenza assolutoria del cardinale Morone (6 marzo) e nei mesi successivi fu la volta di Mario Galeota, Verdura, Sanfelice e altri arrestati durante il precedente pontificato. Da marzo a novembre, quando fu sostituito da Girolamo Seripando, Ghislieri fu incaricato di compiere la revisione della Vulgata con Scotti.
Il 27 marzo Pio IV gli conferì il vescovato di Mondovì, preferendolo al candidato proposto dal duca Emanuele Filiberto di Savoia.
Tra la seconda metà dell’anno e la prima del 1561 si svolse il processo contro i nipoti di Paolo IV, occasione per liberare i rancori contro gli esiti rovinosi della politica estera antiasburgica del papa e contro i rigori dell’Inquisizione. Nella deposizione rilasciata ai cardinali, Ghislieri narrò di essere stato aggredito verbalmente da Paolo IV per avergli taciuto il comportamento dei congiunti, ma di aver respinto ogni responsabilità perché all’oscuro dei fatti. Seppe così prendere le distanze dai Carafa e da quanti, come il cardinale Rebiba, furono coinvolti nella loro caduta, ma la sua testimonianza non aggravò la posizione degli imputati. In luglio, fu aggregato al collegio giudicante per le accuse di eresia mosse contro Carlo Carafa.
Intanto, nel maggio 1560 intraprese una nuova istruttoria contro Carnesecchi. Con metodici interrogatori, trasformò un atto formale, preludio della sentenza assolutoria voluta dal papa e proclamata il 4 giugno 1561, in occasione per ricostituire la documentazione perduta nell’incendio del S. Uffizio.
Nel febbraio 1561 l’ambasciatore veneziano Marcantonio Da Mula, incaricato di esortare la concessione del pallio al patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, riferì al Senato che il papa aveva dichiarato in toni drammatici la sua impotenza a riguardo e, per giustificare il rifiuto, aveva ordinato a Ghislieri di dare lettura dell’incartamento raccolto dal S. Uffizio sul prelato. La vicenda rivela il potere di selezione e orientamento che i cardinali inquisitori, e tra tutti Ghislieri, erano in grado di esercitare sulle nomine ecclesiastiche e sulla composizione della gerarchia e le dimensioni del conflitto che, proprio su questo ambito di azione, opponeva il papa al tribunale.
Il 29 giugno 1561 Ghislieri lasciò Roma per recarsi a Mondovì. Lo spingevano a quella visita, assai breve peraltro, lo scarso favore del papa e gli eventi romani (da ultimo l’assoluzione di Carnesecchi), ma pure la politica religiosa del duca Emanuele Filiberto. Ghislieri fu munito di una sovrintendenza sulle diocesi del Ducato, oltre che sulla propria, e non solo per le questioni di eresia alle quali era stato deputato con particolari facoltà in luglio. Inoltre avrebbe dovuto indurre il duca a rompere l’accordo di Cavour, siglato il 5 giugno con i valdesi, e a ritirare alcuni decreti che sottraevano agli ecclesiastici la giurisdizione ordinaria e delegata. Giunto a Mondovì il 7 agosto, ordinò la visita pastorale e la compì personalmente in alcuni luoghi. Dopo un primo incontro formale, indirizzò al duca una lettera per esortarlo a revocare l’editto sul foro competente, a soddisfare alcune rivendicazioni del vescovato monregalese e ad assegnargli un bargello che ne eseguisse gli ordini. Già a metà settembre, deluso al punto da meditare la rinuncia del vescovato a favore di F. Spinola, ripartì per Roma, dove giunse alla fine di novembre.
Negli anni seguenti, Ghislieri seguì le missioni dei padri gesuiti Nicolás Bobadilla e Cristoforo Rodríguez tra i valdesi della Calabria e della Puglia e, commentandone l’operato, espresse il personale modo di intendere l’opera di conversione, rigorosa e mirata («doppoi che noi haveremo usato la dolcezza, vedendo che non giovi, si usarà poi la severità, con l’esterminio di quella città et di tutta quella generatione»), e la differenza tra l’inquisitore e il confessore («il confessore crede tutto quello che li viene detto; il giudice ha sempre sospetto il reo della verità, et massime in hoc genere causarum», in Scaduto, 1946, pp. 44 s.).
Mentre a Trento si svolgeva l’ultima fase del Concilio e i padri conciliari nel 1562 avevano ottenuto la facoltà di assolvere e riconciliare i prelati (tra cui Grimani), Ghislieri riprese l’attività investigativa contro il cardinale Morone, capo della legazione pontificia. Alla morte del cardinale Dal Pozzo (aprile 1563), fu informato della presenza degli atti relativi al procedimento contro il cardinale tra gli effetti personali del defunto e ne ordinò la requisizione. Ogni tentativo di Morone di rientrare in possesso delle carte presentate a propria difesa, tra cui l’Apologia redatta durante la detenzione, fallì. Sempre in aprile furono citati otto vescovi francesi, tra cui Jean de Monluc, François de Noailles e Antonio Caracciolo, negoziatori con il cardinale Odet de Coligny (detto di Châtillon) al colloquio di Possy. Nel concistoro del 22 ottobre Ghislieri lamentò la contumacia dei presuli, presentò le accuse e le testimonianze e chiese la condanna di Caracciolo, Monluc e Louis d’Albret, eretici notori, e la sospensione ecclesiastica degli altri. Pio IV ordinò ai cardinali inquisitori di leggere l’incartamento e di decidere quali prelati dovessero essere trattati da eretici e quali da contumaci, quindi pronunciò la sentenza, la cui promulgazione fu rimandata, tuttavia, al momento in cui i cardinali avessero valutato gli atti. La vicenda rappresentò un’abile operazione di Pio IV che ricorse all’Inquisizione romana per esercitare pressioni destinate a portare il Concilio a conclusione.
