PITTURA
. Nel concretare il fantasma pittorico che in lui è venuto elaborandosi, il pittore, per mezzo di linee, di masse di valori e di toni deve costruire un complesso tale, che, oltre al raggiungere la massima efficacia espressiva, determini, anche indipendentemente da questa, per equilibrio e senso ritmico, un'impressione di bellezza; deve, insomma, comporre il quadro.
La composizione non può essere insegnata come una scienza. È assurdo e antiartistico imporre all'artista qualsiasi limite che possa menomarne lo slancio, e alla bellezza dell'inatteso rischiar di sostituire la monotonia dello scolastico e del convenzionale.
Una dottrina della "composizione" va considerata e studiata come un insieme di osservazioni pratiche, dalle quali trarre utili norme di massima che l'esperienza ha consacrato; capaci di dar valido aiuto all'artista, specialmente quando in lui scarseggi il dono divino dell'ispirazione. Di queste ecco le più salienti. L'occhio tende a seguire il corso delle linee, compiacendosi nel non trovarvi intoppi, incertezze o interruzioni, e rifuggendo dall'attraversarle, tanto più se raddoppiate; esso tende anche ad accomunare linee, masse, colori, che abbiano fra loro somiglianze, analogie o semplice simpatia, valutandone la reciproca dipendenza; linee, valori e toni, sia per loro stessi, sia per effetto del loro accostamento e del loro contrasto, possiedono una facoltà espressiva indipendentemente dagli oggetti che rappresentano (v. disegno; colore, X, pag. 881; espressione). Tali sono i capisaldi, strettamente connessi alla struttura dell'occhio, ai quali qualsiasi formula estetica non può a meno di essere riferita. Prima di esser dipinto, il quadro è una superficie, per lo più rettangolare, che offre al pennello una parte centrale e quattro angoli. Affinché l'osservatore sia nelle migliori condizioni per penetrarne la bellezza e il significato, la composizione deve essere tale da portare l'interesse piuttosto verso il centro, e dare all'occhio un senso di stabilità e d'equilibrio, oltre al distrarne l'attenzione dagli angoli che tendono a sviarlo fuori del quadro. Il requisito più importante dello schema compositivo è l'unità, che ha per evidente corollario la subordinazione. Tutti gli elementi della composizione debbono cioè tendere a uno scopo comune. Da ciò l'opportunità di una "dominante", nelle linee, nelle masse, nei toni; alla quale tutti gli elementi analoghi debbono venir subordinati, in modo che si possano facilmente afferrare l'architettura dei valori e il cosiddetto arabesco compositivo, nel cui imprevisto è tanta parte dell'originalità del quadro. Unità di linea non vuol dire linea unica o ininterrotta; la linea di contorno d'un determinato oggetto può essere ripresa e continuata idealmente dal contorno di altro oggetto in altra parte del quadro, senza un'effettiva congiunzione materiale; ciò che agli effetti compositivi è la stessa cosa, e permette anzi di legar meglio fra loro le parti. Il senso d'unità è rafforzato dall'accentuazione delle linee dominanti per mezzo di altre linee in parallelismo o in simpatia di altra specie con esse. Si riesce in tal modo a completare e spesso a risolvere l'armonia della composizione. Nella pittura a carattere decorativo, le dominanti debbono dipendere dall'architettura e dal carattere dell'ambiente nel quale la pittura va inquadrata. Nel campo dei valori, l'unità va cercata nella franca adozione d'un partito di luce semplice, evidente, e nella sua distribuzione e gradazione razionali e verosimili. Se tal partito è composto di più d'una sorgente luminosa, è spesso opportuno costituirne una a dominante e mantenere in sottordine l'altra o le altre. Importa anche assai, ed è ottima norma pratica, stabilire subito i due termini estremi, il più chiaro e il più scuro, dell'immaginaria scala di valori che giuocano nel quadro. Con ciò rimane più agevole e sicuro dare a ogni singola massa, rapportata ai due estremi, il valore esatto che le compete; che va stabilito unicamente in relazione alle esigenze della scala, e non trascritto mimeticamente dal vero. Se si comincia a dipingerlo dai valori più bassi (Turner), il quadro risulterà più luminoso, poiché per il rapido esaurirsi della scala prima d'aver raggiunto la massima luce, la massa dei valori alti rimarrà senza possibilità di graduazione; e al contrario, cominciando dai valori alti (Rembrandt), si arriverà rapidamente al nero prima di aver potuto segnare i gradini dei grigi più scuri, che rimarranno forzatamente assorbiti nel valore estremo della scala; il quadro sarà quindi oscuro. Un complesso di valori ordinato a dovere ha una bellezza particolare e tutta sua, specialmente se le masse sono semplici e i loro valori vicini. Ciò spiega il fascino che una leggiera nebbia o fumo conferisce ad un paesaggio con l'attenuare i contrasti e semplificare le masse. L'urto di valori lontani nella scala messi a contatto, è risorsa di potente rilievo e drammaticità; l'impiego di valori medî, a contrasto discreto, induce piuttosto a una serena contemplazione. Poiché il contrasto è, al pari dell'unità, un altro fondamentale elemento, come d'ogni arte, così anche della pittura, alla quale dà vita, movimento, calore. Esso va cercato sia nel giuoco delle linee (rette e curve), sia nell'accostamento dei valori, sia nel colore, ove può assumere le più varie forme e nel qual campo è condizione essenziale di attività e di armonia. È dal contrasto dei valori, assai più che da quello dei toni, che dipende la luminosità del quadro; valori contrastati con franchezza hanno anche favorevole influenza sulla durata del dipinto, ché i passaggi troppo delicati mal resistono all'opera del tempo. Tra il valore d'ogni singola massa, la sua ubicazione e la sua estensione rispetto sia all'insieme sia alle altre masse, esistono rapporti che occorre studiare, perché da essi dipendono in gran parte l'equilibrio e l'armonia della composizione. L'equilibrio è da cercarsi nella distribuzione degli elementi compositivi, che vanno ben contrapposti; ed è raggiunto quando l'occhio, immaginando il quadro poggiato verticalmente secondo l'asse centrale sul coltello di una bilancia, ne riceve un senso di assoluta stabilità. In genere, è sempre bene far pesare i valori verso il basso, e dare a quelli estremi estensione limitata rispetto ai medî. Nella valutazione d'una massa agli effetti di tale equilibrio, un altro fattore, oltre quello chiaroscurale, è da tenersi in considerazione: il suo interesse, per dir così, umano, che attraendo l'occhio irresistibilmente ha spesso importanza decisiva. Tanto che, a mo' d'esempio, una figura anche piccola inserita da un lato basta a stabilizzare un paesaggio che grandi masse di alberi o rocce farebbero sbilanciare dall'altro.
