Pirrone di Elide
Filosofo (n. Elide, nel Peloponneso, 365 a.C. ca.). Fu il fondatore della scuola scettica. Secondo la tradizione fu discepolo di Brisone megarico, quindi di Anassarco democriteo. Le sottigliezze dialettiche della scuola megarica e le inclinazioni scetticheggianti degli ultimi esponenti della scuola democritea sono considerate come le componenti centrali della sua maturazione filosofica. Un altro evento segnò profondamente la sua vita: P. partecipò alla spedizione di Alessandro Magno in India, nella quale ebbe come compagni filosofi che orientarono decisamente la sua formazione, dal già ricordato Anassarco a Callistene, nipote di Aristotele, a Onesicrito di Astipalea, discepolo diretto di Diogene di Sinope; questa circostanza ha permesso alla critica più recente di rivalutare l’influsso della filosofia cinica su P., che verrebbe ad assumere, per la definizione delle posizioni in ambito etico, un ruolo centrale e paragonabile a quello che, sul piano teoretico, rappresenta il confronto e la critica dell’aristotelismo. Durante il viaggio, inoltre, P. ebbe modo di conoscere la filosofia e le pratiche dei gimnosofisti e dei magi, dai quali raccolse stimoli importanti per il perfezionamento del suo percorso filosofico, accogliendo «i principi dell’acatalessia [cioè della irrappresentabilità o incomprensione delle cose] e dell’ἐποχή [cioè della sospensione del giudizio]» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 61). Tornato a Elide, nel 324 a.C., secondo la tradizione vi fondò una scuola, anche se alcuni tendono a ridurre la sua attività a una pratica educativa non articolata secondo i principi di una scuola, per cui i discepoli si legavano a P. al di fuori degli schemi tradizionali; morì intorno al 275. Come Socrate, non scrisse nulla e per questa particolarità Diogene Laerzio lo ricorda nel proemio delle Vite dei filosofi (I, 16), insieme a Socrate e a molti altri, non come esponente di una successione, ma tra quelli che non hanno lasciato un’eredità scritta. Poco più avanti (I, 20) Diogene si interroga esplicitamente sull’eventualità che quella pirroniana possa definirsi una setta (αἳρεσις) in senso proprio, considerando l’opinione di quanti lo escludono in virtù della «mancanza di chiarezza della sua dottrina»; Diogene conclude positivamente, poiché si definisce setta o scuola quella che si attiene «a un determinato criterio logico (λόγῳ˛ τινì) conformemente ai fenomeni». Se con questi termini si indica invece l’adesione dogmatica a dottrine filosofiche, allora quella pirroniana non è una setta, «poiché non ha ferme credenze». Secondo quanto afferma il peripatetico Aristocle, che mutua queste informazioni dal discepolo diretto di P., Timone, egli si sarebbe espresso in maniera dogmatica circa la natura delle cose, giudicandole «senza differenze, senza stabilità, indiscriminate», tanto che le sensazioni e le opinioni che ne derivano vanno considerate né vere né false; è necessario dunque non riporre in esse alcuna fiducia e non avere opinioni e inclinazioni; di ciascuna cosa si dovrà dunque dire «che è non più che non è», oppure «che è e non è», oppure «che né è, né non è». Lo scetticismo di P. deriverebbe dunque da una precisa tesi metafisica relativa alla natura delle cose; sulla consapevolezza che ogni pretesa di conoscenza sfocia inevitabilmente nell’opinione si fonda anche l’ideale dell’afasia, che anticipa quello della sospensione del giudizio, espresso dal termine ἐποχή, non attestato per P. e caratteristico invece dello scetticismo più tardo. In ambito etico P. avrebbe considerato altrettanto indifferenti le questioni relative al comportamento e alle scelte morali; secondo Diogene Laerzio (IX, 61) egli «diceva che nulla è né bello né brutto, né giusto né ingiusto [...] e che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine». L’indifferenza delle cose genera dunque l’atarassia, l’assoluta assenza di turbamento di fronte agli eventi della vita che è il fine della ricerca filosofica. Diogene testimonia che «la sua vita fu coerente con la sua dottrina» e la biografia di P. scritta da Antigono di Caristo che egli ci tramanda (IX, 62-64) è punteggiata di episodi che confermano questa condotta.