Per quanto riguarda gli esiti del Concilio, nel concistoro del 26 gennaio 1564 Ghislieri, insieme con Giovan Battista Cicada, sollevò obiezioni alla ratifica dei decreti tridentini reputando che il trasferimento ai vescovi della facoltà di assolvere in foro interno alcuni delitti contro la fede, altrimenti riservata al papa, costituisse una menomazione delle competenze dell’Inquisizione romana. Pio IV, tuttavia, considerò deleteria la messa in discussione o l’approvazione parziale dei decreti e procedette alla loro promulgazione. Fu in questa fase che i rapporti tra Ghislieri e il papa raggiunsero il punto più critico.
Nella prima metà dell’anno il cardinale fu privato dell’alloggio in Vaticano. In giugno un decreto varato dagli inquisitori generali mentre Ghislieri era assente per ragioni di salute gli riconobbe la facoltà di ordinare la carcerazione e di sbrigare la corrispondenza, purché rendesse conto del suo operato. Inoltre la composizione del S. Uffizio fu ritoccata, come già era avvenuto nell’ottobre del 1562 e si sarebbe ripetuto nel 1565: alla fine di luglio 1564 l’ambasciatore veneziano Giacomo Soranzo informava il Senato «che la somma dell’Inquisizione non è più in mano dell’ill.mo Alessandrino; ma sua Santità ha deputato sette cardinali con egual autorità» (Paschini, 1959, p. 144). Eppure, quando il 2 agosto Pio IV istituì la congregazione deputata al Concilio, vi nominò otto cardinali, sette dei quali appartenevano all’Inquisizione, e tra essi naturalmente Ghislieri. Il cardinale, osteggiato dalla volontà del papa di dare al S. Uffizio un governo più collegiale, sperimentò una profonda crisi personale e stabilì di ritirarsi nella sua diocesi. Tuttavia la perdita del mobilio spedito in Piemonte per mare e le condizioni fisiche precarie lo convinsero a posticipare la visita alla fine dell’anno, quindi alla primavera successiva, e poi a rinunciare del tutto a partire.
Alla morte di Pio IV si aprì il conclave (20 dicembre 1565). Ghislieri si presentò in concistoro con l’incartamento raccolto contro il cardinale Morone e ne fece cadere la candidatura. Il partito spagnolo, per volontà di Filippo II, si rimise al giudizio del cardinale Carlo Borromeo ed egli, fallite altre candidature, scelse Ghislieri tra quattro candidati proposti dal cardinale Alessandro Farnese. Eletto il 7 gennaio 1566, assunse il nome di Pio V.
Prese avvio così un pontificato previsto, per tutto il primo anno, di breve durata a causa della precaria salute del papa. Pio V si circondò di compagni della sua attività nel S. Uffizio, come il segretario Girolamo Rusticucci e il teatino Marco Antonio Maffei, e di uomini legati a Carafa, quali i cardinali Reuman, Vitellozzo Vitelli, Rebiba e Scotti. Questi ultimi due, insieme a Giovan Francesco Gambara e a Pacheco, furono deputati all’Inquisizione, il cui organico fu ridimensionato già il 17 gennaio. Il 6 marzo nominò cardinal nepote il pronipote ex sorore Michele Bonelli, anch’egli domenicano, che gli avrebbe dovuto sottoporre tutti gli atti compiuti, pena la nullità. Pio V, infatti, mostrò subito grande autonomia di giudizio e di azione e, con la partenza per Milano di Borromeo, la morte alla fine di aprile di Reuman e il ritiro nell’ombra di Farnese e Vitelli, fu in grado di operare in completa libertà. Entro pochi mesi, la macchina di governo era organizzata in modo minuzioso: la settimana era scandita dagli incontri delle congregazioni del Concilio, degli studi, della riforma del breviario, dell’Inquisizione e della riforma del clero, alle cui ultime due Pio V partecipava di persona.