La buona composizione deve anche offrire varietà nella conformazione delle masse, nella configurazione dei loro orli nella speciale apparenza della loro superficie. Il trattamento degli orlì è dote istintiva che rivela la sensibilità dell'artista. Egli deve intuire dove un contorno ha da perdersi nel fondo, dove invece ha da essere tagliente, dove è opportuno accentuarlo; ché in tali alternative di morbidezza e fermezza è la musicalità dell'opera. Naturalmente, le possibilità in proposito sono diverse a seconda del procedimento pittorico; limitate nella tempera e nell'affresco; vaste nell'olio, illimitate o quasi nel pastello.
Maestri nel genere, da consultare con frutto, sono: Giorgione, Tiziano, Velázquez. Attraentissimo è lo studio degli schemi compositivi nelle opere dei grandi coloristi. La proporzione fra i massimi chiari e i valori medî e forti è quasi uguale nel Quattrocento, donde la grande luminosità delle opere dei primitivi, dovuta anche alla tenuità del chiaroscuro; procedendo nel tempo, la massa degli scuri va sempre più aumentando rispetto a quella dei chiari; nei Veneziani del Cinquecento i chiari son già ridotti a forse un terzo del totale; in Rembrandt e negli Olandesi del Seicento non sono più che minima parte per l'estrema importanza assunta dalle ombre. La tendenza più frequente dell'arabesco è la piramidale, che, stando al Lomazzo, fu data come regola da Michelangelo a Marco da Siena, e durò molto a lungo nell'arte.
Nel fissare in un primo bozzetto di massima l'architettura generale del quadro, l'artista non può prescindere da una serie di considerazioni inerenti alla definitiva sorte del dipinto, e cioè al suo collocamento, alla sua illuminazione, al carattere dell'ambiente; e ai requisiti particolari al processo pittorico col quale intende di realizzarlo. È ovvio che le esigenze d'una pittura murale da eseguire, p. es., in un salone d'un dato carattere, illuminato da luce non abbondante e di determinata specie, sono ben diverse da quelle d'un quadro destinato alla luce piena e alla promiscuità con altri di vivace intonazione nelle pubbliche mostre; e che ad una tecnica opaca, affresco, tempera, pastello, non si possono chiedere le profondità di tono che dalla tecnica trasparente dell'olio è naturale di esigere.
Il bozzetto va sottoposto a sufficiente maturazione, nel corso della quale è difficile fare a meno dell'apporto del vero. "Attendi che la più perfetta guida che possa avere si è la trionfal porta del ritrarre de naturale" ha detto il Cennini. E infatti l'ossenazione del vero dev'essere il nutrimento costante e maggiore dell'artista, fin dai primi suoi passi. Il vero dev'essere sempre consultato e interpretato, e non mai freddamente copiato: e, d'altra parte, anche quando l'artista crede di esserne guidato egli già lo trasfigura - e tanto più quanto è maggior artista - nella propria personalità. Ma il quadro, quando, s'intende, non ci sia soprattutto una realtà obiettiva da raggiungere e una suggestione immediata da attingere, com'è nel ritratto, dovrebb'esser sempre dipinto all'infuori dello stretto contatto della realtà. Studiare quindi a parte, sul vero, tutti gli elementi necessarî; assimilarli, se non furono già acquisiti all'esperienza; risolvere le incertezze; ma poi, nell'accingersi al lavoro, crear tutto di nuovo. Questo suppone una memoria visiva che purtroppo è oggi piuttosto rara negli artisti, anche perché nessun conto se nè finora tenuto nell'insegnamento, e si trascura in genere di svilupparla e coltivarla; e certo il pittore che n'è sprovvisto o scarsamente dotato rimane schiavo dell'osservazione diretta che limita il suo campo d'azione, ritarda e ostacola l'affermarsi della sua personalità di artista. L'aiuto che la fotografia può dargli è da molti condannato. Non può negarsi ch'esso nasconda un pericolo grave, quello cioè di cadere nella copia semile, minuziosa della realtà, perdendo di vista l'essenziale che nell'immagine fotografica è generalmente sommerso nel profluvio dei particolari inespressivi. Ma se l'artista mediocre rimane facile vittima del tranello, scambiando il mezzo per il fine, l'atista serio, guardando tale immagine allo stesso modo con cui guarderebbe il vero, non con la curiosità, ma con l'amore delle cose, non fa che interrogarla e chiederle solo ciò che gli abbisogna, con risparmio grande di tempo. È insomma una comodità della quale sarebbe illogico non servirsi. I progressi tecnici della fotografia sono oggi del resto tali da soverchiare di gran lunga lo scarso interesse di certa pittura superficiale, qualificata come fotografica, che ha quindi meno che mai ragion d'essere. E l'avere sgombrato il campo dell'arte dal puro mimetismo è titolo postumo di autentica benemerenza per il Daguerre, al quale troppe colpe vennero fatte risalire.
Integrato il bozzetto, esso va riportato sulla superficie da dipingere con la quadrellatura, o con lo spolvero, o con la lanterna da proiezioni. L'esecuzione del dipinto non va intrapresa finché tutte le prevedibili difficoltà non siano in precedenza state risolte; e soprattutto finché l'entusiasmo e l'interesse per l'opera non abbiano raggiunto quella pienezza che reclama il suo sfogo ed è premessa indispensabile al pieno raggiungimento dello scopo. Se nella preparazione spirituale e materiale dell'opera gl'indugi, anche lunghi, non hanno importanza e sono anzi spesso necessario fattore di maturazione, l'esecuzione vuole, al contrario, la maggiore prontezza e sollecitudine. Ciò suppone nel pittore, oltre a un'assoluta chiarezza d'idee, un criterio tecnico sperimentato che gli permetta di superare facilmente le difficoltà più comuni dell'esecuzione stessa: sveltezza nel lavoro, previsione delle alterazioni di tono nell'asciugare, per l'affresco; rapido stancarsi della carta, per il pastello; preparazione, impiego dei diluenti, scelta dei colori per ottenere subito giustezza di tono senza martoriare la pasta, per l'olio. Senza dire delle difficoltà inerenti al maneggio del pennello per preparare la giusta quantità di colore necessaria, prenderne ogni volta la porzione adatta, applicarla nel modo più consentaneo ed efficace ai fini dell'espressione e agli effetti della durabilità dell'opera; non esitando sulla direzione, entità, fusione della pennellata, che l'orgasmo della creazione deve bastare a suggerire. Sappia, l'artista, risparmiare le sue migliori energie per arrivare al compimento dell'opera prima che siano esaurite. Ché se, come purtroppo spesso avviene, questo primo slancio non lo ha portato al pieno raggiungimento dello scopo, prima di por mano ai rimedî aspetti che l'incertezza e la sfiducia conseguenti allo sforzo durato siano dileguate, la serenità e la chiarezza di giudizio riacquistate, ritrovato lo stato d'animo iniziale, le energie reintegrate in pieno. Intraprenda solo allora le riprese e i ritocchi, limitandoli all'indispensabile.
