COLONNA, Pirro
Chiamato talvolta Pirro di Castel di Piero (oggi San Michele in Teverina, in prov. di Viterbo) o di Sipicciano, il C. nacque probabilmente agli inizi del XVI sec. da Fierabraccio Baglioni e da Francesca Savelli, e assunse il nome dei Colonna dal suo protettore, Ascanio Colonna, che lo allevò ed educò.
Di diritto il C. era condomino con il fratello Giovanni Carlo, oltre che di Castel di Piero anche di Attigliano e di Sipicciano. Questi beni, sottratti loro dal parente Giampaolo Baglioni, furono sequestrati già dal 1515 dalla Camera apostolica, che dopo la morte del Baglioni (1520) iniziò una lunga vertenza con l'ospedale di S. Spirito di Roma, erede dello stesso. Nel 1525 entrò attivamente in lizza il C., impadronendosi nottetempo della rocca di Castel di Piero. Ne fu però rapidamente estromesso e Clemente VII assegnò definitivamente la rocca alla Camera apostolica.
Dopo il sacco di Roma il C. prese parte ai disordini che si verificarono nei territori della Chiesa. Con il cognato Ottaviano Spiriti e con Marzio Colonna sostenne a Viterbo la fazione dei Gatteschi, che nell'agosto del 1527 attaccarono i Mazanzesi, facendone strage. Riconsegnata però la città al potere temporale dallo Spiriti nel 1528, il C. uscì da Viterbo e attaccò Acquapendente, tentando di impadronirsene. Si volse poi contro Chiusi, penetrandovi con ottocento fanti e con alcuni fuoriusciti senesi; saccheggiò la città e il territorio e occupò la rocca. I Senesi sospettarono che quest'azione fosse stata suggerita al C. dal papa. In effetti, anche se si vociferò che egli e Ottaviano Spiriti nel giugno del 1529 avessero, avuto intenzione di impadronirsi di Viterbo, il C. fece parte della spedizione imperiale contro Firenze, volta a rimettere un Medici, secondo il desiderio del papa, a capo della città.
Con l'esercito imperiale il C. era a Terni nell'agosto, di dove passando per Spoleto si portò all'assedio di. Firenze. Qui nel dicembre, dopo l'acquisto da parte imperiale della Lastra, il C. si trovò coinvolto in una scaramuccia, che lo vide protagonista sfortunato di un fatto d'armi.
Con il suo colonnello egli si stava spostando da Palaia a Montopoli quando Francesco Ferrucci gli tese un'imboscata, uccidendo un gran numero di soldati e facendone prigionieri altrettanti. Il C. cadde da cavallo, finendo in un fosso, e si dubitò che fosse morto. Il Ferrucci, annunciando la vittoria, ebbe a dire che il colonnello del C. più che rotto era "fracassato" e che il C. si era salvato "miracolosamente" a piedi. Pressappoco nella medesima zona il C. nel marzo dell'anno successivo si prese la rivincita. Sbaragliando una compagnia nemica, che da Volterra si avviava a Empoli.
Com'è noto, prima della morte del Perugina d'Orange, questi e Malatesta Baglioni intavolarono, senza che la Signoria ne fosse informata, trattative per giungere ad un accordo. L'Orange inviò il C. dal comandante fiorentino per due volte, senza però che si riuscisse ad arrivare ad un'intesa. Tuttavia dopo la caduta di Firenze il C. fu compensato per la sua mediazione da Carlo V, che gli concesse il ducato di Mortara per una sua figlia, e da Clemente VII, che gli restituì i beni della famiglia.
Da allora il C. rimase sempre al servizio dell'imperatore. Nel 1532 era a Roma insieme con Camillo Colonna con l'incarico di ingaggiare tremila fanti, per condurli in Germania. L'8 agosto partì da Roma con parte della gente, che avrebbe continuato a reclutare lungo la strada. Alla fine del mese era in Lombardia.
Presente a Roma nel maggio del 1533, dove lanciò una sfida al figlio di Renzo da Ceri, Paolo, "per differentie particular", nell'autunno era a Verona, di dove, licenziati i fanti arruolati da lui e da Camillo Colonna, tornò nell'esercito cesareo. Nel gennaio del 1534 Carlo V concesse al C., definito conte di Castro, diversi beni e rendite confiscati ai ribelli Francesco Del Balzo, Antonio Annichino e Giovanni Bernardino Riccio, a ricompensa dei suoi servizi.
Ucciso nel gennaio del 1537 Alessandro de' Medici, il C. ebbe dal marchese Del Vasto, di cui era alle dipendenze, il delicato compito di recarsi a Firenze. Doveva portare a Cosimo il beneplacito dell'imperatore al suo insediamento e rimanere a sostenerlo con le armi. Cosimo, alla cui guardia il C. era preposto con un corpo di fanti, gli dette anche il comando militare della città.
A Montemurlo, il 31 luglio dell'anno successivo, il C. combatté con le truppe spagnole che si scontrarono con i fuoriusciti fiorentini e li sbaragliarono. Egli fece personalmente prigioniero Baccio Valori e intascò la taglia di Filippo Strozzi, benché questi fosse morto suicida in carcere.
A Firenze il C. era in una posizione molto delicata, rappresentando palesemente quel controllo imperiale che agli inizi non era stato sgradito a Cosimo, ma che era divenuto opprimente da quando il suo potere si era rafforzato. Non sembra che il C. abbia saputo svolgere il suo compito con l'abilità che la situazione richiedeva; infatti egli credeva di essere l'artefice del mantenimento di Cosimo nello Stato e - quel che è più grave - usava palesare questo suo convincimento. Nel 1540 il C. dette al Medici l'occasione che questi cercava, battendo un nano in presenza della duchessa. Fu chiamato e licenziato, con tutte le sue genti, dal duca, che gli assegnò in ringraziamento del suo servizio una provvigione annua di 1.000 ducati; il C., offeso, la rifiutò. Quando arrivò alla corte dell'imperatore nel luglio del 1541, il suo risentimento non era ancora sopito e non mancò di riferire a Carlo V "multa gravissimi momenti" contro Cosimo de' Medici.
