PITTURA
L'impulso a delineare forme visibili col disegno è spontaneo all'uomo in qualunque stadio del suo sviluppo storico (nel quale è, ovviamente, compreso anche il periodo che noi chiamiamo della "preistoria"). Ugualmente, quello di imprimere macchie di colore (dapprima sul proprio corpo); di dare poi a queste una forma mediante impronte (mani intrise di colore o "risparmiate"; più tardi pintaderas [v.] o sigilli). Questi impulsi portano, in stadî di più complessa civiltà, a riempire di colore i contorni disegnati, che esprimono un particolare modo di appropriarsi gli aspetti della natura volgendoli sia a intento narrativo o rappresentativo, presto giungendo anche a valore simbolico. Il colore è mezzo psicologico per rendere vivente il disegno, renderlo corporeo. Tale disegnare forme e riempirle di colore noi possiamo chiamare correntemente pittura. Ma nelle rappresentazioni di animali da caccia ripetute a scopo propiziatorio sulle pareti delle grotte dagli uomini del Mesolitico (v. preistorica, arte) abbiamo già una espressione che supera il mero scopo magico-utilitario, così come supera, tecnicamente e visualmente, lo stadio del semplice disegno colorato. Fin da questi remoti esempî si palesa, infatti, un evidente compiacimento che deriva dalla forma sinuosa della linea e dall'accostamento dei colori: un compiacimento formale che costituisce una componente essenziale del disegnare e dipingere, indipendentemente dal significato della cosa raffigurata e dal processo di appropriazione che il pittore ha seguito e che può essere diversissimo da una volta all'altra (ed è ciò che comunemente si chiama "stile").
Non vi è accordo fra gli studiosi, se le prime espressioni del disegno e della pittura abbiano proceduto dal naturalismo verso l'astrazione, come appare nel mutarsi dall'età paleolitica a quella neolitica, o se lo sviluppo sia stato in senso inverso per poi giungere all'astratto come riduzione e sintesi. Resta comunque il fatto che, nelle civiltà entrate in epoca storica, noi troviamo sempre la p. come elemento di policromia contenuto e sorretto dalla linea di contorno, cioè dal disegno. In modo particolare ciò è evidente in tutto il lungo corso della p. egiziana, dove sovente essa si presenta nell'aspetto di leggero bassorilievo negativo, policromato. Ma anche nella vera e propria p. sempre il disegno di contorno, accuratamente eseguito in rosso, precede il riempimento a colore, sempre schietto e fulgente, limitato al nero, azzurro, rosso, verde, giallo, bianco (nell'ordine nel quale gli Egiziani li elencavano).
Prima che la civiltà europea del Rinascimento portasse alla riscoperta della p. nel suo pieno ed essenziale valore poetico di rapporto cromatico e tonale, e di suggerimento di una realtà fantastica, distinguendola dalla mera ornamentazione policroma, due sole culture artistiche avevano scoperto la p. in questo senso, rendendola autonoma dal disegno: una fu la civiltà greca fra il V e il IV sec. a. C., anche se nel linguaggio della Grecia antica si usò sempre un solo verbo per significare il disegnare, l'incidere e il dipingere (γράϕειν); l'altra fu la civiltà cinese fra il periodo Sung e la dinastia T'ang, cioè fra il V e il VII sec. d. C. quando furono formulati e sviluppati i principî del grande teorico Hsieh-Ho. Tra questi era considerato basilare quello che indicava che la forma dovesse essere costruita col pennello, anche se i modelli erano stati trasmessi per mezzo del disegno (v. cinese, arte, 9).