L’azione pastorale rivolta a Roma, di cui fu incaricato Nicola Ormaneto, fu eletta a emblema dell’applicazione dei decreti tridentini e del buon governo del principe cristiano. Il papa dette impulso alla visita apostolica che si protraeva da circa due anni, fece concludere l’indagine dei monasteri femminili e, dal settembre 1566, si intraprese una nuova revisione delle parrocchie. Inoltre il cardinale vicario Giacomo Savelli emanò un importante provvedimento che regolava la vita dei preti (Edictum super reformatione cleri Urbis). Fin dal primo concistoro, il 23 gennaio, Pio V aveva ordinato che ogni prelato lasciasse Roma per andare a risiedere presso la propria chiesa e aveva espresso il desiderio che i cardinali-vescovi vi si trattenessero per almeno sei mesi. Alla metà del 1567 si ridussero l’organico della corte e la spesa sulle regalie; negli anni successivi analoghi provvedimenti interessarono le guardie svizzere e i benefici con obbligo di residenza dei cortigiani. Anche i costumi della cittadinanza furono interessati dalla nuova severità: dal 1566 si susseguirono l’ordine ai medici di sospendere le cure dei malati se rifiutavano i sacramenti; l’editto contro il perturbamento del culto; ripetute prescrizioni suntuarie; l’espulsione di zingari e vagabondi; l’inasprimento delle pene per il reato di adulterio; la residenza coatta delle prostitute (agosto 1568). Di contro si aiutarono alcune delle istituzioni deputate all’assistenza con cospicue donazioni del papa o con la difesa delle proprietà. Nel 1567 si promosse l’esame di tutti i confessori delle chiese di Roma. Nel 1569 si costituì una nuova commissione di visitatori delle parrocchie, scelta dalla Congregazione dell’Oratorio. Nel 1571 si stabilì anche a Roma la confraternita della Dottrina cristiana. Il 19 aprile 1566 Pio V aveva ripristinato le norme antigiudaiche di Paolo IV (bolla Romanus pontifex); l’anno seguente gli ebrei furono privati del diritto di proprietà su qualunque bene acquisito durante il precedente pontificato; si abbassò e poi eliminò il tasso di interesse sul prestito ebraico e, infine, il 26 febbraio 1569 fu decretata l’espulsione delle comunità dallo Stato della Chiesa, a eccezione delle città di Roma, Ancona e Avignone (bolla Hebreorum gens sola).
Dal 1566 si lavorò alla riforma delle istituzioni giudiziarie e degli uffici di Curia, ma non si oltrepassò lo stadio del progetto; invece si agì su alcuni organi ecclesiastici per eliminare gli abusi. La Dataria fu sottoposta alla direzione di Maffei e il papa nell’aprile 1567 si riappropriò del diritto di assegnare chiese e benefici, concesso dai suoi predecessori ai cardinali. La Penitenzieria, di cui Ghislieri era stato il secondo al vertice, fu abolita, poi riformata con competenze limitate (18 maggio 1569). Il S. Uffizio fu rinforzato soprattutto nelle risorse materiali a sua disposizione.
La politica finanziaria di Pio V, condizionata dagli esosi obiettivi religiosi e diplomatici del pontefice, puntò alla crescita delle entrate e al recupero delle rendite ecclesiastiche fruite da privati: l’importante bolla del 29 marzo 1567 (bolla Admonet nos) impose l’inalienabilità delle terre di pertinenza della Chiesa e il divieto di infeudarle.
L’attività benefica e il mecenatismo di Pio V furono coerenti con il programma di severo rinnovamento religioso. Per onorare Paolo IV Carafa, incaricò Pirro Ligorio di realizzare un monumento in S. Maria sopra Minerva e tributò un siffatto riconoscimento ad altre personalità ecclesiastiche, come i cardinali Rodolfo Pio e Antonio Carafa. Tutte le statue dell’antichità classica furono eliminate dai palazzi papali; in Vaticano fece erigere solo la torre Pia, dotata di tre cappelle. A livello urbanistico il papa provvide a far ripristinare l’acquedotto dell’Acqua Vergine e altre fonti di approvvigionamento idrico. Nel 1567 ideò e promosse la creazione di un collegio a Pavia dove ospitare alcuni giovani per un periodo settennale di formazione. Ad Assisi, infine, fu avviata la costruzione della basilica di S. Maria degli Angeli.
La volontà papale di dare compimento all’ideale tridentino investì, oltre a Roma, l’intera Chiesa. L’attività pastorale fu monitorata attraverso i visitatori apostolici nella penisola e Oltralpe: nel 1566 Tommaso Orfini ispezionò le chiese del Regno di Napoli e Leonardo Marini fece altrettanto lungo l’Italia centro-settentrionale; Giulio Pavesi, nella primavera di quell’anno, fu incaricato di indagare lo stato della Chiesa e del clero nei Paesi Bassi; nel 1569 Bartolomeo di Porcia visitò il patriarcato di Aquileia e il legato Giovan Francesco Commendone i conventi della Germania meridionale.
Nelle due creazioni cardinalizie del marzo 1568 e del maggio 1570, pur seguendo anche logiche politiche, Pio V premiò quelle che reputava le forme di impegno ideali in seno alla Chiesa: la scelta monastica e quella inquisitoriale, replicate anche nella selezione episcopale. Il controllo sul reclutamento del clero e delle gerarchie ecclesiali fu assicurato con l’aumento dei seminari e l’esame dei presuli italiani e con la creazione nel 1567 di una commissione, composta da Maffei, Giulio Antonio Santoro e Tommaso Feruffini, incaricata di vagliare coloro che sarebbero stati proposti per un vescovado o un’abbazia. Nel 1572, infine, fu istituita la congregazione dei Vescovi e regolari. Pio V procedette anche alla riforma del clero regolare ispirandosi alla riflessione curiale, risalente al Consilium de emendanda ecclesia (1537), e al Concilio di Trento. Dal novembre 1566 i rami conventuali degli Ordini mendicanti furono soppressi e riuniti agli osservanti o a un Ordine affine. Il papa impose la clausura, l’ufficiatura corale, la professione solenne e il divieto di risiedere fuori dal convento e quello di passare da un ordine all’altro (bolla Regularium personarum, 24 dicembre 1566) e sancì l’uso della forza per imporre la riforma (bolla Cum sicut, 15 giugno 1567). Fu inasprita la clausura dei conventi con gravi conseguenze su alcune forme di impegno devozionale, quale, per esempio, quella ideata da Angela Merici, che fino ad allora era stata una compagnia di donne che conservavano lo stato laicale. Nel 1571 l’Ordine degli umiliati, alcuni dei quali erano stati ritenuti responsabili di un attentato contro Borromeo, loro cardinale protettore e riformatore, venne soppresso. Furono, d’altro canto, promossi organismi di recente costituzione come i barnabiti e i fratelli della misericordia. I domenicani, che avevano ottenuto dal papa la precedenza su tutti gli altri Ordini mendicanti (27 agosto 1566), furono deputati a gestire la devozione del Rosario (29 giugno 1567).
