PITTURA dal 1260 al 1400
In tutto il mondo occidentale, nel periodo compreso tra il 1260 e il 1400 la p. ebbe un grande sviluppo, subendo al tempo stesso una profonda trasformazione; questo fenomeno si produsse con ritmi diversi a seconda delle diverse zone. Sulle pareti delle chiese, soprattutto in Italia, la p. progressivamente si sostituì al mosaico, che alla fine del periodo in esame tese quasi a scomparire dall'uso (fatta eccezione per Venezia, dove continuò a essere impiegato, in connessione ad alcuni programmi religiosi, sino al sec. 16°). Si sviluppò parallelamente la p. su tavola, usata in un primo tempo per i dipinti d'altare ma poi adottata in tutte le opere di soggetto sacro, dai dipinti votivi ai dossali, agli oggetti di devozione privata, sino ai dipinti di soggetto profano.Il quadro d'altare, che inizialmente aveva un carattere puramente iconico, mano a mano evolvette a sua volta verso espressioni più narrative; tale trasformazione potrebbe essere vista come una contaminazione della p. murale, la quale, data l'ampiezza delle superfici che ricopre, tende quasi naturalmente al racconto. Se tale relazione poté avere un suo ruolo, essa di certo si intrecciò con un'evoluzione della religiosità e del gusto che portò la p. a staccarsi da una concezione prevalentemente simbolica per giungere a un messaggio di maggiore immediatezza.In tutto l'Occidente emergono tre orientamenti paralleli tra loro assai diversi. La tradizione religiosa bizantina tendeva a conservare le formule pittoriche dell'icona e del mosaico ed era più presente in Italia che altrove. L'arte gotica, espressione invece più settentrionale, apportò alla p. i propri ritmi, nei quali un primo approccio di impronta realistica, derivante in particolare dalla scultura del sec. 13°, si accompagnò a un gusto per l'arabesco e per le forme sottili, con una netta tendenza al linearismo. L'Antico, infine, riscoperto come modello dalla scultura ma anche, sia pure a livelli diversi, dalla p. - sulla quale agiva, direttamente o indirettamente, mediato dall'esempio stesso della scultura -, costituì la base dell'elaborazione di uno 'stil novo'. Si tratta di tre tendenze meno rigidamente distinte di quanto si potrebbe pensare, in quanto non soltanto si trovano compresenti in una stessa zona, ma le si vede intrecciarsi, in misura diversa, anche all'interno di una stessa opera.L'evolversi della p. assunse forme e ritmi estremamente diversi nei vari paesi. L'Italia appare senza dubbio particolarmente attiva e innovatrice, in buona parte grazie all'importanza della committenza religiosa e alla solida tradizione altomedievale. L'Europa settentrionale subì nel tempo distruzioni tali, dovute alle guerre, ai diversi movimenti iconoclastici o semplicemente all'evoluzione del gusto, che spesso è possibile avanzare solo ipotesi in merito alla produzione artistica dell'epoca. Le rare testimonianze rimaste danno l'immagine di un'arte senza grandi evoluzioni e molto legata a una tradizione sostanzialmente gotica.La situazione politica era in generale apparentemente poco favorevole alla creazione artistica: il trasferimento della sede papale ad Avignone, nel 1309, portò a una riduzione delle attività a Roma a vantaggio delle grandi città-stato italiane (Firenze, Siena, Venezia) e la grande pestilenza del 1348, che colpì l'intera Europa, contribuì anch'essa a rallentare la produzione artistica, così come la guerra dei Cento anni tra la Francia e l'Inghilterra, iniziata nel 1337. Per quanto riguarda gli imperatori, prima di Carlo IV di Lussemburgo (v.), il cui mecenatismo si sviluppò principalmente nel suo regno di Boemia, essi non disponevano di mezzi adeguati a promuovere l'attività pittorica.Tra il 1260 e il 1400 è possibile individuare con grande chiarezza tre periodi che coprono ognuno ca. un cinquantennio. Tra il 1260 e il 1300 si assistette in Italia a una grande fioritura pittorica, che si sviluppò soprattutto dietro lo straordinario impulso del cantiere della basilica di S. Francesco ad Assisi (v.). Per l'Europa settentrionale, invece, questo rappresentò un periodo buio, da cui emergono soltanto poche opere rimaste, dalle quali non è del resto possibile desumere le caratteristiche di una produzione pittorica di un certo rilievo.Dal 1300 alla grande pestilenza del 1348, l'Italia e la sua 'colonia' avignonese attraversarono un periodo di intensa produttività, stimolata dalla presenza di grandi maestri. Nell'Europa settentrionale la p. cominciò ad acquistare maggior prestigio, pur rimanendo molto legata a forme artistiche a essa vicine, come la miniatura e le vetrate. Malgrado l'insediamento ad Avignone della corte pontificia, i rapporti con la p. del Sud rimasero di scarso rilievo.Nel periodo successivo all'epidemia della peste, l'Italia, stremata, pur continuando ad avere un'attività rilevante, non fu più un centro di impulsi novatori, chiudendosi nella tradizione, e solo tardivamente le personalità artistiche di maggiore spicco esercitarono la loro influenza su altre zone. Fu necessario giungere agli inizi del secolo successivo perché da Firenze si propagasse in Europa un fondamentale rinnovamento della pittura. Oltralpe, invece, malgrado il persistere di un larvato conflitto tra Francia e Inghilterra, si assiste alla nascita di un'attività pittorica originale e allo stabilirsi di legami abbastanza stretti tra la Francia, la Boemia e l'Italia settentrionale, regione il cui sviluppo differiva alquanto da quello degli altri centri della penisola.Tra il 1260 e il 1300, una forte tradizione bizantina contraddistingue tutta una tendenza della p. italiana, soprattutto nel campo delle opere devozionali che direttamente si apparentano alle icone. Tale tendenza si manifestò nell'Italia centrale, a Siena, a Firenze e a Lucca più che a Roma, e si inscrisse nella filiazione dell'opera di Giunta Pisano (v.), il primo artista menzionato ad Assisi, dove ancora si conserva un crocifisso di sua mano (Assisi, Mus. della Basilica Patriarcale S. Maria degli Angeli). A Lucca, la famiglia dei Berlinghieri fu attiva sin dalla prima metà del secolo ma acquistò rinomanza soprattutto con la seconda generazione, in particolare con Bonaventura (v.); il suo dossale con S. Francesco, datato 1235 (Pescia, S. Francesco), ha la qualità di associare alla figura ieratica del santo sei scene narrative ispirate alla sua vita, una delle prime illustrazioni della leggenda francescana, con scene bidimensionali al pari dei segni impiegati per designare i luoghi. I medesimi caratteri ricorrono in opere di Guido da Siena (v.), conservate a Siena (Pinacoteca Naz.), Princeton (Art Mus.) e Altenburg (Staatl. Lindenau-Mus.); nell'opera di questo artista, la cui attività è databile intorno agli anni settanta del Duecento, l'ancor più evidente aderenza alle formule bizantine si manifesta in particolare nel trattamento graficizzante dei panneggi, con pieghe spesso lumeggiate in oro nelle figure dei personaggi della corte celeste. La sua grande Maestà nella chiesa senese di S. Domenico - la cui data, 1221, si riferisce probabilmente all'anno della morte di s. Domenico e non all'anno di esecuzione - associa a questo tipo di ascendenze una flessuosità delle figure che è già interamente gotica. A Firenze, Coppo di Marcovaldo (v.) era ancora più tradizionalista nella sua concezione dell'icona.L'opera del Maestro di S. Francesco (v.), considerata sulla base delle sue p. di soggetto religioso, presenta tratti in comune con quella di Guido. La sua croce, datata 1272 (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), mostra una flessione del corpo di Cristo che ritorna in Cimabue e che può essere ritenuta come manifestazione di una tendenza gotica nella quale una lievissima nota di realismo accompagna il gusto della morbidezza lineare. Fu tuttavia nel ciclo di affreschi realizzati intorno al 1263-1265 nella navata della basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi che egli espresse appieno la propria personalità. L'obbligo di trattare in maniera monumentale la Vita di s. Francesco istituendo un parallelo con la Passione di Cristo probabilmente stimolò il pittore a cercare soluzioni innovative: pur mantenendo un'organizzazione spaziale bidimensionale, le figure, attraverso il profilo e i gesti, acquisiscono una vitalità del tutto nuova; il disegno delle pieghe degli abiti è reso ancora, come nella p. bizantina, attraverso un gioco di semplici linee che però in questo caso accompagnano direttamente i corpi, in modo da sottolinearne e amplificarne le movenze; numerosi particolari introducono alcuni motivi che apportano, benché trattati anch'essi in modo lineare, notazioni realistiche, come la vegetazione o gli uccelli raccolti intorno a Francesco per ascoltarne la predica. Paradossalmente, queste rappresentazioni del tutto nuove sono incorniciate da un intreccio di fasce decorative, rispetto alle quali formano un singolare contrasto, ma il pittore non esitò a far debordare le figure oltre la cornice, quasi a sottolineare che anch'esse non erano che segni.Inizialmente, Cimabue (v.) si riallacciò a questa tendenza: nella Maestà dipinta per la chiesa fiorentina di Santa Trinita (Firenze, Uffizi), il trattamento lineare delle pieghe rimanda a formule pienamente bizantine, anche se un senso nuovo del monumentale conferisce maggiore ampiezza alle figure. Nel cantiere di Assisi gli affreschi da lui eseguiti nell'abside della basilica superiore di S. Francesco mostrano ancora soluzioni analoghe, pur con reminiscenze della p. di Giunta Pisano, da cui derivano caratteri di maggiore espressività. Il largo uso del bianco di piombo, che si è ossidato, ha causato un effetto di inversione dei valori, producendo l'impressione di un negativo fotografico; malgrado la singolarità dell'immagine che ne risulta, le composizioni dedicate alla Vita della Vergine e all'Apocalisse si impongono per il senso di monumentalità, sia pure circoscritta all'interno di una struttura bidimensionale. Non a caso Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 36) attribuì la formazione di Cimabue a maestri greci, cioè bizantini o educati nel solco della tradizione bizantina. Pur essendo Cimabue fiorentino, risulta menzionato per la prima volta a Roma nel 1272 (Roma, S. Maria Maggiore, Arch., perg. A 45), data in cui doveva avere al massimo una trentina d'anni. In questo periodo, l'attività artistica nella città aveva ripreso slancio e non sorprende che un artista ancora giovane, ma probabilmente già conosciuto, si fosse recato a Roma per trovare lavoro in qualche grande cantiere o per un incarico di prestigio.Durante il breve pontificato di Niccolò III (1277-1280) il programma papale di restituire all'antico splendore i principali edifici di culto romani aveva reso nuovamente d'attualità la p. dei secoli passati. Si suppone che Pietro Cavallini (v.) venisse incaricato di restaurare gli affreschi romani di S. Paolo f.l.m. per volontà del pontefice. Da quanto è dato giudicare dopo la distruzione della basilica nell'incendio del 1823, sulla base delle riproduzioni e disegni antichi più o meno approssimativi (Roma, BAV, Barb. lat. 4406; Waetzoldt, 1964; Hetherington, 1979), il pittore romano avrebbe ritoccato in superficie molte delle composizioni del periodo paleocristiano, creando ex novo solo un ristretto numero di scene; questo rispetto per le opere antiche e la conseguente assimilazione della concezione cui erano ispirate pesarono in maniera decisiva nella formazione dell'artista, che da esse derivò un tipo di ideazione del tutto nuova. Nei mosaici da lui eseguiti in S. Maria in Trastevere a Roma, forse del 1291, commissionati da Bertoldo Stefaneschi, egli adottò un tipo di organizzazione spaziale analogo a quello dei mosaici di S. Maria Maggiore: una sorta di stretto proscenio, unico elemento che suggerisce una profondità rispetto al piano della parete, sul quale agiscono alcuni personaggi, e su questa piattaforma o sullo sfondo, come su un telone teatrale, elementi che designano la natura del luogo nel quale avviene l'azione.