Non vanno dimenticate, tra le difficoltà tecniche da superare, quelle inerenti all'illuminazione del dipinto durante l'esecuzione, per ciò che riguarda la quantità e soprattutto la qualità della luce. Come qualità, la luce deve senz'alcuna eccezione essere la stessa di quella alla quale il quadro dovrà esser veduto nella sua destinazione definitiva (v. colore, X, p. 881). Per la quantità è sempre buona norma averne un po' meno, perché ciò spinge a fare più chiaro e brillante, neutralizzando almeno in parte l'inevitabile opera del tempo. E questo vale anche e soprattutto nei casi di ripresa diretta dal vero, com'è nel ritratto e nel paesaggio: il quadro dev'essere meno illuminato del soggetto. Gli ambienti moderni di lavoro permettono di modificare con grande facilità le condizioni di luce per mezzo di tende e veli colorati; e i progressi dell'elettricità sono oggi tali da poter fornire all'artista una luce quasi del tutto simile a quella solare. La luce verticale, preconizzata da Leonardo, ma praticamente negata ai pittori antichi, è oggi d'uso generale.
Per quanto riguarda i singoli processi pittorici, mentre si rimanda il lettore alle voci relative per la trattazione tecnica particolareggiata dl ciascuno di essi (v. acquerello; affresco; olio, pittura a; pastello; tempera), si fa cenno qui appresso delle loro vicende storiche più recenti.
Antichità. - La forma spontanea e immediata della pittura è quella del disegno colorato con finalità narrative (pittografia; v.). Tale forma, che s'incontra sempre presso i popoli primitivi, serve a narrare fatti e imprese di uomini, d'eroi, di divinità. Il fine principale al quale si tende è la chiarezza della narrazione; perciò i contorni vengono semplificati, resi chiaramente "leggibili": le immagini poste tutte sullo stesso piano, con una recisa avversione all'illusionismo prospettico, che disorienta lo spettatore di mentalità primitiva; i colori distesi a masse piane, senza sfumature, come un intarsio, con i Lontorni decisse di tono contrastante. A tale forma di pittura è però, fin dall'inizio, innata la tendenza decorativa: cioè ad usare quelle forme e quei colori con finalità di soddisfazione estetica, estranea all'intelligibilità della narrazione. Estranea, sia pure, ma non contraria. Gli artisti dell'antichità trovarono poi ben presto una sorta d'equilibrio fra le due esigenze, narrativa (o illustrativa) e decorativa, fissando le narrazioni in schemi compositivi determinati, quindi sempre facilmente intelligibili dallo spettatore, entro i quali la personalità artistica poteva esplicarsi ponendo e risolvendo problemi puramente formali, nei quali trovare l'appagamento estetico. Su queste basi la pittura in Egitto, in Oriente e nella Grecia fino alla fine del sec. V a. C. ebbe essenzialmente il carattere di disegno colorato, con un numero di colori limitato, usati in modo schematico e decorativo, non seguendo la realtà della natura, ma l'astratto gusto estetico (v. policromia). È soltanto nel sec. IV a. C., in Grecia, che, insieme con il profondo rivolgimento che coinvolge tutte le manifestazioni spirituali del tempo, anche la pittura lascia definitivamente il carattere di disegno colorato e quello narrativo, per affrontare realmente i problemi pittorici nel senso moderno, cioè quelli del colore e quelli della luce.
Nell'Oriente e in Egitto la pittura fu strettamente collegata con l'architettura e con la scultura. Interessante, per quanto appaia isolato, l'esperimento testimoniatoci da rilievi del museo del Cairo risalenti alla meià circa del terzo millennio a. C., di raggiungere gli effetti policromi con tasselli di colore puro, in pasta, entro incassature della superficie della pietra: quello che determina la forma però resta sempre il listello di pietra che fa da contorno, e non il colore. I colori usati dagli Egiziani pare che fossero esclusivamente a tempera; l'encausto dovette essere un'importazione ellenica del secolo IV. Le tavolozze, per i lavori più fini erano di legno, alabastro o ceramica, e recano in genere sette vaschette per disfarvi i colori; ma vi sono esemplari con 11 e 12 recipienti. I pennelli erano di giunco flessibile, fibroso e assorbente, simili alle "penne" usate dai ceramografi greci. Un aspetto particolare assunse il problema pittorico nella civiltà minoica dell'isola di Creta (v. cretese-micenea, civiltà, XI, p. 881). Qui il problema decorativo ornamentale supera nettamente quello narrativo, che resta quasi del tutto assente, come anche quello monumentale. La pittura cretese ci sorprende per la freschezza e vivacità policroma; le manca però ogni potere di astrazione e coordinazione e si trova perciò agli antipodi dello sport ellenico, che imposterà il problema pittorico quale ancora lo intende la nostra civiltà occidentale. Si potrebbe, se mai, ricollegare la pittura cretese alle pitture del paleolitico spagnolo e francese, come estrema rappresentante di una particolare attitudine a fissare e riprodurre mentalmente immagini vedute nella natura mescolandovi un minimo di astrazione e coordinazione intellettuale. La rigida sintassi, con la quale s'inizia invece la pittura greca nell'epoca geometrica, contribuisce a fissare la tecnica, limitandosi ai colori bianco, nero, rosso, giallo, dai quali, con mescolanza, si potevano ottenere, in seguito, toni bluastri e verdastri. In genere si usava dipingere sopra lastre di terracotta, con o senza ammannitura: così son fatte le metope del tempio di Thermos (secolo VI), le tabelle votive offerte dai fedeli nei templi e, sembra, anche le più antiche decorazioni destinate alle pareti di templi o di edifici (per le grandi scene di battaglia nel portico di Atene, detto Pecile, v. Sinesio, Epist., 135). Un soffio novatore giunge circa la metà del secolo V a. C. dai paesi di stirpe ionica: Polignoto di Taso e Parrasio di Efeso sono i nomi più celebri che la tradizione ci tramandi accanto a quello un po' più recente di Zeusi di Eraclea. Con Polignoto va maturandosi il problema prospettico e qualche problema coloristico, che rompe la tradizione del colore piano, pur limitandosi, egli, a quanto è dato ricostruire, ad accennare le ombre col tratteggio e non con delle mezze tinte. La grande evoluzione della pittura antica si svolge nel sec. IV, nell'ambito delle due scuole sicionia e attica (o tebana). Nella prima, che fu la scuola classica tradizionalista, si basava la pittura su studî d'ottica e su fondamenti geometrici e astratti e dominava la tecnica dell'encausto. Nella seconda, con l'uso della tempera, tecnica più sciolta e più rapida, si compì l'evoluzione verso forme più libere di espressione e verso ricerche coloristiche. Apelle, nominalmente appartenente alla scuola sicionia, ma che con la sua personalità supera ogni scuola, appare come colui che seppe compenetrare le due tendenze. Nella descrizione che abbiamo della sua tavola di Alessandro col fulmine, per quanto il colorismo fosse ancor contenuto nei quattro colori fondamentali, appaiono elementi chiaroscurali. A questo, quasi passo verso la sfumatura del colore, ancora non usata, dovette tendere l'uso che egli faceva di una speciale "vernice" o velatura, che toglieva crudezza ai colori, fondendoli, e al tempo stesso li proteggeva (Plinio, Nat. Hist., XXXV, 92, 97, 42). Il nome latino di atramentum, dato a tal vernice e la notizia che era fatta a base di carbone d'avorio sembrerebbero accennare a una specie di patina. Certo è che alla metà del sec. IV (circa 350 a. C.) già era diffusa la pratica di accrescere il rilievo d'alcune parti con pennellate di colore chiaro messe a macchia (i cosiddetti "lumi").