Importante fu anche l’opera di preparazione ed edizione dei testi liturgici: nel 1566 il Catechismo romano, approntato nel 1565 da una commissione presieduta da Borromeo, ma poi rivisto dal cardinale Sirleto; nel 1568 il Breviario e due anni più tardi il Messale. Nel 1566 il papa costituì una commissione per riesaminare il Corpus Iuris Canonici; nel 1569 fu la volta di una congregazione per l’edizione della Bibbia. Nel marzo del 1571, fu istituita una congregazione per la revisione dell’Indice del 1564, a cui furono deputati i cardinali Souchier, Bianchi, Giustiniani e Peretti. Nell’aprile 1572 quest’organo ripristinò l’Indice paolino, che il Concilio di Trento aveva mitigato. Nel 1567 Pio V nominò Tommaso d’Aquino dottore della Chiesa e nel 1570 ne promosse personalmente l’edizione delle opere. Il 1° ottobre 1567 condannò (bolla Ex omnibus afflictionibus) oltre settanta tesi contenute nelle opere del teologo e scritturista Michele Baio (de Bay), pur senza nominare il professore della facoltà di Lovanio. Su consiglio del cardinale Antonio Perrenot de Granvelle, la bolla non fu pubblicata, ma comunicata all’interessato. Baio si sottomise, ma poco più di un anno dopo indirizzò al papa un’apologia difendendo, per la loro fedeltà al pensiero di s. Agostino, le sole trenta tesi che riconosceva come proprie. Nondimeno, il 13 maggio 1569 Pio V confermò la condanna e impose l’abiura. Baio, allora, si appellò al fatto di non essere stato censurato per il senso letterale delle proposizioni, ma poi cedette, senza che questo atto impedisse il sorgere di una controversia tra suoi sostenitori e avversari.
L’opera di evangelizzazione ricevette un grande impulso soprattutto per il fecondo rapporto tra Pio V e il generale della Compagnia di Gesù Francesco Borgia. Il papa riteneva che fosse opportuno battezzare solo coloro che si sarebbero potuti conservare alla religione cattolica, quindi rafforzarne la fede e poi procedere ad altre conversioni. Il 23 luglio 1568 fu istituita una congregazione cardinalizia per affiancare il pontefice nella guida spirituale delle aree più lontane, composta dai cardinali Da Mula, Alessandro Crivelli, Sirleto e Carafa. Sebbene, dal gennaio dell’anno successivo, si perdano le tracce dell’istituzione, essa fu l’anticipatrice della congregazione de propaganda fide costituita da Urbano VIII. Un’analoga commissione per agire nelle aree europee sotto il dominio dei riformati, in modo particolare per la Germania, fu istituita con Granvelle, Commendone, O. Truchsess e F. Baldo.
Legata al programma di riforma religiosa, di diffusione del cattolicesimo e di contrasto dell’eresia, la politica estera di Pio V perseguì la difesa della giurisdizione ecclesiastica e l’alleanza di tutti i sovrani cattolici in una comune lotta contro gli eterodossi e l’espansionismo turco. Fin dall’inizio, però, gli obiettivi del pontefice non coincisero con quelli dei sovrani cattolici, se non occasionalmente, e Pio V fu costretto a incessanti pressioni diplomatiche e a generosi finanziamenti.
Nel 1566 il papa confermò la legazione di Commendone presso l’imperatore Massimiliano II. Il legato avrebbe dovuto impedire che la Dieta affrontasse questioni religiose stabilite dal Concilio e di pertinenza della Chiesa, ottenere l’applicazione dei decreti tridentini almeno nelle diocesi meridionali e avviare i negoziati per una lega antiturca. Massimiliano II, tuttavia, considerando inopportuna la presenza del legato e dei gesuiti che lo accompagnavano, tentò di far richiamare Commendone, anche se l’aiuto finanziario concesso dal papa per la campagna contro i turchi ammorbidì l’imperatore. L’accettazione dei decreti conciliari negli Stati fedeli alla Chiesa di Roma fu considerato uno splendido risultato, ancorché l’unico ottenuto dal legato. In primavera, con disappunto dell’imperatore, Pio V girò alla regina di Scozia Maria Stuart il sussidio destinato a Massimiliano II, dato che l’attacco turco all’Impero non appariva imminente. In giugno Pio V creò nunzio in Scozia Vincenzo Lauro con l’incarico di affrontare il problema della restaurazione cattolica nell’Isola.