È tuttavia nel suo secondo grande ciclo pittorico, la decorazione ad affresco di S. Cecilia in Trastevere, che Cavallini si manifesta quale reale rinnovatore della pittura. Le parti conservate del grande affresco del Giudizio universale, sulla controfacciata della chiesa, mostrano personaggi vigorosamente modellati, abbigliati all'antica, con toghe le cui pieghe, invece di ricadere fitte e in forma tubolare, sono profondamente modellate dalle ombre nelle cavità. L'ispirazione all'Antico appare particolarmente evidente e poté essere stata rafforzata dalla parallela esperienza condotta in quegli stessi anni da Arnolfo di Cambio (v.), che erigeva e portava a termine, nel 1293, il ciborio della stessa chiesa di S. Cecilia.Se il ruolo e l'importanza di Pietro Cavallini sono ancora non del tutto chiariti, ciò è dovuto al fatto che su di lui non si hanno notizie certe. Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 185) lo dice allievo di Giotto (v.), il che è incompatibile con il suo intervento in S. Paolo f.l.m., probabilmente nel 1277; la sua identificazione, solitamente accolta, con Pietro de Cerronibus - più che centenario, secondo la testimonianza del figlio - indurrebbe a supporre che sia vissuto molto più a lungo del fiorentino Giotto; non si hanno tuttavia tracce di una sua attività posteriormente al 1321.È parimenti connesso a una cultura anticheggiante un importante nucleo di affreschi commissionati da Niccolò III e recentemente restituiti al loro aspetto originario, grazie a un esemplare restauro, nella cappella pontificia del Sancta Sanctorum, dipendente dal palazzo lateranense. Le scene, inserite in riquadri rettangolari, pressoché quadrati, sono circondate da elementi decorativi direttamente desunti dall'antica p. romana; pur essendo l'organizzazione delle scene analoga a quella adottata da Pietro Cavallini in S. Maria in Trastevere, le figure non raggiungono lo stesso vigore di espressione volumetrica né la stessa monumentalità. In alcuni riquadri l'autore, di certo maggiormente aderente alla tradizione bizantina, tratta i panneggi con un linearismo che si avvicina alle formule di tale tradizione, la cui impronta è particolarmente avvertibile nei mosaici che completano la decorazione dell'ambiente. L'esitazione tra due orientamenti stilistici è molto più evidente che non nell'opera di Pietro Cavallini, un artista che, allo stato attuale delle conoscenze, sembra indirizzato senza nostalgie passatiste verso una concezione più moderna.È ancora una concezione analoga quella individuabile negli affreschi di S. Piero a Grado, nei pressi di Pisa, che echeggiano, con una certa aderenza, le composizioni che un tempo ornavano il portico dell'atrio dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Non è chiaro se si tratti anche in questo caso di una commissione di Niccolò III, come afferma nel sec. 16° Tiberio Alfarano (De Basilicae Vaticanae), oppure di opere anteriori restaurate per volontà del pontefice al pari degli affreschi del sec. 5° della basilica ostiense di S. Paolo f.l.m.: il problema rimane, per ora, insoluto. La cultura del pittore di S. Piero a Grado, forse il lucchese Deodato di Orlando (v.), è di certo anticheggiante, anche se nell'esecuzione e nel fare pittorico dell'artista si riconoscono modi più vicini all'arte bizantina che non nelle creazioni di Pietro Cavallini.Se la Roma di Niccolò III svolse un ruolo importante nell'evoluzione della p. italiana, fu soprattutto il cantiere della decorazione della basilica di S. Francesco ad Assisi il vero campo di sperimentazione per ca. mezzo secolo. Già intorno al 1263-1265 l'intervento del Maestro di S. Francesco nella navata della basilica inferiore costituì un'opera di grande rilievo; di lì a poco, la decorazione della basilica superiore era destinata a rappresentare un eccezionale luogo di scambi e influenze. I lavori iniziarono dal braccio nord del transetto, negli anni intorno al 1270 o poco dopo la consacrazione dell'edificio, nel 1253; vennero allora chiamati artisti d'Oltralpe, probabilmente inglesi, che realizzarono affreschi contraddistinti da uno stile nettamente gotico. Tale intervento rimase un fatto isolato, forse perché questo stile, tanto poco conforme ai modi dei pittori italiani del tempo, indipendentemente dalla loro provenienza, non incontrò favore, come indurrebbe a ritenere il fatto che, per il braccio sud, la crociera e il coro, il complesso decorativo venne affidato a Cimabue. Il suo intervento ha potuto essere datato intorno al 1279 grazie a un particolare della rappresentazione di S. Marco, nella volta della crociera (ora parzialmente distrutta), allusivo al titolo di senatore di Roma di cui era a quella data insignito Niccolò III.Le due prime campate della navata - nelle volte e nelle zone della parete situate al di sopra del ballatoio alla base delle finestre - dovettero essere dipinte immediatamente dopo e affidate, questa volta, a pittori romani: Jacopo Torriti (v.), autore del mosaico dell'abside di S. Maria Maggiore a Roma, intervenne almeno nella volta della seconda campata; Filippo Rusuti potrebbe essere intervenuto sulla parete sud, sviluppando nelle scene della Creazione, dell'Arca di Noè e del Sacrificio di Abramo i modelli degli affreschi paleocristiani di S. Paolo f.l.m. e immettendo nelle rappresentazioni una maggiore spontaneità di atteggiamenti e una ricchezza cromatica che gli affreschi antichi probabilmente non possedevano.Le due campate successive sembrano anch'esse formare un insieme: nella volta della campata d'ingresso (ora distrutta) l'artista, dovendo rappresentare i Padri della Chiesa, riprese la composizione adottata da Cimabue nella crociera del transetto, ma nel dipingere le cattedre si servì del repertorio decorativo dei Cosmati e soprattutto definì uno spazio intorno ai personaggi.Il secondo artista che lavorò alla parete nord, spesso menzionato come Maestro della Cattura (v.), mostra un orientamento diverso: malgrado la sua indubbia cultura antica, egli tendeva a un'espressione artistica monumentale quale quella di Pietro Cavallini e alcune delle sue composizioni delle Storie della Passione, come la Cattura di Cristo, prefigurano quelle di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova.Il momento di svolta più evidente è tuttavia quello compiuto dal Maestro di Isacco (v.), sulla cui personalità i pareri sono molto discordi. Con lui il rapporto con l'Antico si affermò con maggiore evidenza, inscrivendosi direttamente in un'imitazione delle rappresentazioni spaziali degli affreschi romani e delle forme della scultura antica. Se l'ipotesi di una sua identificazione con Giotto giovane può risultare seducente, appare tuttavia ancor meno convincente di una sua identificazione con il Maestro della Cattura. Il carattere scultoreo delle sue composizioni è fin troppo particolare e non corrisponde realmente alla visione giottesca; sembra più allettante l'idea che si tratti invece dello scultore Arnolfo di Cambio (Romanini, 1987): questa ipotesi consentirebbe di spiegare il carattere eccezionale dei suoi affreschi, che non ebbero alcun seguito diretto. Con tale artista si passò dalla tecnica della p. murale a secco al vero e proprio affresco, il 'buon fresco', in base al quale il lavoro dei pittori, invece di essere realizzato per fasce orizzontali corrispondenti alle altezze delle impalcature (le pontate), si svolge secondo zone di preparazione dell'intonaco (le giornate), delimitate dall'artista in funzione degli elementi da dipingere.Questa prima campagna della navata della basilica superiore dovette essere realizzata molto rapidamente tra il 1285 e il 1295 ca. e i lavori dovettero svolgersi in un clima di straordinaria emulazione tra gli artisti che operavano in questo cantiere prestigioso, guidato quasi direttamente dall'ambito della corte pontificia nella persona del cardinale Matteo Rosso Orsini, protettore dell'Ordine dal 1279 al 1308; da ciò anche l'importanza che assunse la novità delle proposte formulate da ognuno degli artisti che vi operarono.Rispetto all'Italia di questo periodo, l'Europa settentrionale può apparire un deserto: le distruzioni, dovute tanto agli iconoclasti quanto al mutamento del gusto, sono state tanto estese che solo poche testimonianze di quella che doveva essere l'arte pittorica dell'epoca sono pervenute. Per immaginare quali caratteristiche avessero la p. murale o la p. su tavola è spesso necessario fare ricorso alla miniatura e alle vetrate, senza per questo poter garantire che la loro testimonianza corrisponda esattamente a quella che era la pratica pittorica propriamente detta.Non si conosce praticamente nulla sulle botteghe che lavorarono per il re di Francia Luigi IX (1226-1270), il cui grande impegno in opere di edilizia lascia presumere che si servisse anche di pittori. L'eccezionale qualità delle miniature del suo salterio (Parigi, BN, lat. 10525) non autorizza tuttavia a ritenere che i pittori che lavoravano per lui si esprimessero con eguale originalità di stile. Le uniche testimonianze pervenute, i medaglioni degli archi ciechi nella cappella alta e un'Annunciazione nella cappella bassa della Sainte-Chapelle di Parigi, sono molto difficili da analizzare a causa dei drastici e scorretti restauri eseguiti nel secolo scorso, ma consentono quanto meno di immaginare che la p. della corte francese di Luigi IX fosse certo d'ispirazione essenzialmente gotica, di un Gotico lineare, affine a quello del miniatore del salterio, che inscriveva figure flessuose e sottili in fondi decorativi, in questo caso composti da vetri colorati e dipinti e da motivi dorati.Dell'arte della corte inglese rimangono alcune testimonianze più consistenti. Se la Painted Chamber