Nella seconda metà del secolo IV si compie la conquista della spazialità: abbiamo descrizioni di quadri, come quello, di Aezione, delle nozze di Alessandro e Rossane (Luciano, Herodotus, 4) che ce lo confermano, nella totale scomparsa di monumenti. Da allora l'interesse per la posizione delle cose nello spazio, che è l'essenza dell'impressionismo romantico, si manifesta per la prima volta nel mondo antico, ponendo la pittura dinnanzi a problemi, anche tecnici, completamente nuovi. Di questa mutata impostazione del problema artistico, che coinvolge tutte le arti, abbiamo un'eco nel detto dello scultore Lisippo riferito da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 65) che fino allora gli artisti avevano rappresentato gli uomini quali sono, egli invece li rappresentava quali appaiono all'occhio: impostazione influenzata, sia pure, dalla dialettica aristotelica tra l'essere e il parere, ma che nel campo artistico veniva a porre un principio nuovo, d'individualità e al tempo stesso di aderenza alla realtà, di contro al principio di un'arte, qual era stata quella dell'epoca classica, retta dall'utopistico ideale del raggiungimento di un canone.
Su questa linea di svolgimento sembra che una vera e propria tecnica impressionistica si sia sviluppata in ambiente alessandrino. Per quanto manchino avanzi di pitture, tutto porta a ritenere che con "pictura compendiaria" termine usato da Plinio e da Petronio, s'intendesse appunto una tecnica sommaria, a macchia, impressionistica, quale poi si ritrova in decorazioni pompeiane di età neroniana (così detto 4° stile). Nell'ambito della pittura pompeiana queste scene eseguite a macchia, seguendo i chiari della luce, attestano di una sicurezza d'improvvisazione che induce a stimare assai elevato il livello dei decoratori pompeiani, dal cui mestiere si può arguire quali potessero essere i mezzi d'espressione a disposizione dei grandi artisti. Generalmente elevato è anche il livello medio delle pitture che adornavano le mummie di età traianea e adrianea (circa 115-170 d. C.) trovate in Egitto nel Fayyūm. Queste ci permettono di studiare anche la tecnica che doveva esser usata per i quadri da cavalletto, giacché i ritratti venivano posti sulle mummie dopo aver adornato la casa abitata dal defunto. In essi si nota la tecnica della tempera su tela senza alcuna preparazione (ritratto di Aline, Berlino, Ägyptisches Museum), o su tela o tavola con ammannitura di gesso e colori a cera applicati col pennello (ritratto femminile da Antinoe, Parigi, Museo Guimet), o su tavola con colori a cera applicati e impastati col mestichino (kestron, cestrum: ritratto di giovinetta, Vienna, Collez. Graf). Quest'ultima tecnica molto vivace e simile negli effetti a una pittura a olio applicata a spatola con molto spessore di colore, non è, come erroneamente è stato ripetuto, il vero encausto di tradizione classica. Quest'ultimo era invece una tecnica assai minuziosa e sottile, con la quale si doveva lavorare per velature e la cui operazione finale e precipua era quella detta da Plinio inurere, cioè un fondere e fissare il colore a caldo dandogli quasi uno smalto. Sulla tecnica delle pitture pompeiane le opinioni sono tuttora discordi, ma sembra che appunto a un'operazione finale di smaltatura con la cera esse debbano il loro aspetto caratteristico e la loro conservazione, sia che alcune fossero eseguite a fresco (fresco misto) o, come la maggior parte, a tempera, fissata appunto dall'encausto. Soggetta a discussione è altresì la tecnica delle pitture etrusche. Una tecnica particolare ci è dimostrata dal citato ritratto di Aline e cioè i particolari rilevati a pastiglia e dorati (gli orecchini e la collana). La tecnica della tempera su tavola preparata a gesso rimase viva nell'ambiente orientale dell'impero romano e fu proseguita dalla pittura bizantina.
Medioevo ed età moderna. - Lasciato l'encausto (v.), ch'ebbe qualche seguito nelle più antiche icone orientali, la pittura murale nel principio del Medioevo adoperò l'affresco, talvolta associato alla tempera nella finitura, come già nelle catacombe romane, dove la preparazione del muro e dell'intonaco risulta a noi tanto più fine quanto l'opera è più antica. I contorni venivano graffiti o disegnati leggermente col pennello. L'esecuzione era rapida e precisa; le forme semplici; i contrasti vivi; il modellato sommario. Nel Medioevo più inoltrato si continuò a valersi dell'affresco, ma non ancora nella sua forma ortodossa, di buon fresco, condotto sull'intonaco recente prima che si asciughi, sibbene in uno dei varî modi del cosiddetto fresco secco, e anche del fresco misto, che consisteva nel lasciar seccare l'intonaco di sabbia e calce, pomiciarlo e ribagnarlo al momento di dipingervi su; ritoccandolo poi e completandolo a tempera in successive riprese.
Facile riesce stabilire se il modo d'esecuzione sia stato l'uno piuttosto che l'altro, inquantoché nel buon fresco i limiti d'ogni ripresa del lavoro che vengon fatti coincidere, per nasconderli, con le linee di contorno o con le parti in ombra, sono agevolmente rintracciabili; mentre nel fresco secco non esistono interruzioni visibili, potendo il lavoro in qualunque momento venir continuato sol che si bagni la parete. Un modo frequente d'esecuzione consisteva nel disegnare col rossaccio sull'arricciato, cioè sul primo intonaco di sabbia e calce, forse per sincerarsi dell'effetto generale del lavoro, che vi si riportava dal cartone con la quadrellatura. Si copriva poi tale abbozzo con l'ultimo intonaco, sul quale si ridisegnava il lavoro se pur questo non affiorava attraverso il leggiero spessore. Fu questo il metodo dei giotteschi. Un altro consisteva nell'abbozzare con larghezza le masse sull'intonaco molle, riprendendo tutto il lavoro a tempera appena secco. Rarissimo è il caso di affreschi del tutto privi di ritocco, specialmente nelle ombre; perché la calce mescolandosi ai colori rende deboli queste ultime, e il pittore non sapeva rinunziare al rinforzo con l'uovo, ch'era la sola risorsa possibile.