Anche i rapporti con la Francia erano condizionati dal problema dell’introduzione dei decreti tridentini. Carlo IX rifiutò la promulgazione ufficiale e incaricò di esaminare il problema dei personaggi sospettati di aderire alle idee riformate o addirittura condannati, quali il cancelliere Michel de l’Hospital e il vescovo di Valence, Jean de Monluc. Pio V poté inviare, comunque, ai prelati francesi i brevi che imponevano loro l’osservanza e il re acconsentì a decretare l’obbligo di residenza.
Se in Spagna e nei viceregni di Napoli e Milano Filippo II aveva accolto i decreti conciliari, alcune questioni giurisdizionali turbavano le relazioni tra la monarchia e il papato. Pio V e il nunzio Giovan Battista Castagna chiesero senza successo di abolire il recurso de fuerza, che consentiva al governo spagnolo di opporsi a qualunque atto di un’autorità della Chiesa. Però, Filippo II insistette con il papa per ottenere alcuni sussidi derivanti dalla proprietà ecclesiastica. In questo contesto, giunse a Roma la notizia dei disordini iconoclasti accaduti nelle Fiandre all’inizio di agosto. Pio V, avvertito delle concessioni che la reggente Margherita d’Asburgo aveva dovuto fare, protestò con Filippo II e inviò a Madrid Pietro Camaiani per spronare il sovrano a compiere un viaggio nei Paesi Bassi. La missione del nunzio (novembre 1566 - febbraio 1567) si rivelò un fallimento. Vi erano, comunque, altri motivi di dissapore come i diritti esercitati in Sicilia dal sovrano in campo ecclesiastico e l’opposizione esercitata dal Senato milanese alla riforma di Borromeo.
L’intensificata attività dell’Inquisizione aggiunse un ulteriore elemento ai rapporti diplomatici. La riapertura di tutti i procedimenti in corso durante il pontificato Carafa (bolla Inter multiplices curas, 21 dicembre 1566) consentì a principi e a sovrani di assicurarsi il favore del pontefice a spese di alcuni eterodossi. Nel giugno 1566 Pio V chiese al duca Cosimo I la consegna di Pietro Carnesecchi e alla Repubblica di Venezia l’arresto di Guido Giannetti. Mentre il duca inviava a Roma il protonotario in luglio, nei medesimi giorni in cui si avviava il processo contro Carnesecchi, il Consiglio dei dieci autorizzò il fermo di Giannetti, ma si risolse a concedere l’estradizione solo in agosto. In giugno, pochi mesi dopo la morte di Giulia Gonzaga, il papa aveva fatto sequestrare le carte personali della nobildonna, che avrebbero contribuito alla riapertura dei processi contro Carnesecchi e i membri del circolo valdesiano napoletano. Nel dicembre 1566, fu osservata la promessa di Filippo II di fare esaminare a Roma l’arcivescovo di Toledo Bartolomé de Carranza, da sette anni prigioniero dell’Inquisizione spagnola. Sempre in dicembre Pio V pronunciò la sentenza di colpevolezza contro sei degli otto prelati francesi citati nel 1563. Il Parlamento di Parigi, però, rivendicò al sovrano il diritto di applicare la pena e pertanto il provvedimento rimase privo di effetti.
Per tutto il 1567 Pio V continuò a insistere perché Filippo II partisse alla volta dei Paesi Bassi. Tra gli obiettivi che l’eventuale, temporanea presenza del re avrebbe consentito di realizzare, nell’idea di Pio V vi era anche la stipula di una lega con la Francia e l’Impero contro il turco. In marzo Filippo II annunciò ufficialmente il viaggio e il papa gli concesse il diritto di riscuotere in ogni parrocchia la decima dell’uomo più ricco (excusado).
In occasione del giovedì santo Pio V promulgò la bolla In Coena Domini. Già l’anno prima il provvedimento, cui egli affidava la volontà di riaffermare l’autorità della Chiesa, aveva agitato la diplomazia spagnola per le importanti novità contenute, prima delle quali la lettura in volgare nelle chiese. Ora la bolla estendeva le censure previste in ambito fiscale al prelievo delle gabellas e ciò fu considerato dal governo vicereale di Napoli una grave ingerenza nei diritti e nell’autonomia giurisdizionale degli Stati, oltre che un elemento di disordine per la potenziale opposizione delle autorità ecclesiastiche all’esazione delle imposte. Per giunta la pubblicazione della bolla era avvenuta senza richiedere l’autorizzazione regia e per l’analogo comportamento tenuto in occasione della visita apostolica di Orfini le relazioni tra il Vicereame e il papa erano tese fin dall’inverno precedente.
In maggio Carranza giunse a Roma e avviò il procedimento che doveva appurare le accuse di eresia rivolte dall’Inquisizione spagnola. In estate l’Inquisizione agì anche a Mantova con un’indagine che interessava ministri del duca Guglielmo Gonzaga, come Giovan Battista Bertano, e donne della sua famiglia. D’altronde, le estradizioni di Firenze e Venezia, i contemporanei processi a Napoli contro gli ultimi valdesiani, la condanna capitale di Carnesecchi, eseguita il 1° ottobre 1567, l’avvio del procedimento contro Aonio Paleario, in seguito condotto a Roma, così come la vicenda di Bartolomeo Bartocci, che la Repubblica di Genova proprio tra l’autunno e il gennaio 1568 doveva cedere al papa, erano prove inequivocabili del corso dato all’attività inquisitoriale. A Modena, nel biennio 1567-68, fu repressa l’intera comunità eterodossa, a Faenza furono arrestati e portati a Roma numerosi inquisiti, a Bologna e Imola crebbe il numero dei processi. Queste iniziative andarono di pari passo con la volontà di rendere anche sul piano istituzionale più autonoma ed efficace l’azione del S. Uffizio nei diversi Stati italiani.
