Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il 1440 e il 1465 a Firenze un gruppo di artisti elabora una variante del Rinascimento destinata a essere in seguito portata al successo da Piero della Francesca. La passione per le superfici smaltate, per i colori brillanti, per la prospettiva matematica unisce pittori come Domenico Veneziano, Andrea del Castagno o Giovanni di Francesco, che inventano un modo nuovo di fare pittura sfruttando gli effetti di luce e l’evocazione del colore.
A pochi anni dalla morte di Masaccio e dalla definitiva affermazione del nuovo stile rinascimentale si determina a Firenze una situazione nuova nel campo della pittura.
Verso la metà degli anni Quaranta, infatti, un gruppo di artisti, conquistati dalla prospettiva razionale e matematica di Brunelleschi, sedotti dalle possibilità cromatiche offerte dalla pittura a tempera o ad affresco, elabora un linguaggio pittorico in netta contrapposizione con l’austera interpretazione del reale data dallo stesso Masaccio e dal suo seguace Filippo Lippi. Questa nuova “visione più distesa e ottimistica, in cui i colori si imperlano di luce e la prospettiva diventa uno spettacolo per gli occhi” (Luciano Bellosi) trova in Domenico Veneziano, nella tarda attività di Beato Angelico, in Paolo Uccello, in Andrea del Castagno, nel Maestro di Pratovecchio, in Giovanni di Francesco e in Alessio Baldovinetti, gli interpreti più significativi.
Il nuovo linguaggio che ne scaturisce, identificato efficacemente dalla critica con la dizione “pittura di luce”, trova per circa 25 anni la sua applicazione privilegiata nell’ambito della pittura sacra. Una vita breve, certo, che contrasta però con la superba qualità e l’intima coerenza di uno dei fenomeni più singolari dell’arte italiana del Quattrocento.
Il rilievo assoluto della pittura di luce è attestato, inoltre, dal legame diretto che questo sperimentalismo cromatico e luminoso intrattiene con uno dei massimi pittori del secolo: Piero della Francesca. La sua “sintesi prospettica di forma e colore” (Roberto Longhi), quell’unire lo spazio e la forma con la luce e il colore, deriva dalla frequentazione di quello che fu il suo mentore a Firenze: Domenico Veneziano.
Dopo aver lavorato presumibilmente a Venezia e Roma e sicuramente a Perugia, Domenico Veneziano è documentato nel 1438 a Firenze, in contatto con i Medici. Per Piero de’Medici esegue l’ Adorazione dei Magi della Gemäldegalerie di Berlino, in stile tardo-gotico, che testimonia dei suoi contatti con Gentile da Fabriano. Nel giro di pochi anni si impone sulla scena cittadina con il piglio del grande protagonista grazie al successo di opere come la Madonna col Bambino ora alla National Gallery di Londra ma già parte del Tabernacolo Carnesecchi, o l’altra Madonna della Fondazione Berenson a Settignano.
È evidente in questi lavori la preferenza per composizioni simmetriche e bilanciate nelle quali le figure, pienamente volumetriche, appaiono investite da una luce zenitale: una scelta che contrappone Domenico al più solido e asciutto modo di raffigurazione masaccesco perseguito negli stessi anni da Filippo Lippi. A formare il linguaggio artistico di Domenico Veneziano deve aver contribuito inoltre la visione di opere come la Madonna dell’Umiltà della Pinacoteca di Siena, dipinta nel 1433 da Domenico di Bartolo, che presenta in nuce, in anticipo di circa dieci anni, tutti gli aspetti più significativi del dipingere con la luce.
Nel 1439 Domenico Veneziano pone mano a quello che la critica considera il punto di snodo dello “stile luminoso”: gli affreschi del coro della chiesa di Sant’Egidio raffiguranti le Storie della Vergine. La perdita pressoché totale della decorazione contrasta con il grande risalto che emerge dalle fonti. La presenza al fianco di Domenico Veneziano dell’esordiente Piero della Francesca e il fatto che, lasciata incompiuta nel 1445, la decorazione fu terminata da altri due protagonisti della pittura di luce, Andrea del Castagno e Alessio Baldovinetti, testimonia il legame del ciclo con gli eventi che stiamo narrando.