Nella pittura su tavola, o su altro supporto che il muro, il procedimento tipicamente italiano, che tenne il campo fino all'avvento della tecnica a olio, alla quale cedette con lunga resistenza, fu la tempera, e più precisamente la tempera all'uovo, quella pratica pittorica, cioè, il cui principale ingrediente è il tuorlo d'uovo. In Italia si mescolava questo al colore in quantità uguale, aggiungendovi talvolta lattice di fico; mentre nell'Europa settentrionale si preferiva adoperare l'uovo integralmente, sbattendolo con tutto il suo albume per averne maggior fluidità, rifuggendo gli artisti da quella viscosità inceppante il pennello, la quale sembra non desse soverchia preoccupazione ai pittori italiani. L'esecuzione su tavola era invero difficile e penosa; più facile divenne sulla tela, potendosi più agevolmente ottenere le sfumature col mantenerne umido il rovescio durante l'esecuzione, analogamente a quanto usano ancora gli acquerellisti inglesi per la carta. Si ricorreva spesso al vino come diluente e talvolta alla birra; per rallentare l'essiccamento si aggiungeva miele o anche cera, mescolata ad altri ingredienti glutinosi.
Le tavole si preparavano generalmente a gesso e colla e talvolta prima si rivestivano di pergamena, di cuoio, di tela. L'esecuzione si faceva ricalcando sull'imprimitura il disegno, e riprendendone i contorni a penna o a punta di pennello con tinta bruniccia; si ombrava poi diligentemente come un disegno, con la stessa tinta o col carboncino, cercando di raggiungere i valori. Questo metodo iniziale venne in seguito adottato anche dai primi oleanti, i quali facevano molto assegnamento, nell'esecuzione, sulla trasparenza dell'imprimitura bianca. Si tenevano i colori in piccoli recipienti di vetro o di ceramica, o anche entro conchiglie. Non essendo la tavolozza venuta in uso che ai primi del Quattrocento, si faceva il miscuglio sul piano di un piccolo tavolo. Nel Trecento si usava di temperare i colori, oltreché con l'uovo, anche con una semplice colla di limbellucci di pergamena, alla quale si aggiungeva aceto per conservarla, e spesso miele per mantenerla più a lungo fluida. Già prima del Trecento si usava di coprir di vernice le tavole dipinte a tempera dopo averle fatte asciugare bene. La vernice adoperata era composta, a quanto sembra, d'una parte di sandracca, sciolta in tre parti d'olio di lino. Il liquido, denso e di color rossiccio, si applicava con la mano o anche con la spugna, e si faceva poi seccare al sole. Si cominciò in seguito anche a colorare la vernice in vario modo secondo le diverse necessità, e più tardi, a Venezia prima e poi a Firenze, ad allungarla con la trementina. Tale vernice non era, del resto, a quel tempo una novità, in quanto già nel secolo VIII con un liquido assai simile si copriva la stagnola per imitar l'oro. Si erano scoperte le qualità essiccative dell'olio di lino, che aveva quindi sostituito quello di noce adoperato già da tre secoli per proteggere le pitture e le indorature. Il procedimento della pittura a olio, che doveva nel '400 soppiantare quasi del tutto la tempera, ha nell'uso di tali vernici la sua lontana origine.
Non può ad esso attribuirsi una paternità determinata, nè venir assegnata con sicurezza una data iniziale, essendo stato piuttosto il frutto d'una lenta evoluzione che quello di un'invenzione. Già nel Diversarum Artium Schedula il monaco Teofilo, vissuto, pare, nel sec. XII, insegnava a temperare con l'olio i colori per lavorarvi in tavola; e nel secolo seguente Pietro di Sant'Audemaro, nel suo manuale De coloribus faciendis, parlava della pittura a olio con evidente cognizione di causa. Senza dubbio ai tempi di Dante questa pittura era già in qualche modo praticata in Italia. Il Ghiberti dice infatti di Giotto che lavorò a olio. Ma evidentemente non si sapeva ancora preparar bene questa materia né renderla essiccante. La sua eccessiva densità rendeva difficilissimo il modellare dipingendo, sicché il suo uso rimase confinato a lungo nell'ambito della decorazione, o ristretto a compiti accessorî. Nelle tempere dell'epoca spesso sembra di riconoscere panneggiamenti fatti a olio; ma nessun accertato esempio vi è ancora di carnagioni dipinte col nuovo procedimento. In Italia si sentiva meno che nei paesi nordici la necessità d'una pittura più resistente all'umidità. Questo forse spiega perché l'olio si sia diffuso prima nei paesi settentrionali e abbia tardato ad attecchire in Italia, ove i primi lavori completi del genere si fecero solo dopo la metà del Quattrocento.
Uno scritto (1398) del milanese Giovanni Alcherio riferisce gl'insegnamenti d'un pittore fiammingo, Jacques Coene, sul nuovo metodo di pittura nel quale tale artista sembrava assai esperto. Il vero merito dei van Eyck, le cui prime opere a olio apparvero una trentina d'anni dopo la data suddetta, sarebbe quindi piuttosto quello di avere ottenuto dalla nuova tecnica tali brillanti risultati, specialmente nei riguardi della trasparenza, dello smalto, e della vivacità dei toni, da invogliare i contemporanei ad adottarla; e il merito di Antonello da Messina è quello di aver contribuito, di ritorno dalle Fiandre, a generalizzarne l'uso in Italia.
È qui opportuno accennare alle ricerche e ai tentativi fatti da Alessio Baldovinetti nella seconda metà del Quattrocento, prima che in Italia si cominciasse a lavorare a olio, di temperare i colori con vernice liquida e tuorlo d'uom. Tentativi presto abbandonati perché, riferisce il Vasari, tale pittura si screpolava e crollava.