La tensione franco-spagnola scemò grazie all’opera diplomatica del nunzio Castagna e nel mese di luglio 1567 i pericoli della guerra erano scongiurati. Filippo II annullò in agosto il viaggio nelle Fiandre: l’arrivo dell’esercito guidato dal duca d’Alba e l’arresto di lì a poco dei conti di Egmont e Hornes erano ragioni sufficienti per sospendere quel progetto malvisto dal re e dalla corte. Verso l’intervento militare, il papa riteneva sufficiente un’azione dimostrativa che piegasse gli insorti in vista dei negoziati con il re, ma il duca ribadì la natura politica della repressione, diretta contro sudditi ribelli.
Le relazioni con la Scozia – che dall’inverno 1566, con la procrastinata accoglienza di Lauro e il perdono generale concesso ai ribelli dalla sovrana in dicembre, erano peggiorate tanto da indurre il nunzio, in aprile, a ritornare in Italia – giunsero a rottura con le nozze di Maria Stuart con James Hepburn, conte di Bothwell (maggio 1567). Il papa si mantenne fermo fino alla metà del 1569, quando ormai Maria era stata costretta ad abdicare, sconfitta sul campo a Langside e resa prigioniera di Elisabetta I. Nel settembre del 1567, informato del fatto che Massimiliano II aveva concesso ai nobili riformati della Bassa Austria di professare liberamente il culto nella forma della Confessio Augustana del 1530, Pio V invitò l’imperatore a ritirare il provvedimento, ma questi cedette solo formalmente alle rimostranze papali.
Intanto, alla fine di settembre gli ugonotti francesi si erano sollevati e in ottobre Caterina de’ Medici e Carlo IX chiesero a Pio V un ingente donativo per rispondere con le armi. Il papa acconsentì e si impegnò a inviare anche mille uomini purché il re non stringesse un accordo disonorevole con i nemici. Dopo la vittoria cattolica di St. Denis, Pio V moltiplicò gli sforzi a favore di Carlo IX, inviando lettere in Spagna e in Savoia e incaricando il vescovo Pier Donato Cesi di una missione diplomatica presso i sovrani italiani, ma senza ottenere risultati. Per di più, alla fine di dicembre, le parti in lotta sembrarono aver raggiunto un’intesa e Pio V, deluso e irato, respinse la richiesta di denaro di Caterina de’ Medici. La pace, che le ulteriori azioni diplomatiche e le pesanti richieste ugonotte procrastinarono, fu comunque siglata a Longjumeau il 23 marzo 1568. In aprile, i calvinisti dei Paesi Bassi si sollevarono: Luigi di Nassau invase la Frisia e inferse una sconfitta all’esercito spagnolo che perdette il capo della fanteria, il conte d’Aremberg. Di fronte a queste notizie, Pio V approvò come male necessario la repressione che si scatenò e che vide, tra l’altro, l’esecuzione di Egmont e Horn.
La pubblicazione della nuova bolla In coena Domini nel 1568 sollevò il malcontento degli Stati per le ingerenze in ambito fiscale, in particolare a Napoli e a Milano. Ma il papa, come avrebbe spiegato anche in un memoriale a Filippo II, si preoccupava di conservare attraverso queste misure l’armonia sociale e di conseguenza la pace religiosa e politica. Nel corso dell’estate 1568 ripresero le trattative per una nuova guerra contro i riformati francesi. In agosto, il vescovo Fabio Mirto Frangipane, uomo vicino al cardinale Alessandro Farnese, sostituì il nunzio Michele Della Torre e partì per Parigi con l’incarico di amministrare l’ingente contributo che il papa aveva concesso al re a condizione che si allontanassero dalla corte i riformati (e toccò al vescovo di Valence, Jean de Monluc) e si adottassero misure repressive contro gli ugonotti e i loro dirigenti. In settembre, dopo il fallito tentativo di catturare il principe di Condé e l’ammiraglio Gaspard de Coligny organizzato dal cardinale di Lorena, scoppiò il conflitto, sancito dall’editto di St. Maur, che annullava i termini dell’accordo di Longjuneau, e dall’allontanamento di Michel de l’Hospital. Motivo di apprensione per il papa fu il tentativo di Guglielmo d’Orange, il capo degli insorti fiamminghi sfuggito alle repressioni del duca d’Alba, di coalizzarsi con le forze ugonotte, in dicembre la vittoria del duca contro le truppe di Guglielmo dissolse i timori. Avverso a ogni ipotesi di conciliazione, e dando seguito agli impegni assunti, Pio V inviò in Francia 4000 fanti e 500 cavalieri al comando di Sforza Sforza, duca di Santa Fiora, che partirono in aprile 1569. L’esercito pontificio era destinato all’occorrenza a operare nei Paesi Bassi, così come gli uomini del duca d’Alba cooperarono contro i riformati francesi e congiuntamente in ottobre si imposero nella battaglia di Moncontour.