Perduta la decorazione di Sant’Egidio, spetta alla spettacolare Madonna col Bambino e santi degli Uffizi, commissionata grazie all’intervento di Cosimo il Vecchio per Santa Lucia de’ Magnoli, il compito di esemplificare lo stile raggiunto da Domenico Veneziano nel 1447. L’impeccabile gioco prospettico che il pittore instaura tra la scacchiera del pavimento e la quinta architettonica mostra quanto profonda sia stata la meditazione su Brunelleschi, mentre il risalto plastico delle figure denuncia l’impressione suscitata dalla scultura di Luca della Robbia. L’accordo cromatico tra le figure e l’ambiente, nonché la tersa e luminosa resa generale, fanno di questa pala uno dei più alti capolavori della cultura figurativa toscana degli anni Quaranta.
È forse davanti a superfici come queste, imperlate di luce e di effetti che molto devono alla pittura fiamminga, che nasce la leggenda, riportata da Giorgio Vasari, del primato di Domenico Veneziano a Firenze nell’uso della tecnica a olio, procedimento poi trasmesso dall’artista ad Andrea del Castagno. Anche quest’ultimo, seppur con più marcati accenti espressivi, occupa nelle vicende della pittura di luce un ruolo da protagonista. Nell’Ultima Cena dipinta nel 1447 per il refettorio di Santa Apollonia, per esempio, Andrea del Castagno ricerca i medesimi effetti di luce cari a Domenico Veneziano, creando una scatola prospettica impeccabile, animata da un gioco di ombre che tiene conto dell’illuminazione reale dell’ambiente in cui l’affresco fu realizzato.
Le scelte di Domenico Veneziano in materia di luce e forma sono condivise da altri artisti che paiono contrapporsi alla più austera tradizione masaccesca, mantenuta in vita negli anni Trenta da Filippo Lippi.
Giovanni di Francesco è uno di questi. Non è casuale la sua presenza al fianco di Domenico Veneziano nella decorazione della cappella Cavalcanti in Santa Croce, dove il maestro veneto affresca le pareti (solo in parte sopravvissute), mentre Giovanni dipinge la predella che ornava la celebre Annunciazione di Donatello.
I caratteri dell’opera con le Storie di San Nicola di Bari (ora Firenze, Casa Buonarroti) sono i medesimi di Domenico Veneziano e di Piero della Francesca, a partire dalla disposizione prospettica dei caseggiati, del mobilio e dei pavimenti, per poi giungere alla luce tersa e alle brillanti cromie. Quest’opera appare posteriore alla Madonna col Bambino in trono e santi , nota anche come Trittico Carrand, ora a Firenze, Museo del Bargello, assegnata a Giovanni di Francesco dopo essere stata a lungo attribuita a un anonimo. Il trittico, che presenta ancora forme gotiche nella carpenteria, segna gli esordi di Giovanni denunciando sin da subito la vicinanza con i modi plastici e splendenti di Domenico Veneziano.
Anche il Maestro di Pratovecchio, nome convenzionale sotto cui sono state aggregate opere omogenee dal punto di vista stilistico, appare vicino alla pittura di luce degli anni Quaranta. Il Maestro è un seguace di Domenico Veneziano che soggiorna a Firenze dal 1439 e che scopre, nella pala dei Magnoli, un punto di riferimento stilistico imprescindibile. Il gusto per le profilature nervose e il segno marcato di opere come la Madonna Assunta del convento di San Giovanni Evangelista a Pratovecchio ne certificano la discendenza da Domenico Veneziano e pongono questo artista al fianco di Giovanni di Francesco, col quale spesso è stato confuso.
La pittura di luce è una suggestione, un clima figurativo, che tocca anche l’attività di maestri più noti e autonomi. È il caso di Paolo Uccello, le cui nitide geometrie appaiono per molti versi affini alle ricerche su forma e colore condotte da Domenico Veneziano negli anni Trenta e Quaranta. Tra il viaggio veneziano del 1430 e il 1437 si collocano le opere che documentano questa analogia, come nel caso dei giovanili affreschi di Prato, cappella dell’Assunta, con le Storie della Vergine e di santo Stefano , oppure la splendida ma frammentaria Adorazione del Bambino in San Martino a Bologna.