La tecnica dei primitivi fiamminghi consisteva nel dipingere con pasta liquidissima, ottenuta con pochissimo olio e molta vernice (ambra o copale). Era una tecnica a velature, simile sotto varî aspetti a quella dei laccatori cinesi. La vernice resinosa isolava le particelle di colore imprigionandole in un involucro protettivo trasparente che dava loro il massimo di splendore e durata, tanto che la vernice finale non era necessaria, bastando a farne le veci la pellicola oleoresinosa che ricopriva i colori. Ma se i risultati erano preziosi, il metodo era lungo e penoso, ottimo per quella resa paziente e minuziosa di particolari che appassionava i Fiamminghi, ma poco adatto al fare largo degl'Italiani, specialmente all'epoca di Masaccio. Cosicché la proporzione dell'olio venne irresistibilmente ad assumere prevalenza sempre maggiore sulla quantità della vernice, preferendosi la scioltezza dell'esecuzione alla preziosità e bellezza della materia, e, purtroppo, anche alla sua inalterabilità. Le velature andarono cedendo il posto ai mezzi impasti. L'aspetto delle opere cominciò a divenire dorato e poi sempre più giallastro. Si preparavano le tavole a gesso, ben raso e pulito; vi si disegnava al carboncino o alla punta d'argento, come per la tempera; si abbozzava a monocromo per lo più in bruno o nel cosiddetto verdaccio (ocra, nero e terra verde); si faceva ben asciugare e si eseguiva rapidamente la pittura; possibilmente alla prima. Per modellare si preparavano prima il tono generale, il chiaro e l'ombra, stendendoli poi a campiture e fondendoli col pennello di martora. Nelle carni si modellava, nel periodo delle trasparenze, con velature leggiere, ché allora tutti i chiari venivano ottenuti approfittando del bianco dell'imprimitura, e allungando i colori con vernice, piuttosto che impastarli al bianco come nelle tecniche ulteriori e in quella odierna; gli scuri, aumentando lo spessore della pasta piuttosto che aggiunger nero. Così i primi oleanti. Nel frattempo un altro fattore interveniva, verso la metà del Cinquecento, a influire sul procedimento tecnico: l'adozione della tela, resa ormai necessaria dalle dimensioni sempre maggiori richieste dal quadro. La tela, adoperata già in Inghilterra fin dal sec. XIV, per dipingervi all'acquerello, e al principio del secolo seguente nei Paesi Bassi per la tempera, fu usata anche in Italia nel Quattrocento per lo stesso scopo. Queste prime tele erano di rensa, sottilissime, preparate a gesso e colla. Le usarono a volte Iacopo e Gentile Bellini, il Mantegna e altri. Nel Cinquecento venne in uso anche una tela di bisso, a preparazione bianca, sulla quale taluno dipinse, dice il Vasari, alla maniera tedesca: una specie di guazzo, coi chiari risparmiati dal fondo. Sulla tela Tiziano creò la tecnica degl'impasti a corpo, rimasta tipicamente italiana più che veneziana. Con poche terre, a toni caldi, a larghe masse, egli abbozzava a pieno impasto "preparando il letto" alla pittura. Lasciava lungamente essiccare al sole; indi riprendeva e finiva modellando a via di velature sovrapposte, servendosi molto delle dita. Col Tiziano la pennellata, il tocco, acquistano un valore espressivo, a cui i grandi maestri non hanno più rinunciato, trattandoli ciascuno in modo tutto personale (Tintoretto, Velázquez, Rembrandt, ecc.). L'altra tecnica italiana classica fu quella degl'impasti leggieri, distesi con regolare uniformità di spessore sopra un abbozzo a semplice velatura. Si modellava in pasta, preparando per toni accostati che venivan poi diligentemente fusi, evitando gli accenti del pennello, e curando anzi di nasconderne ogni traccia. Fu questa la pittura di Raffaello e di Leonardo; ma mentre il primo, pur così preso dalla severità dello stile, non seppe rinunciare del tutto alle qualità di trasparenza, il secondo, conseguente alle sue ricerche chiaroscurali compromise con l'impiego d'un nero divoratore l'avvenire della sua pittura. Fu nel Seicento che la pittura raggiunse il suo massimo annerimento, aggravato dall'abuso dell'olio ch'era stato sostituito anche alla colla nelle imprimiture, e dalle preparazioni in toni oscuri delle imprimiture stesse. L'uso nefasto del bitume allettatore venne a completare il disastro.
Una curiosa vicenda si verificava nel frattempo in Fiandra. La tecnica di quei primitivi, sotto l'assillo della rapidità e del vigore d'esecuzione, che i nuovi orientamenti della pittura avevano sostituito alla ricerca paziente e metodica, veniva addirittura capovolgendosi; nel senso che gli effetti di trasparenza passavano dal campo delle luci in quello delle ombre, ottenute con magrezza di paste diluitissime, mentre i chiari erano modellati a pieno e generoso impasto. Tecnica, oltreché adatta allo scopo, eccellente come risultato estetico e come conservazione. Lo attestano i capolavori che Rubens dipinse in tal modo.
Dopo di lui, le resine vennero un po' alla volta del tutto abbandonate, e, nel Settecento, l'uso della trementina arrivò a sostituire in qualche scuola, specialmente in Francia (Boucher, Fragonard), quasi del tutto l'olio come diluente all'atto del dipingere. Il Settecento vide nascere ed affermarsi la voga del pastello (v.).
Al principio dell'Ottocento pullulavano le ricette e le maniere; il classicismo di David aveva ridotto la pittura liscia, fredda, convenzionale; e mentre il romanticismo di Delacroix cercava nuovi impasti, il movimento realista preparava la via alla grande rivoluzione dell'impressionismo, determinata dalla scoperta di Chevreul sul contrasto simultaneo (vedi colore, X, p. 881). La tecnica della pittura ne fu totalmente rinnovata; le ombre divennero azzurre, e il colore fu applicato nei toni puri del prisma, a lineette, a puntini, a placche, nella esasperata ricerca della luminosità assoluta. Assurda e vana lotta col sole; la luce del pittore è cosa diversa, che deve solo suggerire l'altra, per via di ordinate equivalenze. La mancanza di solidità e di costruzione conseguente all'impressionismo provocò la reazione iniziata dal Cézanne, determinando, all'alba del sec. XX, il declinare di quel movimento; e la grande strada dell'arte andò sempre più suddividendosi e perdendosi in innumerevoli sentieri, i più battuti dei quali si chiamarono cubismo, naturalismo, fauvismo, futurismo (italiano, questo), simbolismo, sintetismo, eclettismo, intimismo, purismo, dadaismo, espressionismo. Il dopoguerra ci ha dato il surrealismo. Si può agevolmente comprendere la ripercussione che un simile stato di cose ha esercitato sul fatto tecnico. Ciascun artista, nel ricominciare da solo tutto il cammino dell'arte, come ora accade, si appaga in genere di strappare alla meglio alla materia un risultato immediato sufficientemente accettabile, senza peritarsi d'interrogarla e senza pensare all'avvenire. Le conseguenze non sono liete. La ancor recente, magnifica fioritura dell'impressionismo è già appassita al punto che si è portati a tacciare di esagerazione l'entusiasmo, pur legittimo, di chi la vide sul nascere e ne esaltò la freschezza e il profumo. Non si dovrebbe mai dimenticare che la pittura è fatta di materia, oltre che di spirito; che le leggi governanti la materia sono immutabili; e che quindi ogni concezione dell'intelletto, chiedendo alla materia la sua realizzazione, deve cercar di adattarla entro i limiti delle possibilità che questa le offre. Le quali possibilità divengono, grazie ai progressi continui della chimica e dell'industria, sempre maggiori.