del palazzo di Westminster andò distrutta nell'incendio del 1834, alcune riproduzioni antiche e due frammenti del soffitto, recentemente riapparsi (Londra, Nat. Gall.), consentono tuttavia di farsene un'idea sufficientemente precisa; si trattava della decorazione di una camera regale nella quale, durante la seconda metà del sec. 13°, erano state compiute varie campagne di lavori: una prima verso il 1262, una seconda tra il 1263 e il 1272 e una terza tra il 1288 e il 1307; nelle riproduzioni si evidenziano composizioni tipicamente gotiche, spesso inserite in architetture dello stesso stile, con una netta tendenza all'allungamento delle figure umane. A quest'opera, di cui non è dato che supporre le qualità artistiche, possono essere aggiunte tre p. mutile, ma ancora di notevole interesse: due affreschi nel transetto meridionale dell'abbaziale di Westminster, raffiguranti l'uno S. Cristoforo, l'altro l'Incredulità di s. Tommaso, ascrivibili alla stessa temperie stilistica, e soprattutto il dossale di Westminster, purtroppo molto frammentario e deteriorato, ma che tuttavia rappresenta una delle più significative p. su tavola del Gotico settentrionale, per la sua finezza di esecuzione e di organizzazione; il pittore del re, Walter di Durham, la cui attività è documentata dal 1265 ca. al 1300, è di certo l'autore di alcune di queste opere, attraverso le quali è plausibile l'ipotesi di immaginare, dati gli stretti legami che intercorrevano tra le due corti, le caratteristiche della p. francese perduta.Ben diversa era la situazione nel mondo germanico, dove il parallelismo tra miniatura e p. può essere verificato in modo diretto, anche se le testimonianze di p. murale e di p. su tavola non sono molto numerose. Nella miniatura si sviluppò, a partire dalla prima metà del sec. 13° e in particolare nelle botteghe di Ratisbona, quello che viene denominato Zackenstil. Si tratta di un'espressione stilistica molto diversa da quella delle corti francesi e inglesi, a ragione definita (Nordenfalk, 1937) come una commistione tra il nuovo sistema di rappresentazione delle vesti del primo Gotico e gli schemi formali bizantini dei panneggi. Ne risulta un disegno spezzato, che moltiplica gli angoli acuti, pur sempre all'interno naturalmente di un'organizzazione spaziale bidimensionale. L'insieme più notevole pervenuto è la decorazione della cappella vescovile del duomo di Gurk (v.), in Carinzia, tanto più affascinante in quanto sviluppa un'iconografia colta in una singolarissima gamma cromatica nella quale predominano dei verdi squillanti. Affreschi importanti si trovano anche nella Dominikanerkirche a Krems (v.), in Austria Inferiore, e nella cappella vescovile della Benediktinerinnenkirche a Göss, in Stiria, come pure nella collegiata di St. Kunibert a Colonia. Un altare portatile (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Gemäldegal.), proveniente da Soest, in Vestfalia, comprova la diffusione di questo stile in tutte le regioni germaniche, come pure il suo uso nella p. su tavola.Anche nella penisola iberica, soprattutto nel regno di Aragona, si trovano opere improntate a un linearismo gotico di ascendenza francese, ma non sono però individuabili in quest'epoca botteghe particolarmente innovative.Il periodo compreso tra il 1330 e il 1350 è caratterizzato da un'evoluzione pittorica di grande rilievo, che si manifesta innanzitutto con la scomparsa quasi definitiva di qualsiasi tendenza bizantineggiante. Al contrario, fu invece il momento di massima espansione in tutta Europa della p. gotica, fenomeno al quale non fu estraneo l'insediamento della corte papale ad Avignone, mentre, parallelamente, si sviluppò un'arte nuova scaturita dalla tendenza anticheggiante di cui Firenze era divenuta centro dopo l'allontanamento da Roma della corte pontificia.Nello stesso tempo la p. cominciò a essere utilizzata - ma forse ciò era accaduto anche precedentemente - come manifestazione del potere: a Siena, seguendo probabilmente l'esempio di Firenze, le cui analoghe realizzazioni pittoriche non sono pervenute, gli organi di governo della città fecero dipingere nel Palazzo Pubblico i castelli che la città aveva conquistato o di cui era entrata in possesso. Si conservano due di queste p. murali, che ricordano la resa del castello di Giuncarico, forse di Duccio di Buoninsegna (v.), e Guidoriccio da Fogliano che si reca all'assedio del castello di Montemassi, opera di Simone Martini (v.); l'aspetto interessante è che tali commissioni non si devono più a un principe ma a un potere comunale.In Italia, la produzione pittorica di questo periodo presenta un singolare contrasto: da una parte è manifestazione di personalità artistiche di grande rilievo - Giotto, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti (v.) -, mentre dall'altra pone il problema delle maestranze che con essi lavorarono e delle possibili collaborazioni con altri maestri; ogni bottega sembra avesse un'organizzazione diversa che dipendeva dalla personalità del maestro, nonché dalle capacità e qualità degli aiuti.
Assisi fu il teatro di un decisivo rinnovamento con l'apparizione o l'affermazione - a seconda delle diverse tesi in merito al suo periodo giovanile - di Giotto. Quasi tutti sono concordi nell'attribuirgli la paternità del ciclo di affreschi nella basilica superiore con le Storie di s. Francesco e pochi continuano a contestare tale attribuzione. Le opinioni sono invece divergenti per quanto concerne il momento in cui l'artista avrebbe iniziato a lavorare nel cantiere assisiate, così come variamente articolate, a seconda dell'opinione degli studiosi in merito alla formazione del pittore, sono le ipotesi attributive che lo vedrebbero autore degli affreschi del Maestro di Isacco, di quelli del Maestro della Cattura, se non anche delle pitture della volta raffiguranti i Padri della Chiesa. Gli affreschi con le Storie di s. Francesco possono infatti apparire come una sintesi nella quale sarebbero confluiti apporti diversi di questi tre insiemi di p., i quali possono dunque essere interpretati sia come esperienze diverse maturate dall'artista sia, in alternativa, come suoi modelli.A ogni modo, la vita di s. Francesco, che era stata fonte di così felice ispirazione per il maestro anonimo della navata della basilica inferiore di Assisi, costituì nuovamente uno stimolo eccezionale per il maestro fiorentino. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di creare per intero scene nuove, e non più di inserirsi in una sequela di formule fisse, e questa stessa libertà di concezione di certo contribuì a un rinnovamento dei modi di rappresentazione.La prima innovazione pittorica introdotta da questo ciclo consistette nel definire i limiti delle scene come aperture su uno spazio che sembra scavato oltre la superficie della parete: si tratta tuttavia di uno spazio che si presenta con un limite immediato e che si definisce come una scatola spaziale. Tale delimitazione, che non determina quindi ampi sviluppi nel modo di evocare il luogo dell'azione rappresentata, consente, nondimeno, una vigorosa resa dei volumi, e la visione di Giotto si afferma allora come quella di un artista rivolto al monumentale. Al gratuito infittirsi delle pieghe si sostituiscono forme semplici, che si modellano sulla geometria fondamentale dei corpi, un modo di rappresentare le vesti che ben si adatta alla semplicità del saio francescano. Si ravvisa qui l'eredità del carattere scultoreo degli affreschi del Maestro di Isacco, ma ammorbidito e reso più umano da una sensibilità che ricorda le scene della Passione del Maestro della Cattura. La realizzazione del ciclo, che non dovette richiedere più di due anni, si situerebbe, secondo Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 100), nel tempo in cui Giovanni Mincio da Morrovalle era generale dei Francescani, cioè tra il 1296 e il 1304, intorno quindi al 1300.
La consacrazione dell'artista fu quasi immediata. Gli vennero richieste opere da più parti: a Roma, il cardinale Jacopo Stefaneschi (ca. 1260-1341) gli affidò il restauro o il rifacimento del mosaico della Navicella nell'atrio di S. Pietro in Vaticano e alcuni anni dopo gli commissionò un polittico per l'altare maggiore della stessa basilica (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca); a Rimini, Giotto eseguì opere sulle quali non si hanno notizie certe, ma che influenzarono profondamente la scuola locale; a Padova decorò per Enrico degli Scrovegni (m. dopo il 1336) la cappella da questi eretta, detta dell'Arena; a Milano, Azzone Visconti (1302-1339) gli commissionò la decorazione del proprio palazzo; a Napoli, per conto di Roberto II d'Angiò (1309-1343), dipinse in Castel Nuovo una cappella; a Firenze, infine, sua città natale, venne riconosciuto come caposcuola e lavorò in diverse chiese prima di essere chiamato ad assumere la direzione del cantiere del duomo. La maggior parte di queste opere è andata perduta ed è nota soltanto attraverso i riflessi che se ne scorgono in opere di altri artisti. Tra tutte, l'opera maggiore è la decorazione della cappella degli Scrovegni a Padova, dipinta verso il 1303-1305. L'artista, rapidamente conquistata la maturità e non ancora sollecitato a intervenire in altri cantieri, condusse con autorità l'intera esecuzione, lasciando scarsa libertà agli aiuti, la cui presenza non è facilmente individuabile.Tuttavia sembra che nella bottega di Giotto alcuni artisti di maggiore personalità riuscissero a lavorare con un certo margine d'azione. Ad Assisi, le ultime scene delle Storie di s. Francesco sembra siano state eseguite dall'artista fiorentino detto il Maestro della S. Cecilia (v.). Per le opere realizzate successivamente nella basilica inferiore intervennero altri collaboratori, come il Maestro di S. Nicola, il Maestro delle Vele (v.) e probabilmente altri ancora. Alcuni di questi pittori compongono le scene utilizzando motivi desunti dall'opera del maestro, copiati direttamente oppure ripresi da cartoni frammentari conservati nella bottega. Nella cappella Baroncelli di Santa Croce a Firenze, affrescata da Taddeo Gaddi (v.), il polittico dell'altare è firmato da Giotto, anche se attualmente non lo si riconosce di sua mano. Questa potrebbe forse essere la prova che l'intera commissione - polittico e affreschi - fosse stata affidata a Giotto, il quale avrebbe incaricato della realizzazione il più giovane Taddeo Gaddi che, secondo Cennino Cennini (Libro dell'arte, I), sarebbe stato per ventiquattro anni suo discepolo e avrebbe portato a compimento l'opera dopo la morte del maestro.A parte Taddeo Gaddi, rimasto molto fedele all'eredità giottesca, si distinguono solo poche personalità direttamente formate alla sua scuola, che appaiono tuttavia secondarie, come l'assisiate Puccio Capanna (v.); la personalità di Stefano Fiorentino (v.), nipote di Giotto, non è ancora stata individuata con