L'anno successivo il C. serviva nell'esercito imperiale in Piemonte, mentre avveniva la nuova invasione francese. Nel dicembre, perché a Pavia si abboccarono il cardinale di Granvelle e il marchese Giangiacomo de' Medici, il C. ebbe ordine di accostarsi alla città con 4.000 uomini, per tenere in rispetto i nemici.
Nel luglio del 1543 fu inviato a impadronirsi di Andesane, vicino Chieri. Con millecinquecento spagnoli, altrettanti tedeschi e mille italiani il C. si accinse all'impresa, bombardando la cittadina per parecchie ore. Andesane cadde poco dopo e fu messa a sacco, non prima però che il C. dovesse far fronte a un forte attacco di nemici dall'esterno, che lo misero in seria difficoltà.
Dopo la battaglia di Ceresole (aprile 1544) che vide la sconfitta degli Imperiali il C. fu posto a capo del presidio di Carignano. Egli respinse l'invito francese ad arrendersi e cominciò a sostenere l'assedio.
La resistenza del C., tenendo impegnate le truppe francesi, permetteva intanto a Giangiacomo de' Medici di riorganizzare l'esercito. Questi avrebbe voluto che il C. sostenesse l'assedio per tutto il mese di maggio. Resistette fino al 26 giugno, quando dopo "stenti, travagli e fatiche intollerabili" e "astretto da mera necessità", "vedendo che il soccorso non possea venire più a tempo", si arrese. I patti furono onerosi: fu permesso a tutte le truppe di uscire con le armi e i bagagli, ma senza l'onore delle armi. Essi non avrebbero dovuto combattere contro il re di Francia per vari mesi. Il C. doveva presentarsi al re entro due mesi e non partirsi da lui senza licenza. Egli si avviò verso la Francia il 22 luglio. Con l'intenzione di recarsi, dopo la visita a Francesco I, presso Carlo V.
Nel 1546, durante la guerra contro la lega smalcaldica, il C. era in Germania, molto vicino al sovrano e aveva "commissione di non partire mai dalla persona di Cesare". Nel giugno si riteneva sicura la sua nomina a mastro di campo. Fra la fine di luglio e l'inizio di agosto Carlo V per evitare che gli si impedisse il congiungimento con le forze che venivano dall'Italia, lasciò Ratisbona per dirigersi verso Landshut. Il C. rimase a presidiare la città con quattromila tedeschi e trecento spagnoli. Il 25 agosto era di nuovo al campo con l'imperatore, che aveva preso alloggiamento a Neustadt e che lo inviò per una ricognizione fuori del campo. Il C. si imbatté nella retroguardia nemica. Il 29 fece un'altra ricognizione, insieme con Alessandro Vitelli, per tentare di tendere un'imboscata agli avversari. Il 24 settembre partecipò a un fatto d'armi. Con altri capitani si era recato fuori del campo sempre con compiti ricognitivi e aveva separato le sue forze da quelle dei commilitoni. La compagnia del C. fu investita con molta violenza, tanto che non riuscì a "fare testa". Egli scampò per poco alla prigionia, lasciando una manica in mano al nemico. Nel gennaio del 1547 fu inviato da Carlo V al re Ferdinando e al duca Maurizio di Sassonia, perché fornisse loro consigli sulla guerra e si informasse sulle forze alleate. Il C. tornò presso il campo imperiale a metà febbraio. Nel dicembre il C. e le sue forze furono licenziati. L'imperatore gli concesse 2.000 scudi su rendite siciliane e la facoltà di trasmettere il marchesato di Mortasa ad un'altra figlia, essendosi la precedente beneficiaria fatta monaca.
Successivamente il C. avversò il proposito di Carlo V di costruire una fortezza a Siena. Egli manifestò la sua opinione "con vive ragioni" e non aveva certo torto viste le conseguenze che ebbe per gli Imperiali la costruzione della fortezza. Morì nel novembre del 1550 e non mancò chi lo disse avvelenato per aver disapprovato l'operato di Carlo V e dei ministri imperiali.
Dall'inventario che la vedova del C., Caterina, fece fare nell'interesse delle quattro figlie minori (tre delle quali avevano nome Francesca, Virginia e Laura, che sposò Adriano Baglioni di Perugia), risulta che al momento della morte egli possedeva Castel di Piero, Graffignano, Roccalvecce, metà di Sipicciano e alcuni beni nel Regno. Niccolò Martelli gli aveva dedicato un sonetto.
Fonti e Bibl.: Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, a cura di A. Desjardins, III, Paris 1865, pp. 39, 87 s., 91, 97, 99, 109, 119-122, 125, 129 s.; J. E. Martinez Ferrando, Privilegios otorgados por el emperador Carlos V…, Barcelona 1943, p. 83; F. Sassetti, Vita di Francesco Ferrucci, in Arch. stor. ital., IV (1853), 2, pp. 488, 527, 545 s., 579, 599 ss., 603, 608, 622, 635, 637;B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1857, p. 330; II, ibid. 1858, pp. 92, 569; III, ibid. 1858, p. 216; G. De Leva, Storia… di Carlo V…, IV, Padova 1881, pp. 156, 173, 265, 267; G. Silvestrelli, I Baglionidi Castel di Piero, in Roma, IV (1926), p. 197; G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, II, 2, Viterbo 1940, pp. 50-56, 58, 63, 74 s., 77 s., 135, 138, 173.