La p. cinese perpetuò le proprie conquiste dai tempi antichi a oggi in una continuità ininterrotta di tradizione. La tradizione ellènica, invece, si infranse con il dissolvimento della civiltà classica (e nel nostro Rinascimento "maniera greca" significò l'astratto linearismo bizantino). Inoltre, gli scritti teorici che avevano accompagnato in Grecia la "scoperta" della pittura sono andati perduti e perdute andarono tutte le opere dei grandi pittori. Si pone pertanto il compito di ricostruire la problematica della grande p. greca dai pochi resti superstiti, dai riflessi in altre categorie di produzione artistica (soprattutto nella ceramica) e dagli accenni in fonti letterarie più tarde, con tutti gli equivoci che ne possono derivare (v. classicismo). Naturalmente, una tale ricostruzione non può non accompagnarsi con una quantità di questioni di dettaglio, sulle quali non sempre il consenso degli studiosi specialisti raggiunge l'accordo; ma si rinviano per queste ai singoli articoli sotto il nome dei singoli pittori (v. indici). Saranno qui esposte solamente le grandi linee dello svolgimento della p. nell'àmbito delle civiltà classiche, giacché soltanto in esse (nell'area geografica e culturale di questa enciclopedia) il problema della p. fu affrontato nella sua piena sostanza. Nelle altre civiltà la p. rimase ancora nella concezione del disegno colorato, entro la quale furono raggiunti valori monumentali e valori poetici non certo trascurabili (specialmente nella p. egiziana, nella p. minoico-micenea, nella p. assira [affreschi di Till-Barsip] v. le singole voci generali); ma sono valori di disegno e di policromia, non di p. nel pieno senso del termine. Il problema della p. nel senso che ha assunto nella cultura europea, non venne neppur sospettato in quelle civiltà.
1. - La p. greca sino alla fine del VI sec. a. C. Plutarco (De gloria Atheniens., 3) cita un'espressione del poeta Simonide (morto nel 467-66 a. C.) dalla quale poi derivò il diffuso aforisma ut pictura poësis. Simonide aveva detto: "la p. è poesia muta; la poesia è p. che parla". Questa sentenza ci aiuta ben poco a comprendere il problema della p. greca. La sola cosa che di fatto ci dice, è che si ritiene còmpito della p., come della poesia, di rappresentare gli uomini e di narrarne i fatti estraendo dalla minuta realtà quotidiana una realtà più elevata e di valore universale. Rispetto alla p. greca essa indica, tuttavia, la sua tendenza non puramente ornamentale e il suo contenuto narrativo. Come è già stato detto, per intendere lo svolgimento della p. greca ci possiamo basare soltanto sui seguenti elementi: gli scarsi resti di opere originali di p. artigianale; il riflesso che delle opere dei grandi pittori greci si ha: nella ceramica figurata ad essi contemporanea, nella decorazione parietale di età romana, e, in qualche caso, anche nel mosaico pavimentale per quanto questo fosse influenzato, all'inizio, dalla imitazione della tessitura policroma (tappeti) ed assumesse poi, in età imperiale romana, una propria autonomia artistica; infine le notizie letterarie. Da queste ultime possiamo ricavare già subito una indicazione culturalmente importante: che la p. era, nella civiltà greca classica, non solo la forma d'arte più diffusa, ma anche quella più apprezzata e più determinante come arte-guida tra le altre forme figurative. Il che modifica l'impressione, dovuta alle condizioni di sopravvivenza dell'arte antica e rafforzata dalla concezione neoclassica che ne esaltò e diffuse i valori nella cultura europea, che la civiltà artistica classica fosse stata prevalentemente statuaria.