certezza, mentre il più geniale tra gli eredi di Giotto, anche se forse non passò direttamente per la sua bottega, è sicuramente Maso di Banco (v.), i cui affreschi nella cappella Bardi a Santa Croce mostrano un'originale interpretazione della lezione del maestro; nella sua opera si notano un'accentuazione ancora più netta dei volumi e una ricchezza cromatica del tutto nuova. Durante la prima metà del secolo il linguaggio giottesco dominò l'intera scuola fiorentina e venne recepito anche da artisti non formatisi direttamente nella sua bottega, come Bernardo Daddi (v.), che vi immise componenti gotiche.Rispetto a Firenze, Siena sviluppò una scuola pittorica particolarmente ricca di energie, che era meno accentrata sulla figura di un maestro rispetto a quella fiorentina e che contrapponeva alla lezione giottesca un orientamento più decisamente gotico, derivato probabilmente, almeno in parte, dall'Europa settentrionale. L'influenza dello scultore Giovanni Pisano, i cui contatti con i cantieri delle cattedrali francesi sono più che probabili, poté esercitarsi nel periodo in cui lavorava alla facciata della cattedrale, tra il 1285 e il 1297. Il primo maestro della scuola senese, più anziano di Giotto di una quindicina d'anni e praticamente della generazione di Cimabue, Duccio di Buoninsegna, aveva avuto una formazione di impronta bizantina, come testimonia la Madonna Rucellai (Firenze, Uffizi), dipinta per la fiorentina Compagnia dei Laudesi nel 1285. Da questo momento si avverte tuttavia il gusto di una linea più morbida e di un colorismo più raffinato di quello adottato negli stessi anni da Cimabue, e che non è nemmeno tipico delle ascendenze bizantine. Se la menzione a Parigi, nel 1296, di un Duch de Siene (Parigi, Arch. nat., KK 283, c. 33a) si riferisce effettivamente a Duccio, la frequentazione delle botteghe di miniatori della capitale francese avrebbe potuto contribuire allo sviluppo di questo primo indirizzo.Il capolavoro dell'artista, la Maestà (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), destinata all'altare maggiore del duomo di Siena e compiuta nel 1311, testimonia appieno tale evoluzione, poiché delle origini bizantineggianti non conserva nulla più che il tracciato astratto di alcune pieghe lumeggiate in oro, uno schema che l'artista applicava solamente nelle figure dei personaggi divini. Le tinte giungono alla raffinatezza dei mezzi toni in una gamma calda che conferisce alla scena un carattere di poetica irrealtà. A prima vista, Duccio può apparire molto vicino a Giotto per la sua concezione spaziale, in quanto colloca i suoi personaggi in una scatola spaziale, la cui struttura è spesso nettamente sottolineata da elementi architettonici; tuttavia, la profondità del piano pittorico resta in lui più suggestiva che visuale e le forme architettoniche presentano il più delle volte proporzioni esili che conferiscono loro una sorta di irrealtà, in un'interpretazione tutta mentale e fantastica che si avvicina a quella dei miniatori di Parigi.Alla morte di Duccio di Buoninsegna, nel 1319, sulla scena già erano presenti tre grandi artisti, probabilmente passati per la sua bottega, ma che nondimeno elaborarono una p. che si distingue per i suoi caratteri originali; è inutile cercare di individuare la loro collaborazione nell'esecuzione della Maestà di Siena: anche ammettendo che siano intervenuti nell'opera, non poterono farlo che all'interno di una definizione delle forme dettata dal maestro, la cui personalità si impone nell'intera composizione conferendole unità stilistica.Il più anziano dei tre, Simone Martini, ricevette l'incarico nel 1315 di dipingere l'affresco di una grande Maestà nel Palazzo Pubblico di Siena. Nell'accingersi all'opera propose soluzioni che si differenziavano fortemente da quelle di Duccio, definendosi sin da quest'opera come artista più legato alla cultura gotica: egli inquadrò la sua composizione in una cornice di finto marmo, in prospettiva, che suggerisce una profondità rispetto alla superficie, come le cornici di Giotto nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi; tuttavia, pur affollandosi sotto un baldacchino reso secondo una prospettiva, sia pure approssimativa, gli angeli e i santi si presentano essenzialmente in piano; l'affresco appare quindi come un grande arazzo, tanto più che tutt'intorno alla scena principale corre una larga fascia decorativa nella quale sono inseriti dei medaglioni, sui quali si stagliano figure di santi.La cappella di S. Martino, nella basilica inferiore di Assisi, eretta dal cardinale Gentile da Montefiore (m. nel 1312), dovette essere stata affrescata da Simone Martini immediatamente dopo la conclusione della Maestà di Siena. Il pittore appare più attento tanto alla definizione dello spazio, quanto a un più intenso risalto plastico delle forme, dimostrando una maggiore adesione alla lezione di Giotto; dominante tuttavia è pur sempre la linea che marca con forza i profili. La narrazione appare più attenta ai motivi pittoreschi, accostandosi in qualche modo all'evocazione di scene di vita vissuta attraverso la presenza di innumerevoli oggetti quotidiani.Simone Martini era coadiuvato da aiuti di bottega, ma trovò i propri collaboratori soprattutto nell'ambito della cerchia familiare; forse egli stesso, agli inizi, lavorò come assistente di Memmo di Filippuccio (v.), di cui, nel 1324, sposò la figlia Giovanna. Nel 1317 il suo futuro cognato Lippo Memmi (v.) imitò la Maestà di Siena nel palazzo del Popolo di San Gimignano e collaborò spesso con Simone Martini, come suo fratello Tederico; inoltre, l'opera che appare come la più significativa di Simone Martini, la pala dell'Annunciazione del 1333 (Firenze, Uffizi), dipinta per il duomo di Siena, è firmata da entrambi gli artisti: la ritmica espressività della linea induce a considerarla come la più matura creazione gotica di Simone. Si trattava perciò di un'impresa a carattere familiare, sviluppata intorno al pittore maggiormente dotato, nella quale ognuno interveniva isolatamente o in collaborazione. L'invito a lavorare ad Avignone presso la corte pontificia, forse nel 1336, consolidò ulteriormente la fama di Simone e fece sì che il suo messaggio si diffondesse in Provenza e all'estero. Della sua produzione avignonese non restano che frammenti, quali le sinopie degli affreschi del portale della cattedrale di Notre-Dame des Doms (Avignone, palazzo dei Papi), particolarmente suggestive per la loro ricerca di purezza lineare.I fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti costituiscono un altro esempio di artisti tra loro imparentati. La collaborazione tra i due è provata dalla firma apposta in comune negli affreschi della facciata dello Spedale di S. Maria della Scala a Siena, nel 1335: purtroppo queste p., che avrebbero potuto illuminare sulla natura della loro collaborazione, sono andate perdute. Presumibilmente Ambrogio era il minore dei due, tuttavia si riferisce a lui la prima data certa, quella del 1319 per la Madonna con il Bambino per la chiesa di S. Angelo a Vico l'Abate (San Casciano in Val di Pesa, Mus. Vicariale d'Arte Sacra). Si potrebbe tuttavia supporre che egli compisse la propria formazione presso il fratello maggiore, collaborando con lui in un primo tempo, ma si tratta solo di un'ipotesi, in quanto tra i due artisti le differenze di stile sono notevoli. L'altro aspetto che caratterizza i due pittori è che, tra i grandi maestri senesi, essi furono i più ricettivi nei confronti dello stile giottesco, del quale assimilarono però le componenti in maniera personalissima; forse il contatto con la p. di Giotto era avvenuto ad Assisi, dove, nel braccio sud del transetto della basilica inferiore di S. Francesco, Pietro dipinse una serie di scene della Passione e della Risurrezione di Cristo, nelle quali è ignoto se il pittore avesse collaborato con Ambrogio, come si era pensato un tempo. La composizione più drammatica, la Deposizione, mostra chiaramente il suo debito verso Giotto, presentando figure avvolte in manti che ricadono in pieghe verticali creando masse scultoree; la grandezza di Pietro si manifesta qui nella capacità di conciliare la monumentalità del suo predecessore con un'organizzazione lineare delle masse, inscrivendole in un'unica curva espressiva che accentua la dolorosa tragicità della scena. Ambedue i fratelli inoltre si sono dimostrati attenti nel creare un'ambientazione spaziale, anche se, nella maggior parte dei casi, si tratta di uno spazio-limite; le architetture che dovrebbero definire il luogo sono nondimeno esili e dipinte con colori arbitrari, tanto da sembrare ben più irreali rispetto a quelle degli artisti fiorentini. Uno dei contributi più innovativi dei Lorenzetti consistette nell'introduzione di elementi narrativi nei dipinti d'altare. L'esempio più significativo è costituito dal polittico con la Natività della Vergine (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), terminato da Pietro nel 1342, di cui si conserva anche uno scomparto della predella (Londra, Nat. Gall.): l'evento si svolge su tre scomparti, di cui due formano un vano unico diviso da un montante della cornice, dietro il quale si intravede una figura parzialmente nascosta, mentre nello scomparto di sinistra sono raffigurati Gioacchino in attesa in una stanza attigua, e un bambino che gli reca la notizia della nascita.La frequente citazione di elementi della vita quotidiana, che già cominciava ad accennarsi in Duccio di Buoninsegna, costituiva ancora una novità nella p. senese. In linea con questo gusto cronachistico, in uno scomparto della predella della pala del Carmine (Siena, Pinacoteca Naz.), Pietro rappresenta Sobas addormentato, steso sul letto, aggiungendo la notazione del suo mantello appeso a un'asta di legno. Tale tendenza risulta ancor più accentuata in Ambrogio, che la amplificò negli affreschi del Palazzo Pubblico di Siena con le allegorie del Buono e del Cattivo Governo; accanto a figure allegoriche, che conservano peraltro un'aria familiare, vengono descritti attentamente i diversi effetti del buon governo in un ampio paesaggio urbano, che si prolunga attraverso viste sul contado, dove fervono svariate attività descritte con vivo senso del pittoresco. Si è anche voluto attribuire ad Ambrogio il merito di aver introdotto la p. di paesaggio, in quanto due tavolette (Siena, Pinacoteca Naz.), stilisticamente affini agli sfondi dell'affresco del Palazzo Pubblico senese, descrivono esclusivamente elementi paesistici; lo spessore dei pannelli, tuttavia, indica che costituivano parte di un'opera di formato maggiore e che quindi non erano stati concepiti come opere a sé stanti.Sono databili a questa prima metà del secolo, forse intorno al 1340, gli affreschi con Storie della Passione nella navata della collegiata di San Gimignano, attribuiti da Ghiberti e da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 