L'artista dispone oggi di nuove sostanze coloranti solide e di bellissimo rendimento, e d'un prezioso diluente, l'essenza di petrolio, che ha permesso di ottenere, da sola o unita alla cera discioltavi in precedenza, una pittura opaca, chiara, di bell'aspetto, ottima per dipinti d'indole decorativa; affine alla tempera come risultato, ma di questa assai più resistente, specialmente all'umidità. Altra benemerenza dell'industria è la fabbricazione del legno compensato, il cui uso praticissimo ha rimesso in voga una materia preziosa ch'era stata abbandonata. I compensati migliori per la pittura sono i legni chiari e compatti non resinosi (pioppo, tiglio, betulla) e possono venire adoperati anche senza imprimiture di sorta. Gli arnesi da lavoro hanno raggiunto il più alto grado di perfezione e praticità. Fra i processi pittorici, l'olio tiene quasi del tutto il campo; e l'uso del mestichino invece del pennello va scquistando nuovi proseliti. La tempera a colla è ristretta quasi del tutto alla decorazione. Il pastello è sempre in voga nel ritratto. Quanto all'affresco, rare occasioni gli vengono offerte dall'architettura odierna, sia per l'economia che essa fa dello spazio e la preferenza che ha per le superficie nude, sia per il progressivo abbandono della calce, sostituita sempre più dal cemento, al quale la chimica cerca di adattare procedimenti che diano risultati affini.
Ma sull'avvenire di siffatta pittura, del resto promettente, prudenza vuole che si lasci al tempo la parola.
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Etnografia.
Nelle società a cultura inferiore la pittura trova frequente applicazione nelle decorazioni e nella plastica. In questi casi il colore ha una funzione secondaria ed è destinato più che altro a completare e a porre meglio in rilievo i particolari dell'ornamentazione e della scultura. Meno diffusa è invece tra questi popoli la pittura come arte a sé, arte che rimane tuttavia legata a scopi utilitarî, magici, mnemonici e - in certo senso - anche storici. Comunque sia, non si può ricercare, come un tempo si faceva, nella magia o nel desiderio di fissare mediante figure il ricordo d'un combattimento o di una partita di caccia, la causa determinante il sorgere dell'arte pittorica in seno a queste primitive comunità umane. L'abilità artistica, come la perfezione della tecnica - che si osserva in molte di queste pitture - e il carattere dello stile sono del tutto indipendenti dai fattori sopra nominati. Agli scopi della magia, per esempio, hanno lo stesso valore le raffigurazioni geometriche dei Semang o dei Sakai, e quelle in stile naturalista degli Australiani. Lo stesso si può ripetere per le pittografie. Nelle società primitive, l'abilità artistica e l'originalità dello stile sono in ultima analisi manifestazioni spontanee, collettive, nelle quali si rispecchiano le tendenze psichiche e la sensibilità estetica dell'ethnos.
Dalle ricerche di H. Breuil e di H. Obermaier sulle pitture pleistoceniche e oloceniche della Francia meridionale e della Spagna, risulta invece l'esistenza d'un rapporto abbastanza costante tra lo stile e l'età etnologica delle pitture.
Nei dipinti più antichi predomina lo stile naturalista; in quelli più recenti la schematizzazione. Anche nelle pitture delle popolazioni viventi si osserva il ripetersi dello stesso fenomeno.
Nei cicli inferiori, etnologicamente più antichi, le pitture sono quasi tutte in stile naturalista; nei cicli culturali più evoluti - e quindi di origine più recente - predominano le forme stilizzate e le schematizzazioni. Nelle pitture capsiane iberiche l'Obermaier poté seguire il progressivo schematizzarsi delle forme naturalistiche dalla fine del Pleistocene al Neolitico.
Le pitture dei Boscimani e degli Australiani vengono spesso avvicinate a quelle dell'Europa pleistocenica. Secondo alcuni autori, tra i due gruppi esisterebbero stretti rapporti genetici. Le pitture quaternarie europee e nordafricane non costituiscono però un blocco omogeneo, ma vanno divise almeno in tre gruppi principali, e cioè: gruppo durignaciano-magdaleniano della Francia meridionale e della Cantabriȧ; gruppo capsiano iberico; gruppo nordafricano.
Il primo gruppo, nel quale predominano le figure animali di stile naturalista (le più antiche delle quali sono a contorno semplice, mentre quelle più recenti sono policrome) presenta se mai per lo stile e per il contenuto alcune analogie con le pitture australiane. Curiosa è la comunanza tra i due gruppi delle serie di mani dipinte a pieno sulla roccia, per lo più in rosso, o contornate a spruzzo tenendo la mano aperta applicata sulla parete rocciosa. Mani dipinte in rosso furono scoperte anche in alcuni ripari sotto roccia del Texas. Pitture di stile australiano furono segnalate anche in India. Figure schematiche dipingono sulle rocce anche i Vedda.
Molto più stretti sono i rapporti esistenti tra le pitture capsiane e quelle lasciate dagli antenati dei Boscimani. Le pitture capsiane iberiche costituiscono indubbiamente un gruppo omogeneo. Non altrettanto si può dire di quelle che coprono le rocce dell'Africa settentrionale e di quelle delle regioni meridionali di questo continente, dati i diversi stili che si osservano in questi due complessi artistici. Ora tra le pitture boscimane e proto-boscimane - e in modo particolare tra quelle con figure umane tipo nematomorfo, delle quali si trovano caratteristici esemplari anche sulle rocce del Fezzan e del Sahara - e le pitture capsiane della Spagna esiste una tale identità di stile e di concezione da rendere molto probabile l'ipotesi che esse siano dovute a una stessa gente o a popolazioni tra loro affini.
Pitture schematiche, antropomorfe, simili a quelle dell'Epipaleolitico iberico esistono anche nella regione del lago Vittoria (Kisiba) e nel Sudan francese (Kita).
Non si possiedono dati sicuri sul significato di queste pitture e sullo scopo per cui esse furono eseguite. Anche le notizie fornite in proposito dai Boscimani e dagli Australiani, presso i quali quest'arte si protrasse fino al secolo XIX, sono incerte e confuse.
Oggi quest'arte è completamente scomparsa, e le giovani generazioni, in seguito al dissolvimento delle istituzioni tribali, dovuto alla deleteria influenza che le civiltà superiori esercitano su queste genti, ne hanno perduto persino il ricordo.