Nel corso del 1570 si moltiplicarono le iniziative di Pio V contro i ‘nemici’ della Chiesa. In gennaio la volontà di Carlo IX di intavolare trattative con il fronte dei ribelli allarmò il papa che condannò l’iniziativa e ogni ipotesi di un riconoscimento politico-militare degli ugonotti. In febbraio il pontefice decise di inviare a Filippo II Ludovico De Torres e il generale dei domenicani Vincenzo Giustiniani per promuovere l’adesione della Spagna alla Lega antiturca. Questa missione diplomatica fu resa più complessa da ulteriori iniziative del papa. La diffusione della bolla con cui il 27 agosto 1569 Pio V aveva accordato a Cosimo I il titolo granducale aveva fornito un nuovo motivo di risentimento a Massimiliano II e a Filippo II, dei quali il Medici era vassallo. Pio V aveva inteso premiare lo zelo con cui Cosimo aveva agito contro Carnesecchi e molti altri presunti eretici e il suo contributo alle campagne europee contro eretici e infedeli. Ma gli Asburgo contestavano la formulazione stessa della bolla, secondo cui il pontefice pretendeva di avere il diritto di conferire titoli anche fuori della sua giurisdizione.
Pio V istituì una congregazione per gestire diplomaticamente la vertenza e formulare un’appropriata risposta. L’incarico di presiedere la commissione fu affidato al cardinale Morone, che proprio tra il 1569 e il 1570 era oggetto di nuove indagini da parte di Santoro. Questo dato, tuttavia, rivela che davanti a un personaggio così in vista, collegato direttamente al concilio e assolto da Pio IV, era giocoforza per l’Inquisizione recedere per non compromettere le basi ideologiche della politica di Pio V. In aprile Filippo II fu informato della bolla di scomunica promulgata da Pio V contro Elisabetta d’Inghilterra il 25 febbraio. Si trattava di una misura con cui il pontefice intendeva fomentare e legittimare la ribellione cattolica interna al regno inglese e che aveva meditato fin dalla primavera precedente, quando aveva inviato il penitenziere Niccolò Morton per verificare l’eventuale accoglienza del provvedimento. Erano risultati inutili i tentativi papali, nel marzo e nel novembre 1569, di far intervenire contro l’Inghilterra la monarchia spagnola e il grave ritardo con cui si venne a conoscenza della fallita sollevazione del novembre precedente convinse Pio V ad agire. Sia Filippo II, che aveva sempre sostenuto la regina d’Inghilterra, sia Carlo IX proibirono che il provvedimento fosse pubblicato nel rispettivo regno. Malgrado le differenze, il 20 maggio, dopo numerose sedute del Consiglio di Stato, il sovrano spagnolo decise di aderire alla Lega antiturca. Il 1° luglio le delegazioni pontificia, spagnola e veneziana iniziarono i colloqui, mentre Cipro era invasa dai turchi. Stabilito l’assetto delle flotte e accettato da parte di Filippo II il comando generale di Marcantonio Colonna, le squadre navali si incontrarono alla fine di agosto. La capitolazione di Nicosia rese più urgente l’intervento delle forze della Lega, tuttavia dopo una prima azione fallita per ragioni meteorologiche la campagna si arrestò.
Frattanto la stipula, in agosto, della pace di St. Germain en Laye tra Carlo IX e gli ugonotti aveva rinfocolato le proteste papali. Il nunzio Frangipane si era adoperato perché l’accordo fosse interpretato in senso restrittivo e alla fine di settembre indirizzò al re un’accesa protesta contro un patto che vanificava la superiorità conquistata dai cattolici sul campo di battaglia. Pio V, dal canto suo, chiese ai cardinali di Lorena e di Borbone di lavorare per ottenere la rottura dell’accordo e inviò il protonotario Francesco Bramante per comunicare la sua personale disapprovazione e ribadire l’opportunità che il clero francese dimostrasse fedeltà a Roma attraverso la residenza dei vescovi e le visite ad limina. Era comunque in corso una manovra sotterranea: nell’ottica piana di una schedatura degli eterodossi, Bramante stilò liste di nobili ugonotti o a essi vicini e il nunzio informò il papa che i sovrani, dietro l’apparente tolleranza, meditavano un’azione stragista.