255) a Barna da Siena (v.), un pittore su cui si hanno scarse notizie, mentre alcuni (Freuler, 1986) propongono come autore Lippo Memmi o la sua bottega; si ravvisa in quest'opera un certo eclettismo che a reminiscenze giottesche accompagna forme derivanti da Simone Martini, con una vivacità nella resa dei gesti dei personaggi che rimanda ai Lorenzetti.I modi elaborati dall'arte senese esercitarono la loro influenza Oltralpe attraverso la corte papale di Avignone. Decisivo in questo senso risultò l'arrivo di Simone Martini, che con la sua opera diede impulso a un indirizzo in seguito sviluppato dai suoi successori. Non fu tuttavia un senese ad assumere la guida del cantiere del palazzo dei Papi, ma un pittore di Viterbo, Matteo Giovannetti (v.): chiamato ad Avignone nel 1343, dov'era ancora attivo Simone Martini, egli ricevette importanti incarichi e di lui restano vari cicli ben noti, come quello della cappella di S. Marziale nel palazzo dei Papi e quello nella cappella di S. Giovanni nella certosa di Villeneuve-lès-Avignon, dipinti in uno stile narrativo molto senese. Non è stata ancora compiuta un'indagine approfondita sui differenti aiuti attivi al suo fianco; soprattutto, non è ancora chiaro il ruolo da lui svolto nella decorazione della camera del Cervo nella torre della Guardaroba (1343) del palazzo dei Papi avignonese, poiché i documenti menzionano altri due pittori italiani che lavoravano con l'artista nella torre, Pietro da Viterbo e Rigo d'Arezzo, oltre ai francesi Pierre Resdol e Robin de Romans. Gli affreschi sono particolarmente originali nella composizione, con scene di pesca e di caccia su fondi di verzura che fanno pensare agli arazzi del secolo successivo, dei quali non si conoscono peraltro esempi significativi della prima metà del sec. 14°, anche se sparse menzioni inventariali inducono a non escluderne l'esistenza. Lo stile delle figure non consente di avanzare un'attribuzione certa a Matteo Giovanetti e finora non si è riusciti a identificare la parte dovuta agli altri artisti; non è possibile quindi direse questo nuovo genere sia stato da lui introdotto oppure se Matteo e i suoi collaboratori si siano limitati a sviluppare formule delle botteghe senesi di cui non restano oggi altri esempi, oppure ancora se il merito di tale rinnovamento della visione vada reso integralmente ai pittori francesi.L'influenza di Giotto si esercitò ampiamente in diverse regioni dell'Italia. Il suo passaggio da Rimini fu determinante per il formarsi di una scuola locale che, con Giovanni da Rimini (v.), Pietro da Rimini (v.) e il Maestro di Verucchio, interpretò la lezione giottesca immettendovi spesso leggere inflessioni gotiche. Fu però soprattutto a Bologna che il suo messaggio venne accolto e reinterpretato in maniera originale; intorno al 1330 due pittori anonimi, il Maestro del 1333 e lo pseudo-Jacopino di Francesco, si distinguono per una ricerca di forza espressiva che va a detrimento di una più accurata finezza di esecuzione. Tale tendenza trovò il suo interprete migliore in Vitale da Bologna (v.), che negli affreschi dell'oratorio di Mezzaratta del 1345 ca. (Bologna, Pinacoteca Naz.) e in quelli del duomo di Udine (1348) si esprime con sorprendente impeto nella concitata gestualità dei personaggi, che si stagliano in un vigoroso, anche se sommario, modellato in uno spazio limite sinteticamente definito. Si è anche pensato in passato di attribuire a Vitale da Bologna l'eccezionale ciclo di affreschi del Camposanto di Pisa rappresentanti la Risurrezione, la Verifica delle stimmate, l'Ascensione, il Trionfo della Morte, il Giudizio finale, l'Inferno e la Tebaide, in quanto nella loro esecuzione si avverte in parte la vivacità di movimenti tipica del suo stile. Allo stato attuale, i nomi proposti per quest'opera sono quelli del pisano Francesco Traini (v.) e di un singolare allievo indiretto di Giotto, Buonamico Buffalmacco (v.), noto ai suoi tempi come protagonista di scherzi e celie (Bellosi, 1974).Questi affreschi potrebbero essere un'espressione lontana della lezione giottesca, che si combina con una freschezza narrativa riferibile forse all'eredità senese e a un gusto per la rappresentazione allegorica che si esprimeva in quegli anni nella miniatura, in particolare nelle illustrazioni che accompagnano gli scritti del notaio e poeta fiorentino Francesco da Barberino (1264-1348). Occorrerebbe inoltre porsi il problema della reale esistenza di una 'scuola pisana', nel caso fosse confermata l'attribuzione a Francesco Traini, oppure se non occorra piuttosto considerare quest'ultimo come un artista isolato, la cui formazione aveva assorbito elementi della cultura fiorentina come di quella senese.A Venezia, Paolo Veneziano (v.) si mostrò inizialmente fedele alla tradizione bizantina, accogliendo poi una fluenza gotica delle forme. Nel 1345 egli firmò, insieme ai suoi figli Luca e Giovanni, la coperta della Pala d'Oro (Venezia, Mus. della Basilica di S. Marco), opera nella quale non è possibile distinguere i rispettivi apporti; nelle scene narrative della Vita di s. Marco prevale una visione bizantineggiante da cui deriva l'intensità della gamma cromatica dalle accese coloriture.Nell'Europa settentrionale, durante la prima metà del sec. 14° si moltiplicarono le testimonianze sull'attività di pittori dei quali è pervenuto un numero di opere più consistente. Pur avendo notizie del passaggio di alcuni artisti italiani, non vi è traccia, tranne che in Boemia, di opere certe a loro attribuibili, in base alle quali verificarne l'influsso. La fonte più importante sull'arte pittorica dell'epoca è ancora la miniatura; alcuni pittori operarono probabilmente in ambedue i campi e l'eccezionale qualità delle illustrazioni dei manoscritti inglesi e francesi testimonia un notevole progresso, tale da far supporre l'influenza di una grande p. - della quale tuttavia non restano che troppo scarse testimonianze - oppure un influsso della miniatura sulla p. stessa.È noto che il re di Francia Filippo IV il Bello (1285-1314) aveva chiamato alla sua corte e fatto lavorare nel suo palazzo di Poitiers un tale Filippo Bizuti nel quale si deve certamente riconoscere Filippo Rusuti (v.), autore del mosaico della facciata di S. Maria Maggiore a Roma; questi era accompagnato dal figlio Giovanni e da un certo Niccolò de Marsi. Non è facile ricostruire le eventuali ripercussioni della sua presenza sull'arte francese. Appare poco probabile che egli sia stato l'autore del dittico rappresentante il Cristo e la Vergine a mezza figura offerto dal futuro re di Francia Giovanni II il Buono (1350-1364) nel 1342 a papa Clemente VI (1342-1352), noto attraverso un disegno (Parigi, BN, Cab. Estampes, Coll. Gaignières, Oa 11, cc. 85-88), dato che la sua forma sembra piuttosto ricordare una creazione senese o fiorentina e, quindi, un'opera avignonese.In Francia, l'attività pittorica si concentrò soprattutto nelle opere di decorazione delle grandi dimore. Mahaut d'Artois, contessa di Fiandra (1302-1329), si servì di diversi pittori per decorare la propria residenza parigina, ovvero l'Hôtel d'Artois, il castello di Conflans nell'Artois (dip. Yvelines) e quello di Hesdin (dip. Pas-de-Calais), dove lavorarono in particolare Evrard d'Orléans - documentato dal 1292 al 1350 e divenuto pittore del re - e il brabantino Pierre de Broisseles (Bruxelles), ricordato tra il 1320 e il 1329. Di questo periodo non è rimasto, sfortunatamente, quasi nulla in Francia. La miniatura raggiunse vertici particolari, specie con l'opera di Jean Pucelle (v.). Se ne può dedurre che la p. di corte non ebbe a discostarsi dallo stile delle miniature, segnate da una tendenza dichiaratamente gotica, a eccezione forse delle opere realizzate da Filippo Rusuti e dai suoi collaboratori. I pochi affreschi a soggetto religioso conservati nella chiesa di Saint-Amand-de-Boixe (presso Angoulême, dip. Charente), nella cattedrale di Notre-Dame a Clermont-Ferrand, in quella di Saint-Etienne a Cahors e ai Jacobins di Tolosa sono anch'essi in stile gotico ma, nel complesso, non presentano caratteri di particolare originalità.In Inghilterra, Edoardo II (1307-1327) ed Edoardo III (1327-1377) sembrano dimostrare verso la p. un interesse assai minore di quello che animava Enrico III (1216-1272) ed Edoardo I (1272-1307). Thomas di Westminster, probabilmente figlio di Walter di Durham, è ricordato nel 1307-1308 per avere dipinto un trono (Tristram, 1955).Due opere testimoniano la persistenza di una tradizione pittorica improntata a un raffinatissimo stile gotico: un affresco monumentale che costituisce la decorazione dell'altare di s. Fede nell'omonima cappella della cattedrale di Westminster, databile verso l'inizio del secolo, e soprattutto una pala d'altare, di cui una parte è conservata nella chiesa di Thornham nel Suffolk e una parte a Parigi (Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny): le figure si stagliano su un fondo decorativo che esclude qualsiasi effetto di profondità, ma sottolinea la morbidezza delle immagini. È possibile che a Parigi l'arte di corte non si differenziasse molto da quella rappresentata da questi esempi.Le ante della pala di Klosterneuburg (collegiata), hanno inserite, sul lato posteriore, quattro tavole, databili al 1331, le quali presentano tali affinità con le figure della pala di Thornham da fare avanzare l'ipotesi che si tratti dell'opera di un pittore inglese, sebbene appaiano di fattura più raffinata, caratterizzate da un fondo oro - e non ornato - che maggiormente fa risaltare l'eleganza delle figure; la presenza di alcuni motivi serve a suggerire inoltre l'ambientazione della scena rappresentata. Si tratta probabilmente di un'opera a sé stante che forse non è possibile considerare come indicativa dell'intera produzione pittorica in Austria; nello stesso convento, e all'incirca negli stessi anni, venne realizzato un altare della Passione (Klosterneuburg, Stiftsmus.) il cui stile appare più vicino a manufatti di provenienza coloniense.