Una documentazione di natura particolare offrono inoltre le pitture delle tombe etrusche, la cui serie più numerosa (circa una trentina attualmente conservate) e cronologicamente più estesa si trova nella necropoli di Tarquinia (v.). Si tratta di opere che riflettono la p. greca seguendone con qualche ritardo le tendenze ed adattandone i risultati alla cultura ed al repertorio locale. Anche se queste pitture raramente superano la media qualità propria di una decorazione parietale di repertorio (come conferma, oltre alla lettura formale, l'assenza, in moltissimi casi, di una ricerca compositiva nel graffito delle figure che precede il disegno e la p. veri e proprî), esse sono documento di grande importanza (e generalmente non abbastanza considerato come tale) per intendere lo svolgimento della p. antica. Si deve tuttavia affermare che, in connessione con la particolare importanza data in Etruria al culto dei morti, la qualità media di queste pitture è superiore nettamente a quella che generalmente si riscontra nelle tombe della Campania o della necropoli di Taranto o della stessa Alessandria. La maggior documentazione che esse offrono si riferisce al periodo nel quale vigono ancora formule stilistiche arcaiche, in alcuni casi evidentemente ripetute o compilate su modelli greci pittorici o anche soltanto ceramici (come è evidentissimo, per esempio, nella Tomba degli Alberelli, non anteriore al tardo sec. ma in altri casi (Tomba del Triclinio, degli Aùguri, del Barone, in parte nella Tomba delle Leonesse) rivissute con sensibilità espressiva autonoma, anche se, in fatto di problemi pittorici non si divaria mai dalle acquisizioni greche. Si notino, per esempio, le vesti trasparenti - vestes translucidas - nella Tomba del Triclinio, una delle poche che sia di alta qualità artistica, come si trovano nei vasi greci attorno al 490 a. C., anche se le fonti attribuiscono questa "invenzione" a Polignoto (che appartiene alla generazione successiva), e l'ancor più raffinato effetto di trasparenza di un cerbiatto attraverso la stoffa leggera che costituisce la parete di una tenda a padiglione nella tomba di recentissima scoperta (ottobre 1962), che potrà dirsi del Cacciatore, la quale contiene richiami alla ceramica d'attorno il 460: ma nell'uno e nell'altro caso la datazione effettiva dovrà discendere, per altre considerazioni, di circa una generazione rispetto agli esempî greci citati. Nel caso di una tomba particolarmente sontuosa ed elegante (la Tomba delle Bighe o Stackelberg, ora al museo tarquiniese) si discute positivamente se il pittore non sia forse stato un greco: si tratta certamente del più fine pezzo di p., purtroppo assai guasta, e del più variato come composizione fra tutte queste tombe, databile attorno al 490 a. C. Il pittore non è un grande maestro, ma non ricalca; compone a mano libera e la sua opera ci conserva il più ricco documento della p. pre-polignotea. Non mancano, tuttavia, fra le pitture etrusche, anche documenti che riflettano la p. chiaroscurale (Tomba degli Scudi, Tomba dell'Orco seconda camera, Tomba dei Caronti con "lumi" risparmiati sul colore chiaro del fondo) e altri che giungono sino all'età romana, riflettendo l'aspetto corrente dell'ellenismo italico (Tomba Giglioli, Tomba del Tifone, pannello processionale) e anche sino ai motivi fantastici uniti al gusto arcaistico, accolto dalle classi superiori romane attorno alla metà del I sec. a. C. (cariatide femminile terminante in volute vegetali nel pilastro della Tomba del Tifone corrispondente alle novità della fase D del Il stile pompeiano).
Si può dunque dire, in complesso, che non vi è quarto di secolo nella storia della p. greca per il quale non si abbia un qualche documento; ma nessuno di essi è riconducibile con certezza a uno dei grandi pittori nominati nelle fonti letterarie. Non mancano infatti seri elementi di incertezza anche nel caso di Nikias (v.) e di Philoxenos (v.) d'Eretria, per i quali si ha maggior probabilità di poter riconoscere derivazione o copie, o di Polignoto (v.) dalla cui grande opera innovatrice fu derivato per generazioni un amplissimo repertorio iconografico, individuabile in qualche singola figura, ma in sostanza non distinguibile da quello derivato da Mikon (v.) e da Panainos (v.) suoi contemporanei. Sicché l'intento che inizialmente si posero gli studiosi di ricostruire in qualche modo l'opera dei grandi pittori greci, va considerato un problema mal posto e un risultato non perseguibile. È invece possibile ricostruire la problematica storica nei varî momenti del suo sviluppo ed arrivare a stabilire, come detto sopra, che la p. greca fu grande p. di cavalletto e che in essa furono congiunte le conquiste del rendimento spaziale, con la prospettiva, lo scorcio, la gradazione dei toni, il chiaroscuro, l'impasto dei colori, i colori riflessi ed il cangiantismo (v. dioskourides, 30), problematiche rimaste interamente sconosciute a tutte le altre civiltà artistiche dell'area mediterranea. Possiamo affermare che la conquista spaziale fu il problema centrale della p. greca di età classica (come lo fu per il primo Rinascimento italiano) e che la stessa scultura greca affrontò il rendimento della figura nello spazio non senza l'influenza della problematica che era stata posta nella pittura.