Per certi versi simile, ma senz’altro più profondo, il legame tra Beato Angelico e la pittura di luce. Più anziano degli artisti citati finora, egli parte da premesse molto affini a Gentile da Fabriano e Lorenzo Monaco, per poi essere toccato parzialmente, alla fine degli anni Venti, dalla rivoluzione di Masaccio. Ma già negli anni Trenta lo ritroviamo intento a sperimentare l’ortodossia prospettica e luminosa in voga in quegli anni. Lo dichiarano opere come la pala dell’altare maggiore della chiesa del convento di San Marco, ove il frate-pittore visse dal 1438, o il polittico di Perugia, ora smembrato tra la Galleria Nazionale dell’Umbria e la Pinacoteca Vaticana. In quest’opera, brani come lo scomparto centrale, la Madonna il Bambino e angeli, sono stati a lungo interpretati nell’orbita di Piero della Francesca. Di contro, l’anticipazione su base documentaria della tavola al 1447 circa mostra invece quanto il vero riferimento stilistico dell’opera perugina sia il maestro di Piero, Domenico Veneziano, che proprio a Perugia aveva lavorato in più di un’occasione. Questo permette di calare il Beato Angelico nel vivo dello sperimentalismo di quegli anni, restituendoci la fisionomia di un pittore già maturo ma ancora capace di reagire con prontezza alle novità e agli stimoli provenienti dagli artisti più giovani.
Nel solco tracciato da Domenico Veneziano e dall’Angelico si muove Alessio Baldovinetti, che rimarrà fedele alle volumetrie e agli accesi cromatismi che egli vede nella cappella di Sant’Egidio. Opere come il Ritratto di dama in giallo della National Gallery di Londra, del 1465 circa, testimoniano la sua adesione al risalto cromatico, plastico e lineare che, in quegli anni, aveva ormai valicato i confini fiorentini grazie all’opera di Piero della Francesca. Non sembra così casuale il coinvolgimento di Baldovinetti nell’impresa simbolo della decorazione del coro di Sant’Egidio, che – lasciata incompiuta da Domenico Veneziano – viene completata proprio dal più giovane seguace, coadiuvato da Andrea del Castagno.
La morte di Giovanni di Francesco nel 1459 e quella di Domenico Veneziano nel 1461 sono state spesso assunte a termini simbolici della pittura di luce. La cesura non è invero così netta in quanto molti degli artisti delle nuove generazioni che imposteranno il proprio stile su basi più lineari che cromatiche – come Antonio del Pollaiolo o Andrea del Verrocchio – appaiono agli inizi della carriera debitori dello sperimentalismo luminoso di Domenico Veneziano. In particolare, opere di Andrea del Verrocchio come la Testa di San Girolamo della Galleria Palatina, dove palese è la meditazione sugli effetti epidermici della luce, appaiono impensabili senza la suggestione di Domenico Veneziano o Andrea del Castagno, denunciando una più marcata attenzione naturalistica.
L’ultima apparizione della pittura di luce è segnalata sulle pareti di fondo e di ingresso della sagrestia delle Messe in Santa Maria del Fiore, dove, tra il 1463 e il 1465, Giuliano da Maiano traduce in intarsio, con leggiadria ma salda capacità, i disegni degli ultimi “partigiani della prospettiva e della luce”: Maso Finiguerra e Alessio Baldovinetti. Da questo momento il nuovo clima neoplatonico favorito dalla corte di Lorenzo de’Medici determina nella produzione artistica interessi decorativi molto più marcati. Al di fuori del confine fiorentino, curiosamente, elementi della pittura di luce si ritrovano, oltre che in Piero della Francesca, anche in Bartolomeo di Giovanni Corradini da Urbino, ovvero fra’ Carnevale, nei ferraresi Bono da Ferrara, almeno nella fase padovana, e Francesco del Cossa, il quale negli anni Sessanta compie un fondamentale soggiorno a Firenze che determina la nascita del suo linguaggio, in cui l’espressionismo padovano si sposa con il terso e olimpico mondo toscano.