È infatti a Colonia, uno dei più fertili centri di produzione artistica, che si conserva il maggior numero di p. di questo periodo. La ricchezza della città, fulcro del commercio renano, la potenza del suo vescovo, l'importanza della sua cattedrale, luogo privilegiato di pellegrinaggi, costituivano il terreno adatto a una grande fioritura in campo artistico.Il complesso più importante pervenuto è dato dalle p. dei dorsali degli stalli del coro della cattedrale, databili intorno al 1330. Esse presentano alcune affinità con gli affreschi di Westminster, con caratteristiche sostanzialmente gotiche: le scene sono inserite in strutture architettoniche che richiamano tanto le ambientazioni predilette dai miniatori francesi quanto quelle usate nelle vetrate, esile indizio che tenderebbe però a confermare che la p. non doveva discostarsi in modo sostanziale dalle altre arti figurative, quali la miniatura e le vetrate. Altre testimonianze di opere pittoriche, in questo caso su tavola, presentano analoghe affinità stilistiche, ma con una più accentuata tendenza al linearismo rispetto ai dipinti degli stalli, improntati a una maggiore pittoricità.Nella penisola iberica, accanto al perdurare di espressioni di un Gotico lineare, l'attività pittorica si sviluppò soprattutto nel regno di Aragona, che estendeva la propria sovranità sulla Catalogna e sul regno di Valenza. La conquista della Sicilia, alla fine del sec. 13°, pur avendo portato alla creazione di un regno indipendente, fece sì che si stabilisse un rapporto diretto e continuativo con l'Italia, dove molti artisti si recavano per completare la loro formazione. Si capisce quindi come il barcellonese Ferrer Bassa e suo figlio Arnau (v. Bassa, Ferrer e Arnau) sembrino avere avuto contatti molto precoci con la p. di Ambrogio Lorenzetti, con il quale condivisero il gusto per la narrazione. Si assiste qui alla comparsa di un nuovo modo di organizzare la composizione del polittico, che sarebbe divenuta tipica di questa zona, con pannelli accostati in modo da formare un'ampia superficie dipinta, di solito addossata alla parete dell'abside, sulla quale gli episodi raffigurati si succedono nella composizione partendo da un asse centrale, occupato da una o più immagini sacre sovrapposte verticalmente.In tutta Europa, il passaggio della metà del secolo rappresentò una netta cesura. L'epidemia di peste, scoppiata alla fine del 1347 e prolungatasi sino al 1349, risultò così devastante da alterare gli equilibri economici già resi precari dalle crisi agricole e finanziarie; essa fu un flagello di proporzioni tali da ridurre a pochissimi i nomi di artisti importanti attivi nella prima metà del sec. 14° e ancora viventi dopo l'epidemia. La ripetizione periodica, inoltre, di epidemie di minore entità nella seconda metà del secolo, nel 1360, nel 1369 e nel 1375, aiuta a comprendere meglio come un tale clima di inquietudine avesse ripercussioni dirette o indirette sulla creazione artistica.Un altro fattore di grande rilevanza del periodo è dato dal relativo declino dell'Italia. Il ritorno a Roma, nel 1376, di Gregorio XI (1370-1378) non consentì alla città di riconquistare il suo ruolo egemone, in quanto fu seguito, due anni più tardi, dal Grande scisma che non poteva che diminuire le possibilità di mecenatismo dei pontefici, mentre Firenze e Siena, decimate dalla peste, non svolgevano più una funzione guida nella creazione artistica. Nell'Europa settentrionale, al contrario, le corti diventarono più fastose, quasi trovando nell'arte un rifugio contro la precarietà dei tempi.Come nella prima metà del secolo, si assistette a un uso della p. quale strumento di attestazione del potere, così nella seconda metà del Trecento essa divenne mezzo di giustificazione di un potere oramai dinastico, assumendo in tal modo la funzione svolta, sin dagli inizi del sec. 14°, dalla scultura, in particolare alla corte di Filippo il Bello. Per quanto riguarda le serie di ritratti genealogici, essi poterono forse trarre origine dai medaglioni in stucco che ornavano la stanza del conte di Artois nel castello di Hesdin : la p., forse perché meno costosa, andò sostituendosi dunque alla scultura in un genere rappresentativo di grande prestigio, acquisendo nuova dignità e ponendosi in tal modo forse all'origine della p. di ritratto, che prese il posto del ritratto scolpito.In un famoso saggio, Meiss (1950) intese dimostrare che la peste nera aveva determinato, a Firenze e a Siena, un nuovo rapporto con la creazione artistica. Tali conclusioni sono oggi in parte smentite dalle nuove datazioni dei due grandi cicli pittorici che sembravano dimostrare questa mutata forma mentis: gli affreschi del Camposanto di Pisa e il ciclo delle Storie della Passione della collegiata di S. Maria Assunta a San Gimignano, la cui realizzazione è senza dubbio anteriore al 1350. Tuttavia, fatte salve queste eccezioni, il valore delle tesi suggerite rimane intatto.I cambiamenti più che la pratica pittorica riguardarono l'iconografia: gli artisti cominciarono infatti a privilegiare la celebrazione della divinità, tralasciando invece la rappresentazione di episodi tratti dal Vangelo o dalla Bibbia, che maggiormente consentivano un'effusione narrativa e, di conseguenza, erano portati a recuperare, 'modernizzandoli', schemi bizantini; nei dipinti d'altare, alla narrazione di miracolosi o sacri eventi si preferiva l'ostensione di solenni immagini sacre.I due artisti che per primi, a Firenze, affermarono questo nuovo indirizzo furono Andrea di Cione (v.) e suo fratello maggiore, Nardo di Cione (v.). La loro attività non è ancora bene individuata, come pure non è chiara la natura della loro collaborazione, anche se è noto che, almeno per un certo periodo, erano a capo di una stessa bottega. Ambedue si inseriscono ancora, per i loro modi pittorici, nella tradizione giottesca e il loro gusto per i volumi fortemente accentuati ricorda lo stile di Maso di Banco, del quale potrebbero essere stati, in misura più o meno diretta, seguaci. Il grande affresco di Andrea di Cione a Santa Croce, raffigurante il Giudizio universale e il Trionfo della Morte, di cui restano solo frammenti (Firenze, Mus. dell'Opera di Santa Croce), mostra un vigore volumetrico che ricorda direttamente Maso; potrebbe essere questa l'unica opera del pittore databile precedentemente alla peste nera. La pala da lui dipinta per la cappella Strozzi in S. Maria Novella è stata analizzata (Meiss, 1950) come l'esempio e il prototipo di una nuova concezione della p., strettamente rapportata alla sua funzione devozionale. Gli affreschi della stessa cappella, che dovrebbero essere opera di Nardo di Cione, ma con la probabile collaborazione di Andrea, appaiono nell'insieme molto più tradizionali, tanto nella composizione quanto nell'esecuzione, e tendono però a escludere ogni divagazione fantastica nel raggruppamento delle figure, per conferire maggiore ieraticità alle immagini dei dannati e degli eletti.La tradizione giottesca era ancora molto viva a Firenze nella seconda metà del sec. 14° e particolarmente avvertibile nell'opera di Agnolo Gaddi (v.), figlio di Taddeo Gaddi, la cui più importante opera rimasta è costituita dagli affreschi della Leggenda della Vera Croce nel coro di Santa Croce. Nel Libro dell'arte del suo allievo Cennino Cennini si possono indirettamente trarre indicazioni di carattere estetico, che appartengono tuttavia a una concezione in qualche modo già arcaica, come il consiglio di copiare un sasso per dipingere una montagna.
Andrea di Bonaiuto (v.), probabilmente della stessa generazione di Andrea di Cione e, come lui, sopravvissuto alla peste, creò, a cominciare dal 1365, uno dei più prestigiosi cicli fiorentini della seconda metà del secolo, la decorazione della sala capitolare del convento domenicano di S. Maria Novella, più tardi nota come Cappellone degli Spagnoli, un'opera nella quale si intrecciano tendenze apparentemente contraddittorie: gli affreschi con la Chiesa Militante e Trionfante e con il Trionfo di s. Tommaso corrispondono al gusto ieratico dell'epoca e si presentano come arazzi che non creano profondità rispetto alla parete; al contrario, quelli della parete settentrionale testimoniano una volontà di strutturare in profondità lo spazio attraverso il raggrupparsi delle figure ed elaborano schemi del tutto nuovi: alle visioni allegoriche ideali il pittore sembra aver voluto opporre la realtà della Passione, descrivendone lo svolgimento in uno spazio unificato; caratteri analoghi sono riconoscibili nelle volte della cappella. Andrea di Bonaiuto introdusse in questo modo nuove ricerche pittoriche che trovarono piena espressione a Firenze solo agli inizi del Quattrocento.La p. della maggior parte degli altri fiorentini di questi anni è segnata da una reviviscenza di forme gotiche. Il fenomeno non sorprende in Giovanni da Milano (v.), la cui prima formazione deve essere stata probabilmente lombarda e che, per i suoi frequenti contatti con l'Europa settentrionale, fu particolarmente legato a tale stile; nelle sue opere si osserva un gusto per il colore caldo, derivato verosimilmente dalle miniature. In Spinello Aretino (v.) tale tendenza, combinata con l'eredità giottesca, appare meno riconoscibile, mentre fu con Gherardo Starnina che questa corrente si avvicinò maggiormente alle sue versioni settentrionali: menzionato tra il 1395 e il 1401 a Valencia, l'artista poté avervi esperienza del Gotico internazionale, traendone ispirazione per le proprie opere, per molto tempo ascritte a un pittore detto Maestro del Bambino vispo.Nella seconda metà del sec. 14° Siena mostrava un profilo anche più basso rispetto a Firenze: artisti quali Niccolò di Ser Sozzo (v.), Luca di Tommè (v.), Paolo di Giovanni Fei (v.) e Bartolo di Fredi (v.) furono gli epigoni più o meno inventivi dello stile dei loro grandi predecessori.A Venezia, se la tradizione bizantina si perpetuò nell'opera di Lorenzo Veneziano (v.), è tuttavia significativo il fatto che la Repubblica, per decorare la sala del Maggior Consiglio nel Palazzo Ducale, si fosse rivolta al padovano Guariento di Arpo (v.), un artista che interpretava a suo modo il linguaggio di Giotto, immettendovi più accese tonalità di colore. Un orientamento affine era quello seguito alcuni anni più tardi, sempre a Padova, da Giusto de' Menabuoi (v.), che verso il 1376 portò a termine la decorazione del battistero di Padova, nella quale si manifesta un vivace senso della spazialità. Gli aspetti più innovativi della p. di Giusto potrebbero essere fatti risalire, piuttosto che alle sue origini fiorentine, all'influenza dei due artisti più significativi dell'Italia settentrionale: Tomaso Barisini (v.) e Altichiero (v.).Pur essendo nato a Modena, Tomaso Barisini realizzò la maggior parte delle sue opere a Treviso. Questo artista si inscrive nella linea della discendenza giottesca, ma la sua formazione potrebbe essere avvenuta nella cerchia di Vitale da Bologna. L'originalità dei suoi modi pittorici deriva dall'avere accentuato una tendenza realistica insistendo sulla caratterizzazione fisionomica dei personaggi, intorno ai quali non manca di evocare riferimenti alla vita di ogni giorno. La serie dei Quaranta illustri dottori dell'Ordine domenicano da lui dipinta, nel 1352, nella sala capitolare del convento di S. Niccolò a Treviso ne costituisce uno degli esempi più singolari, sia pure non esente da una certa corsività, per l'intento di conferire a ogni figura una precisa individualità, rappresentando i protagonisti del ciclo intenti al proprio lavoro. Il secondo ciclo pervenuto dell'artista, ovvero gli affreschi della Vita di s. Orsola (Treviso, Mus. Civ. Luigi Bailo), provenienti da una cappella della distrutta chiesa di S. Margherita a Treviso, dimostra