2. - La conquista della prospettiva e del chiaroscuro nel V e IV sec. a. C. L'interesse per il problema del rendimento della figura che si muove nello spazio, appare assai presto nella cultura artistica greca: lo dimostra per esempio, la scena principale della brocca Chigi (v. olpe chigi) con le due schiere che si affrontano, dove non solo si ha un sovrapporsi delle figure, che è già una notazione spaziale, ma dove si intende rappresentare una delle due schiere (quella a sinistra) nell'atto di una conversione a ventaglio (come dimostra il passo di corsa che compiono le figure). Questa stessa scena manifesta anche in modo esemplare un'altra caratteristica peculiare all'arte greca, quella di decorare le ceramiche non con motivi ornamentali, ma con complesse scene figurate narrative. Ciò non può essere avvenuto, nella ceramica, se non in corrispondenza di una sviluppata pratica della grande pittura ed era ovvio che queste scene figurate sui vasi risultassero fortemente influenzate o addirittura derivate dalle grandi composizioni pittoriche: una composizione come questa, delle due schiere in combattimento, non è certo nata come ornamento vascolare, ma è giunta alla ceramica per suggerimento o addirittura imitazione da una composizione di più ampia misura. Con la brocca Chigi siamo circa al 650-630 a. C., cioè all'inizio della fase artistica detta dell'arcaismo (che ha termine intorno al 480 a. C.). In modo ancor più evidente apparirà la trasposizione da complesse scene della grande pittura nella ceramica a figure rosse fino alla metà del V sec.. come, per citare due soli esempî, il cratere con amazzonomachia dal sepolcreto Aurelii a Bologna (Museo Civico) o il cratere con partenza del guerriero attribuito al Pittore di Chicago proveniente dai recenti scavi di Spina (Ferrara, Museo Nazionale, Tomba 19 C), dove le dimensioni stesse delle figure (circa 40 cm) già si accostano a quelle di un pìnax (v. pinaches).
Durante tutto l'arcaismo le testimonianze che noi possediamo della p. greca, ci mostrano un assai vigile senso del ritmo e della decorazione, una forte capacità di sintesi formale, che si accoppia ad una sempre fresca osservazione della vitalità espressiva delle forme naturali; ma per ciò che riguarda il problema dello spazio non si hanno mutamenti sensibili che a partire dalla metà del VI secolo (550 circa a. C.).
Nel grande ceramografo Exekias si manifesta già una nuova libertà della figura entro lo spazio ed una tale ricchezza di problemi formali, che porterà la decorazione ceramica a invertire la propria tecnica, sostituendo al sovradipingere le figure in vernice nera arricchite di dettagli incisi, la verniciatura in nero del fondo, sicché le figure, risparmiate in rosso, potranno essere completate nel disegno anatomico interno, con assai maggiore libertà e molteplicità di notazioni. Vedute oblique di quadrighe si possono osservare su vasi databili al 530-520, realizzate senza scorcio, ma con giustapposizione di elementi piani separati (pseudo-scorcio, secondo Della Seta; White). Accenno a un vero scorcio si ha già però attorno al 525 nell'anfora di Monaco n. 1391 a figure nere. E sarebbe assurdo ritenere che queste conquiste fossero state limitate alle botteghe dei ceramografi e non derivate, invece, dalla grande pittura.