Nell’autunno Commendone, di passaggio verso la Polonia, incontrò l’imperatore con l’obiettivo di coinvolgerlo nella coalizione antiturca. Massimiliano II, tuttavia, non dette la sua disponibilità per intervenire in un conflitto che, per quanto riguardava i suoi domini, aveva chiuso con la pace del 1568. In novembre ripresero le trattative della Lega e, stabilito di affidare il comando delle operazioni militari a don Giovanni d’Austria, subentrò il problema della vacanza del comando, che il papa voleva affidata al Colonna, e i negoziati segnarono il passo. All’inizio del 1571, la volontà di concludere l’alleanza spinse Pio V a concedere a Filippo II il rinnovo della cruzada e del ‘sussidio’ sul clero spagnolo a condizione che il re mantenesse sessanta galee. All’inizio di aprile Pio V mandò Colonna a Venezia e ottenne dalla Repubblica l’adesione alla Lega. In maggio le delegazioni raggiunsero a Roma l’accordo. Ai primi di giugno don Giovanni d’Austria partì per raggiungere la flotta e durante l’estate le flotte si radunarono a Messina. La spedizione navale, composta da oltre duecento unità, prese il largo alla metà di settembre, a Igoumenitza; il 3 ottobre, si apprese la notizia della capitolazione di Famagosta e della morte di Bragadin. Il 7 ottobre, all’alba, avvenne presso le isole Curzolari la battaglia di Lepanto dove si impose la flotta cristiana su quella turca. La vittoria produsse un’impressione fortissima in Europa ed ebbe un’importante ricaduta sul piano della devozione, soprattutto di quella mariana: alla Vergine, infatti, si attribuì l’esito dello scontro navale e il papa consacrò alla Madonna della Vittoria la prima domenica di ottobre, come stabilì nel concistoro del 17 marzo 1572.
A fronte di questi risultati, la legazione straordinaria di Bonelli, arrivato a Madrid alla fine di settembre, fu fonte di delusioni. Il cardinal nepote non ottenne da Filippo II che vaghe promesse di un suo intervento per indurre Massimiliano II e Carlo IX ad aderire all’alleanza antiturca e sulle vertenze giurisdizionali incontrò la totale chiusura del re. Durante la permanenza, Bonelli fu informato della volontà del papa di inviarlo anche in Francia per scongiurare il matrimonio tra Margherita di Valois ed Enrico di Navarra, dopo essersi assicurato in Portogallo la disponibilità del re Sebastiano a sposare la principessa francese. Spronato dai rimproveri che arrivavano da Roma, Bonelli raggiunse la Francia, dove era stato preceduto nel gennaio 1572 dal nunzio straordinario Antonio Maria Salviati. L’accoglienza francese fu commisurata alla volontà reale di corrispondere ai disegni pontifici: tra ritardi, attese e percorsi tortuosi, il legato riuscì a precedere a Blois la regina di Navarra, attesa fin dal novembre precedente per definire l’accordo nuziale, e ad avviare i colloqui con il re. L’intesa raggiunta tra le madri dei futuri sposi segnò, però, la fine della missione pontificia. Carlo IX respinse tutte le richieste formulate da Bonelli sull’ingresso nella Lega antiturca, sulla promulgazione dei decreti tridentini e sulla rottura del progetto matrimoniale tra la sorella ed Enrico IV.
Alleanze nuziali e schieramenti politico-diplomatici sfuggivano però a Pio V, che, dopo il breve momento di Lepanto, non riuscì a impedire che ciascun sovrano seguisse interessi personali. Filippo II riorientò la propria strategia mediterranea in direzione del Nord Africa, sebbene alla ripresa delle trattative in dicembre don Giovanni d’Austria avesse appoggiato con il papa l’ambizioso progetto di attacco all’Impero ottomano formulato da Venezia. Il re spagnolo, inoltre, aveva contribuito a far naufragare il matrimonio tra don Sebastiano e Margherita di Valois, cui il pontefice aspirava, per evitare che l’influenza francese si estendesse al Portogallo, come, d’altronde, si era adoperato per impedire l’unione tra il duca d’Anjou ed Elisabetta I. La Francia, dal canto suo, si avvicinò all’Impero ottomano e nell’aprile 1572 stipulò l’alleanza difensiva di Blois con l’Inghilterra, disdegnando la richiesta del papa di sostenere un intervento di Filippo II in favore di Maria Stuart.
Pio V morì a Roma poco dopo, il 1° maggio 1572.
Sisto V innalzò in suo onore un monumento funebre (opera di Domenico Fontana e Giovan Battista Della Porta) in S. Maria Maggiore, nella cappella del Ss. Sacramento, dove la salma fu traslata il 9 gennaio 1588. Nel 1616-17 Paolo V autorizzò l’istruttoria per attestare le virtù di Pio V. Il pontefice fu beatificato il 1° maggio 1672 e fu proclamato santo il 22 maggio 1712.
Fonti e Bibl.: Ampia bibliografia in S. Feci, Pio V, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 160-180; Ead., Pio V, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, con la collaborazione di V. Lavenia - J. Tedeschi, III, Pisa 2010, pp. 1213-1215; inoltre M. Scaduto, Tra inquisitori e riformati. Le missioni dei Gesuiti tra Valdesi della Calabria e delle Puglie, con un carteggio inedito del card. Alessandrino (san Pio V) (1561-1566), in Archivum historicum Societatis Iesu, XV (1946), pp. 1-76; P. Paschini, Venezia e l’Inquisizione romana da Giulio III a Pio IV, Padova 1959, passim; M.C. Giannini, «Per beneficio della Città e Religione». Governo politico e Inquisizione nello stato di Milano a metà Cinquecento, in L’Italia di Carlo V. Guerra, religione e politica nel primo Cinquecento, a cura di F. Cantù - M.A. Visceglia, Roma 2003, pp. 303-336; G. Brunelli, Il Sacro Consiglio di Paolo IV, Roma 2011, ad ind.; M.A. Visceglia, Morte e elezione del papa. Norme, riti e conflitti. L’Età moderna, Roma 2013, ad ind.; G. Maifreda, I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia di fede nell’Italia moderna, Torino 2014, ad indicem.