una più precisa volontà di definire i luoghi in cui si svolgono gli episodi, mediante indicazioni spaziali sommarie, ma suggestive; l'artista si dimostra tuttavia ancora legato a una rappresentazione dello spazio come scatola spaziale, anche se più saldamente costruito.A Verona, Altichiero accentua ancora maggiormente la collocazione dei personaggi che animano le scene in uno spazio chiaramente definito; dei lavori da lui eseguiti nella sua città natale non resta che un affresco nella cappella Cavalli nella chiesa di S. Anastasia, mentre le opere maggiori vennero realizzate a Padova: la decorazione ad affresco della cappella di S. Giacomo (1379) nella Basilica del Santo e l'annesso oratorio di S. Giorgio (1384), forse con la collaborazione di un artista bolognese, Jacopo Avanzi (v.), menzionato in alcuni documenti antichi; l'ideazione compositiva si deve tuttavia molto probabilmente ad Altichiero. In questi due cicli per la prima volta nella p. italiana del Trecento lo spazio viene proporzionalmente commisurato ai personaggi rappresentati, i quali a loro volta vi si inseriscono sia in relazione agli elementi che lo caratterizzano sia in un reciproco rapporto proporzionale; ne risulta un senso realistico della rappresentazione che annuncia direttamente le creazioni del Quattrocento.Mentre Padova e Verona accolsero tendenze chiaramente innovative, la vicina Lombardia sembrava non guardare alle esperienze dell'Italia centrale, volgendosi piuttosto verso l'Europa settentrionale. I contatti tra la corte dei Visconti e le corti francesi erano già abbastanza stretti; le tappe della produzione di Jean d'Arbois, il cui nome indica un'origine dalla Franca Contea, possono indurre a qualche riflessione. Nel 1373 Filippo l'Ardito, duca di Borgogna (1363-1404), convocò l'artista da Milano, dove questi era attivo, e lo trattenne alla propria corte per almeno due anni; successivamente, tra il 1385 e il 1392, il pittore risulta aver lavorato a Pavia, dove eseguì gli affreschi nella chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro. Se negli inventari dei principi o dei sovrani si fa menzione di ouvraige de Lombardie, può trattarsi sia di opere di pittori originari di questa regione sia di artisti che vi si erano trasferiti, come nel caso di Jean d'Arbois.A ogni modo, per quanto riguarda la seconda metà del sec. 14°, scarso è il numero di opere pittoriche conosciute di origine lombarda, poiché l'arte dominante - o quanto meno quella di cui restano maggiori testimonianze - era, come nell'Europa settentrionale, la miniatura. I pochi cicli di affreschi conservati, in particolare nell'abbaziale di Viboldone, nell'oratorio visconteo di Albizzate (prov. Varese) e in quello di S. Stefano a Lentate sul Seveso (prov. Milano), mostrano un'adesione alla cultura gotica che non può che essere il frutto di tali rapporti con le corti del Settentrione.Nel campo della storia della p. la seconda metà del sec. 14° non rappresentò per l'Europa settentrionale un periodo realmente coerente: il primo trentennio corrisponde agli anni di regno di due sovrani, l'imperatore Carlo IV di Lussemburgo (1355-1378) e il re di Francia Carlo V il Saggio (1364-1380), i quali dimostrarono un grande interesse verso le arti. Dopo il 1380 si sviluppò uno stile denominato Gotico internazionale, il quale, andato progressivamente maturando nel corso del secolo, conservò a lungo la sua vitalità in molte regioni fino alla metà del 15° secolo.A dire il vero, non molto si conosce della produzione artistica della corte francese. Il re Giovanni II il Buono (1350-1364) incaricò della decorazione del proprio castello di Vaudreuil in Normandia, realizzata tra il 1350 e il 1356, il pittore Jean Coste, commissionandogli scene di soggetto storico, come la Vita di Cesare, ed evocazioni della vita di corte con scene di caccia e un fregio di animali; l'artista ha un cognome che potrebbe indicarne una possibile origine provenzale e forse proveniva dalle botteghe avignonesi. I testi nei quali vengono menzionati i suoi dipinti murali riferiscono che i fondi comportavano ampie zone in oro goffrato e che il re aveva imposto che le zone ricoperte da stagno dorato venissero ridipinte in oro puro; inoltre, veniva fatto obbligo al pittore di utilizzare fini colori a olio (Montaiglou, 1852-1853).Giovanni II commissionò, forse quando era ancora soltanto duca di Normandia, uno dei primi ritratti autonomi dipinti su tavola; questo dipinto (Parigi, Louvre), intorno al quale si sono accese svariate polemiche, potrebbe infatti essere datato al 1349 ca., cioè alcuni mesi prima dell'ascesa al trono del principe; nel semplice profilo, appena modellato, appare evidente un nuovo genere pittorico che si affermò soltanto nella seconda metà del secolo e di cui non sussistono precedenti esempi italiani, anche se si ha notizia di due ritratti dipinti da Simone Martini, uno di Laura per Francesco Petrarca e uno del cardinale Napoleone Orsini, esempi che forse indussero il re di Francia a commissionarne uno per sé.Carlo V divenne ufficialmente re di Francia nel 1364, anche se esercitò di fatto la sovranità a partire dal 1356 come luogotenente generale del regno e dal 1358 quale reggente, con una breve interruzione di tre anni dal 1361 al 1364. È nota la sua passione per i libri riccamente miniati; presso di lui lavorarono almeno tre pittori: Girard d'Orléans, che era già al servizio di suo padre a partire dal 1349, se non anche precedentemente, e che venne sostituito alla morte, nel 1361, dal figlio Jean d'Orléans, attivo, sembra, sino al 1407, e Jean de Bondol (v.), citato come pittore del re nel 1374 e di cui si hanno notizie sino al 1381; sfortunatamente le notizie sull'attività di questi pittori sono assai scarse. Un affresco rappresentante S. Cristoforo (Semur-en-Auxois, Mus. Mun.) è stato recentemente riconosciuto come opera di Jean de Bondol (Joubert, 1992), artista noto per aver fornito i cartoni per gli arazzi dell'Apocalisse di Angers (Château, Mus. des Tapisseries, Gal. de l'Apocalypse) e per aver eseguito una miniatura della Bible historiale di Guiart des Moulins, detta di Jean de Vaudetar (Aia, Rijksmus. Meermanno-Westreenianum, 10 B 23, c. 2r). Si tratta di un'opera nella quale non si riscontrano influenze italiane e che, nella scelta di rappresentare la figura umana con tratti rozzi e marcati, denota un chiaro interesse verso il realismo popolaresco.L'inventario degli arredi reali, redatto nel 1379 (Parigi, BN, fr. 2705), non fa menzione che di una quindicina di dipinti: la maggior parte delle opere di soggetto sacro, piuttosto numerose, era costituita da lavori di oreficeria. Tuttavia, la ricchezza e l'eleganza delle decorazioni dei libri di Carlo V, che presuppongono l'intervento di una pleiade di miniatori di grande talento e di gusto tipicamente gotico, fanno presumere che pittori dei quali nulla è più noto potessero dipingere nello stesso stile. La descrizione delle gallerie dipinte nell'Hôtel de Saint-Pol (Sauval, 1724) ricorda le decorazioni con scene di paesaggio affini a quelle della camera della torre della Guardaroba del palazzo dei Papi ad Avignone.Al contrario della Francia, la Boemia ha conservato un numero molto rilevante di dipinti del sec. 14°, soprattutto nel castello di Karlštejn (v.), edificato dal re Carlo IV (1346-1378), e nel chiostro del monastero dei Benedettini croati, detto di Emmaus, a Praga; è possibile che in Boemia la p. esercitasse un ruolo anche maggiore che non in Francia e che vi fosse stata in qualche modo una scelta programmatica - dettata forse semplicemente da motivazioni economiche - nel preferirla alla scultura o all'oreficeria. La formazione di Carlo IV lo indusse a farsi mediatore tra i vari centri artistici dell'Europa: egli aveva trascorso parte dell'infanzia alla corte francese, il cui fasto e gusto raffinato dovettero senz'altro fortemente influenzarlo; ancora più determinante dovette essere probabilmente il suo lungo soggiorno nell'Italia del Nord, dove nuovamente si recò, nel 1355, in occasione del viaggio a Roma per essere incoronato imperatore. L'esperienza parigina si riflette soprattutto nelle miniature dei libri eseguiti per lui o per l'ambiente di corte, mentre le sue commissioni per opere pittoriche sembrano maggiormente influenzate dai soggiorni italiani. Si deve a uno dei suoi consiglieri, Pietro I di Rožmberk, la commissione del primo importante ciclo di p. su legno conservato, eseguito verso il 1350: i nove pannelli provenienti dall'abbazia di Vyšší Brod (Praga, Národní Muz.), fondata dalla sua famiglia, che costituivano una sorta di altare murale. In essi vi è una singolare commistione di reminiscenze bizantine, in particolare nell'iconografia, di architetture italiane e di soluzioni pittoriche gotiche, come il ricadere dei panneggi dalle pieghe a cannelli.Si ha notizia di tre pittori al servizio di Carlo IV: Nikolaus Wurmser da Strasburgo e due pittori cechi, maestro Teodorico e maestro Oswald. I primi due dovettero lavorare parallelamente, mentre il terzo dovette essere il loro successore e fu probabilmente in origine un collaboratore del secondo; non è facile operare distinzioni di mani all'interno della loro produzione e le rispettive attribuzioni sono tuttora controverse.I primi cicli di affreschi del castello di Karlštejn - un ciclo genealogico, noto soltanto attraverso le copie del sec. 16° del Codex Heidelbergensis (Praga, Národní Gal., AA 2015) - e gli affreschi del chiostro del monastero di Emmaus, che possono essere datati tra il 1355 e il 1360 ca., testimoniano una tendenza ancora più gotica ma maggiormente accostabile alla tradizione senese o meglio alla sua interpretazione avignonese; il loro carattere alquanto arcaico può indurre ad attribuirli a Nikolaus Wurmser, ma nessuna opera certa dovuta a questo pittore consente di confermare l'ipotesi. Si tratta di una delle prime gallerie di ritratti nota; intorno al 1374, quindi probabilmente poco tempo dopo, il conte di Fiandra, Luigi di Mâle (m. nel 1384), faceva eseguire un ciclo simile dal suo pittore di corte, Jan van der Asselt (v.), nella cappella di S. Caterina nella chiesa di Notre-Dame a Courtrai (Kortrijk), nelle Fiandre.Per Carlo IV lavorò anche Tomaso Barisini, del quale si conservano ancora due opere nel castello di Karlštejn, una delle quali, un trittico, venne modificata per integrarla nella decorazione della cappella della Croce del castello: le figure, benché siano state scontornate e circondate da una decorazione a pastiglia dorata con le armi di Boemia, conservano il loro vigore plastico. È poco probabile che il pittore modenese si fosse recato in Boemia, anche se vi esercitò un'influenza decisiva. Il secondo artista attivo nel cantiere di Karlštejn, maestro Teodorico, doveva invece conoscerlo personalmente e dovette formarsi alla sua scuola, forse direttamente a Treviso: attraverso tali