Attorno alla fine del VI sec. si ha infatti notizia di un pittore, Kimon di Kleonai, il quale avrebbe perfezionato alcune innovazioni introdotte nel disegno da Eumaros, cioè scorci, espressioni variate dei volti, figure che guardano indietro o verso il basso, articolazioni delle estremità, indicazioni di vene nel corpo e di pieghe a occhiello nel panneggio. Non sappiamo se questo Eumaros sia da indentificare col padre dello scultore Antenor (v.) operante attorno al 510-490 circa, il cui nome epigraficamente ci è tramandato come Eumares; ed è anche sorto dubbio che Kimon sia la stessa persona di Mikon, nominato fra i grandi pittori dell'epoca dello "stile severo" ai quali sovrasta Polignoto. Ciò che possiamo ricavare da queste notizie, tuttavia, è che tra la fine del VI e l'inizio del sec. V vi è un sostanziale mutamento, una svolta nella concezione del disegno pittorico. Si apre un periodo che va dal 490 sino all'incirca al 420, quando si avrà un'ulteriore svolta, si aprirà una ulteriore fase.
Queste svolte critiche si trovano adombrate nelle fonti letterarie quando, dopo aver inizialmente indicata l'invenzione della p. in ambiente corinzio alla metà del VII sec. a. C., una volta si dice che l'inventore della pittura fu Polignoto (Theophrast., in Plin., Nat. hist., vii, 205), un'altra volta che la p. sarebbe stata inventata nella novantesima Olimpiade (Plin., Nat. hist., xxxv, 54), che corrisponde al tempo di Apollodoros il cui massimo fiorire si colloca nella Olimpiade XCIII (cioè attorno al 408 a. C.). Si possono riconoscere in queste affermazioni: il momento del sorgere della grande scuola arcaica corinzia, il cui riflesso abbiamo colto nella brocca Chigi; poi il "salto" del gruppo Kimon-Mikon-Polignoto-Panainos e l'ulteriore svolta al volgere tra il V ed il IV sec., che si impersonifica nei nomi di Apollodoros e di Zeusi (v.).
Il periodo che va da Polignoto a Parrasio, portò al massimo sviluppo la p. sostenuta dal contorno disegnato, che, appunto con Parrasio, arriva a ciò che nella analoga fase del Rinascimento italiano fu detta la "linea funzionale" del Pollaiolo e della quale alcune lèkythoi a fondo bianco, databili attorno al 420 a. C., ci conservano un riflesso (v. canneto, pittore del). Ma Parrasio resta ancora al di qua delle innovazioni di Apollodoros. Quanto possiamo ricavare dalle testimonianze e dai documenti superstiti, ci fa intravedere per il periodo 460-450 (Polignoto) una p. ancora tutta retta dal contorno e dal disegno, in un fare largo e grandioso, con accenni ambientali che portano ad indicare le linee del terreno, spesso ornate con erbe e fiori, anche certe quinte di terreno roccioso ed ondulato dietro le quali appaiono sono in parte le figure di secondo piano, che però non vengono prospetticamente impiccolite; oppure figure che si dispongono oblique verso il fondo o a formare un cerchio (cratere dal sepolcreto Aurelii, Bologna, Museo Civico, con amazzonomachia; v. vol. ii, p. 548, fig. 752). Scorci corretti compaiono isolatamente nella raffigurazione di alcuni oggetti (tavoli, sedili) con maggior libertà dopo la metà del secolo (per la ceramica v. hermonax). Compare anche qualche accenno isolato al giuoco dei riflessi ed al chiaroscuro; ma sostanzialmente è ancora una p. senza impostazione prospettica e senza ombra (v. ombra portata), chiusa ancora in una purezza lineare, in una astrazione formale, che non concedono nulla alla minuta osservazione naturalistica, o all'illusione, e operano in uno spazio, che è sempre presente alla sensibilità dell'artista, ma che è tutto concettuale, razionale. Con la skiagraphia di Apollodoros ha inizio il profondo mutamento: per la prima volta al