Presso gli Australiani la pittura è legata a credenze e a riti totemistici e al culto dei morti. nell'Australia nel NO. grandi teste umane, prive della bocca, sono dipinte sopra l'ingresso di caverne funerarie. Le pitture australiane sono inferiori stilisticamente a quelle paleolitiche della Dordogna, dei Pirenei o della Cantabria. Esse rappresentano uomini, teste e mani umane, animali (canguri, forse cetacei, testuggini, lucertole, serpenti, pesci), esseri mitici, canotti, bumerang, ecc. Accanto a queste figure naturalistiche si vedono talvolta linee curve o spezzate, cerchi, alcuni dei quali raggiati, che rappresentano probabilmente totem. Alcune di queste stilizzazioni vengono dipinte anche sul suolo dagli anziani della tribù durante le cerimonie totemistiche (Warramunga). La vista di queste pitture è interdetta alle donne. Gli uomini e gli animali sono spesso riprodotti in stile semischematico. In queste composizioni le scene di caccia sono molto rare. Raffigurazioni di carattere narrativo vengono eseguite invece a graffito su pezzi di corteccia. In alcune località le figure venivano prima incise sulla roccia e poi dipinte.
Le pitture australiane, come i graffi, risalgono molto lontano nel passato. L'alta antichità di alcune di esse venne sostenuta particolarmente da R. H. Mathews e dal Basedow, il quale ultimo nei Flinders Ranges scoprì incisioni rupestri, che in origine furono forse colorate, alcune delle quali, molto probabilmente, riproducono le orme del Diprotodon, gigantesco marsupiale estinto. I colori adoperati dagli Australiani sono il rosso, il giallo, il bianco, il nero e il turchino; meno frequente è il bruno. Gl'indigeni della costa occidentale del Golfo di Carpentaria ricavavano il bianco dal caolino, il giallo dalla limonite e il nero dall'ossido di manganese; il rosso veniva ricavato da un'ematite che si procuravano per scambî dalla Terra di Arnhem. I colori venivano mescolati con un liquido adesivo, ottenuto pestando steli di orchidee. Le tinte venivano date sulla roccia con pezzi di scorza d'albero o di cuoio legati su di un manico di legno. Mediante la sovrapposizione di due o più tinte ottenevano diversi effetti di colore.
Le pitture boscimane antiche e recenti si distinguono da quelle degli altri popoli inculti per il loro vivace dinamismo.
Pure nell'Africa meridionale s'incontrano figure isolate, graffite o dipinte; ma le più caratteristiche sono certamente le composizioni nelle quali sono raffigurate cacce, combattimenti, cerimonie e danze magiche o rituali e scene di carattere mitologico. Molto spesso si vedono in questi pannelli figure umane mascherate con teste di animali, o coperte con l'intera pelle dell'animale.
L'idea del Wundt, che l'arte boscimana abbia un'origine piuttosto recente e sia da considerarsi un elemento acquisito estraneo alla civiltà boscimana e appreso forse da qualche artista europeo, è priva d'ogni base. Le pitture rupestri nell'Africa meridionale sono molto diffuse e risalgono, le più antiche, alla fine del Pleistocene. Rocce e caverne dipinte furono scoperte nella Rhodesia, nel Basutoland, nel Transvaal, nello Stato Libero d'Orange, nel Natal, nella Colonia del Capo e nell'Africa del sud-ovest. Secondo il Breuil i più antichi graffiti e pitture risalgono alla Middle Stone age e sarebbero perciò press'a poco contemporanei a quelli del Miolitico europeo.
Anche nelle pitture sudafricane si osservano sovrapposizioni e diversità di stile. Molte di esse, come è stato detto, sono certamente imparentate con quelle della Libia, del Sahara occidentale e della Spagna. Altre sono meno patinate e potrebbero risalire al Neolitico, altre ancora appartengono all'epoca storica. In queste ultime appaiono figure di animali domestici importati nella regione nei secoli XVII e XVIII, e carri boeri. Naturalmente anche nelle pitture meno antiche la fauna selvatica indigena è la meglio rappresentata. In una pittura policroma scoperta nel Basutoland, si volle vedere un gruppo di Boscimani che attaccano soldati egiziani: ipotesi suggestiva, ma molto incerta, perché anche i Negri dell'Alto Nilo portano caschi bianchi di cauri, simili a quelli che coprono la testa dei presunti Egizî. I colori adoperati dai Boscimani sono il rosso, il bruno, il giallo, il bianco, il nero e il turchino, fissati pare con il succo dell'Euphorbia candelabrum. Abbastanza frequenti sono le pitture policrome, a tinte piatte o con sfumature, per rendere plastica la figura. Degni di nota sono anche certi scorci molto arditi di animali. I colori venivano preparati sopra piastre di pietra, e per dipingere l'artista si valeva delle dita o di sottili spatole d'osso.
Pitture rupestri monocrome, d'età imprecisata, furono scoperte anche nel Kordofan. Alcune di esse sono eseguite in stile seminaturalista e rappresentano cavalieri; altre sono schematiche e tra queste si vedono alcuni dromedarî. Esse vanno poste accanto alle grandi serie di pitture e graffiti rupestri dell'Africa settentrionale e del Sahara.
Un complesso molto interessante di pitture rupestri venne scoperto nell'America Meridionale nella regione del Cerro Colorado (Sierra Chica de Córdoba). Un gruppo di stile naturalista è contemporaneo ai tempi della conquista. Si vedono di fatto profili di soldati e di cavalieri spagnoli con elmo e corazza, bovini e cani. Altre figure rappresentano Indiani armati d'arco e ornati di penne, e numerosi animali, tra i quali sono ben riconoscibili il lama, il guanaco, il puma, il cinghiale, il condor e qualche altro esemplare della fauna indigena. Queste pitture si sovrappongono ad altre, più antiche, di stile geometrico, rappresentanti circoli concentrici, talvolta raggiati, linee meandriformi, spezzate, ecc.,. alcune delle quali rappresentano probabilmente animali (serpenti, lucertole). Le figure di stile naturalista, dipinte in nero, grigio e bianco, sono disposte in modo da formare composizioni simili a quelle dell'Africa meridionale. Le più comuni sono le scene di caccia al lama e al guanaco, e quelle che riproducono combattimenti tra Indios e Spagnoli.
Figure dipinte sulle rocce esistono anche nell'America Settentrionale (Texas, Bassa California, ecc.). Nel Texas un gruppo di pitture rosse grossolane rappresentanti uomini, mani, uccelli, decorano le pareti d'un riparo sotto roccia, abitato in tempi antichi e nel quale giaceva anche sepolto uno scheletro umano privo della testa. Per tacere delle belle pitture su pelli eseguite dagl'Indiani delle Praterie (v. pittografia), giova segnalare ancora le recenti pitture dei Pueblos del Nuovo Messico. Questo moderno movimento artistico s'innesta su tecniche e motivi tradizionali e riproduce, con stile naturalista vivace e freschezza di tinte, principalmente episodî delle cerimonie magiche e religiose di quelle tribù.
Pitture rupestri esistono anche in Siberia.
Vedi tavole CXVII-CXXVlII e tavole a colori.
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