probabili contatti, Teodorico acquisì uno stile potente, con figure che vigorosamente si accampano nei loro volumi, anche se non sono compiutamente inserite in una cornice spaziale. Così pure, nella cappella della Croce, egli coprì la parete con pannelli nei quali le immagini dei santi a mezza figura si stagliano sullo sfondo in oro goffrato, accentuando i caratteri, sull'esempio di Tomaso, e appesantendo i tratti dei personaggi, che acquisiscono qualcosa di contadinesco. La profusione dell'oro, che sale sino a rivestire la volta, e la decorazione dello zoccolo delle pareti, quest'ultima costituita da una specie di mosaico di pietre semipreziose, conferiscono all'ambiente un carattere quasi orientale, nel quale le fonti italiane non sono immediatamente riconoscibili. L'opera di maestro Oswald è identificabile a partire dagli affreschi della cappella di S. Venceslao nella cattedrale di S. Vito a Praga, i quali, sia pure con minore potenza, si inscrivono nella tradizione di maestro Teodorico; le p. con Storie della vita di s. Venceslao e di s. Ludmilla nella scala del mastio del castello di Karlštejn, da alcuni studiosi attribuite al maestro stesso (Stejskal, 1980), sembrano suggerire una certa conoscenza dei cantieri avignonesi: le architetture e i motivi vegetali potrebbero ricordare le creazioni di Matteo Giovannetti e della sua bottega.La predilezione per i volti pesanti e contadineschi, accentuati dalla volumetria, si ritrova nell'opera di Bertram di Minden (v.), attivo ad Amburgo; nel polittico per l'altare maggiore della chiesa di St. Petri (Amburgo, Hamburger Kunsthalle) l'artista associò a tale tipologia motivi realistici, senza preoccuparsi della coerenza spaziale; il polittico introdusse peraltro un genere nuovo (combinazione di sculture lignee integrate a elementi pittorici), adottato nel polittico del convento di S. Chiara di Colonia, di datazione anche precedente (ca. 1355), che già presenta un duplice paio di ante, che consentono tre diverse visioni. Lo stile del polittico si differenzia decisamente da quello di Bertram di Minden e si connette a sinuose forme gotiche, pur senza raggiungere ancora la languida grazia del Gotico internazionale e avvicinandosi in questo a opere di altre regioni: per es. un altare (Varsavia, Muz. Narodowe), proveniente da Grudzia̢dz, nella Prussia orientale, e quelli di Friedberg (Darmstadt, Hessisches Landesmus.), nell'area del medio Reno, della parrocchiale di Netze e di Osnabrück (Colonia, Wallraf-Richartz-Mus.), in Vestfalia. A partire dal 1380 ca. si affermò e si diffuse in tutta l'Europa settentrionale, come pure in Lombardia, l'ultima fioritura di arte gotica, che si presentò inizialmente come un'arte di corte tendente all'eleganza, alla raffinatezza, alla sontuosità. La data del 1380, corrispondente alla morte di Carlo V, coincise con il momento di massimo sfarzo della corte francese, dovuto sia alle inclinazioni dei fratelli del sovrano - che avevano la reggenza di fatto - sia alle continue feste volute dal giovane re Carlo VI detto il Folle (1380-1422) e da colei che divenne sua sposa, Isabella di Baviera (1385-1435). In Boemia, l'ascesa al trono di Venceslao IV (1378-1419) corrispose a una tendenza analoga, non dissimile da quella che si ebbe in Inghilterra quando salì al trono Riccardo II (1377-1399), che peraltro sposò la figlia del re di Francia, Isabella (1396-1409). Nella diffusione del Gotico internazionale, il Grande scisma della Chiesa svolse forse un ruolo in senso negativo, attraverso il declino del mecenatismo pontificio.Più che dai precedenti sviluppi artistici nel mondo settentrionale, il Gotico internazionale dipendeva in larga misura dalla miniatura, genere nel quale i maestri rivaleggiavano in raffinatezza e inventività per soddisfare le richieste dei committenti, facendo della propria arte il terreno di sperimentazione della p.; va inoltre ricordato che anche gli orafi erano molto richiesti e che le loro creazioni svolsero un ruolo importante nell'evolversi del gusto e della visione pittorica.La corte di Parigi in questo momento ebbe certo una funzione trainante, anche se le testimonianze rimaste sono assai esigue: ne sono prova la qualità e l'originalità stilistica della miniatura. Così il Paramento di Narbona (Parigi, Louvre; v. Maestro del Paramento di Narbona), che si colloca a metà strada tra disegno e p., è stato attribuito a un pittore e miniatore al servizio di Carlo VI o di Jean de Valois, duca di Berry: Jean d'Orléans o, più verosimilmente, Etienne Lannelier. Un grande dittico (Firenze, Mus. Naz. del Bargello), attribuito prima a un maestro francese, poi a un maestro spagnolo o tedesco, prova evidente del carattere internazionale di questo stile, presenta una composizione che venne peraltro ripresa a Colonia e in Vestfalia; dal punto di vista della committenza, esso va però restituito alla corte di Parigi, nella cerchia del duca di Berry, intorno al 1386.Se oggi è possibile riconoscere il celebre dittico Wilton (Londra, Nat. Gall.), eseguito per Riccardo II, come prodotto dell'arte inglese, ciò è dovuto al fatto che durante il regno di questo sovrano i legami tra la corte inglese e quella francese erano tanto stretti da consentire la creazione di un'opera emblematica, per preziosità ed eleganza, del Gotico internazionale.A margine della Francia, il duca di Borgogna Filippo l'Ardito si servì successivamente di tre pittori: Jean d'Arbois, che lo lasciò nel 1375 per tornare in Lombardia, Jean de Beaumetz (v.), entrato al suo servizio nel 1375 e morto verso il 1396, e Melchior Broederlam (v.). Mentre i primi due erano direttamente allogati presso la corte di Filippo, l'ultimo non abbandonò la città di Ypres, dove teneva bottega e lavorava per conto del principe. Le due ante (Digione, Mus. des Beaux-Arts), terminate nel 1399, parti di un polittico scolpito da Jacques de Baerze, sono esempi notevoli di tale stile internazionale, con inoltre un interesse abbastanza inedito per la rappresentazione quasi a trompe-l'oeil di motivi desunti dalla realtà.In Lombardia l'opera pittorica del più importante artista, Giovannino de Grassi (v.), non è ancora chiaramente definibile e i suoi rapporti con Jean d'Arbois sfuggono a ogni ricerca. Nei disegni del suo taccuino (Bergamo, Bibl. Civ. A. Mai, Cassaf. 1.21, già Delta 7-14) si trovano raccolti in maniera estremamente significativa accuratissimi studi, soprattutto di animali, ma sempre isolati, senza un inserimento spaziale, quasi dovessero essere utilizzati come elementi aggiuntivi in più ampie composizioni.La Boemia di Venceslao IV è soprattutto nota per i suoi miniatori; ma è forse databile al regno di questo re un polittico (Praga, Národní Gal.) proveniente dal convento degli Agostiniani a Třeboň, destinato probabilmente a un altare consacrato nel 1378, anche se l'indicazione 1427, leggibile in uno dei sigilli del sarcofago di Cristo nella scena della Risurrezione, potrebbe significare che l'opera venne compiuta in questa data tardiva da un artista rimasto legato ai modi stilistici in auge al tempo della sua giovinezza; a ogni modo, i volti emaciati, le pieghe tubolari, la flessuosità delle figure rimandano pienamente al Gotico internazionale.Il mondo germanico vide il pieno sviluppo di questo stile soprattutto durante i primi anni del 15° secolo. Si può tuttavia supporre che la carriera del pittore di Colonia provvisoriamente detto Maestro della S. Veronica avesse avuto inizio negli ultimi anni del sec. 14°, prolungandosi poi sino al 1415 ca.; questa corrisponderebbe all'attività nota del pittore Hermann Wynrich di Wesel, ricordato negli archivi dal 1378 al 1414. Manca, tuttavia, qualsiasi indicazione che consenta di datare con maggior precisione le opere di questo pittore e quindi di confermarne l'identità.Il Gotico internazionale penetrò molto precocemente anche in Spagna, in Aragona, attraverso l'opera del pittore Lorenzo de Zaragoza, che lavorò a Barcellona dal 1366 al 1377, prima di fare ritorno nella sua terra di origine, Valencia. Si ricollegò tardivamente a lui un pittore di origine tedesca, Marzal de Sax, la cui attività è attestata dal 1393 al 1410 e la cui opera non è ancora chiaramente identificata: l'unica p. nota (Valencia, cattedrale), forse parte di un polittico a lui commissionato, mostra uno stile violento, quasi caricaturale, del quale non esistono altri esempi a Valencia. Se il polittico di S. Giorgio (Londra, Vict. and Alb. Mus.), proveniente da Valencia, potesse essergli attribuito, sarebbero testimoniati modi meno esasperati, con raffinatezze tipiche dello stile internazionale. Gli inquadramenti storiografici sono sempre arbitrari e la data 1400, assunta come limite estremo per l'arte medievale, offre l'inconveniente di cadere nel pieno sviluppo del Gotico internazionale, che in Francia, sino alla morte di Jean de Valois, duca di Berry, nel 1416, e anche sino a quella di Carlo VI, nel 1422, era in piena fioritura ed esercitava una vasta influenza sulle corti straniere. Contemporaneamente, le creazioni dei più importanti artisti, soprattutto nella miniatura con i fratelli Limbourg o il Maestro delle Ore del maresciallo Boucicaut (v.), annunciavano l'arte del 'realismo fiammingo' del Quattrocento; in Boemia, le Schöne Madonnen non erano appannaggio esclusivo della scultura e ricorrono spesso in dipinti dei primi decenni del 15° secolo. In Lombardia, lo stile del Gotico internazionale continuò a evolversi non soltanto nella miniatura, ma anche negli affreschi e nei dipinti su tavola; le rappresentazioni delle stagioni nella torre dell'Aquila del castello di Trento, probabilmente dipinte poco prima del 1407, si inscrivono tra le più raffinate realizzazioni di questo genere, ma il loro autore è forse quel maestro Wenzel, il cui nome sembra indicare un'origine germanica o boema, che è menzionato come pittore del vescovo Georg von Liechtenstein. L'arte di Pisanello, in pieno sec. 15°, può essere ricondotta all'arte tardogotica; Firenze accolse anch'essa espressioni gotiche, mentre nella bottega di Masaccio si andava elaborando uno stile nuovo: la tavola con l'Adorazione dei Magi, dipinta nel 1423 per la sagrestia di Santa Trinita da Gentile da Fabriano, ne è la più palese testimonianza. In realtà, in tutta l'Europa settentrionale, come pure in Spagna e in Lombardia, la p. continuò a essere essenzialmente medievale almeno durante i due primi decenni del 15° secolo. Bibl.: Fonti. - Tiberio Alfarano, De Basilicae Vaticanae antiquissima et nova structura, a cura di M. Cerrati (Studi e testi, 26), Città del Vaticano 1914, p. 29; G. Vasari, Le Vite de' più eccellenti pittori scultori ed architettori, a cura di G. Milanesi, I, Firenze 1878, pp. 248, 377, 537, 650; id., Le Vite, II, 1967; H. Sauval, Histoires et recherches des antiquités de la ville de Paris, Paris 1724, II, p. 281. 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