mondo, la p. osa avventurarsi nella pericolosa via della illusione naturalistica e affrontare il problema di dominare la prospettiva, ma tuttavia, dandole un contenuto umano, in certo modo simbolico della nobiltà della realtà umana e non meramente utilitario e tecnico. La gravità del passo non sembra più avvertita, nella sua portata rivoluzionaria, dalle povere fonti letterarie sull'arte, delle quali disponiamo; ma quando si dice (Plin., Nat. hist., xxxv, 61) che Zeusi andò innanzi procedendo attraverso le porte aperte da Apollodoros, vi è l'eco della consapevolezza del fatto che un nuovo periodo artistico aveva allora avuto inizio. Più di ogni altra, ci fa comprendere il contrasto che dovettero superare gli innovatori una fonte per solito non sfruttata in questo senso: Platone. Platone, infatti, polemizza in più luoghi contro l'arte nuova, illusionistica, che invece di afferrare la realtà strutturale delle cose, cerca di renderne soltanto l'aspetto sensibile e quindi crea, secondo Platone, non una immagine della realtà quale essa è intellegibile razionalmente, ma la illusoria imitazione di una illusione dei sensi (illusione ottica) ed è perciò, secondo il suo concetto, doppiamente ingannatrice e mistificatrice.
Da questa polemica (senza entrare nel merito concettuale di essa) si possono ricavare alcuni dati importanti e abbastanza precisi (per i singoli passi v. la voce platone e aristotele): che nel 380-370 (composizione della Repubblica) e ancora nel 360-350 (composizione del Sofista) la polemica teorica era viva nel contrapporre la p. antica e la p. contemporanea ("di oggi", νῦν), che si era appropriata dei mezzi della prospettiva creando "illusioni della realtà", "parvenze di parvenze", mentre i pittori erano continuamente alla ricerca di nuovi mezzi di espressione (Leggi, 769 b-c); che i mezzi prospettici e illusionistici erano penetrati nella p. attraverso la scenografia (per la quale grandi composizioni rimangono attestate sino dal 390 circa) e che il termine skiagraphia significava esattamente "p. prospettica, illusionistica, teatrale" (Teeteto, 208 c). Veniamo a sapere, o meglio, ad aver conferma, che la p. anteriore alla scoperta della prospettiva operava con colori non mescolati (Cratilo, 434 a-b) cioè piani, e che essa, per questo lato, poteva essere posta sullo stesso livello della decorazione tessile e degli ornamenti architettonici; invece la p. "moderna" impastava i colori (Cratilo, 431 a-c) e si differenziava oramai nettamente dalla ornamentazione policroma artigianale. In quel secolo che va da Agatharchos a Platone (470-450, 370-350) si era sviluppata e affermata dunque una nuova concezione della p. (e si afferma non sulla linea vagheggiata da Platone, ma su quella della sofistica, e su una discendenza culturale che va da Anassagora a Democrito a Epicuro. Platone vi appare nettamente come un conservatore).
Per la seconda metà del IV sec., d'altra parte, passi di Aristotele (morto nel 322 a. C.) dimostrano che la polemica contro l'illusionismo della p. prospettica e naturalistica era ormai caduta. L'arte, cioè l'"opera poetica", è ormai intesa tale non tanto in quanto rappresentazione della realtà, ma rappresentazione verosimile di "verità" umane e perciò di valore universale. Quindi l'illusione pittorica ha una sua realtà particolare, realtà poetica, anche se falsa sul piano della verità; e questo concetto viene esemplificato in uno scritto della scuola di Aristotele, esplicitamente col richiamarsi alle immagini dipinte, che si vedono indietreggiare, altre venire innanzi, pur essendo le une e le altre sullo stesso piano visivo effettivo (v. platone e aristotele).
Entro questo quadro va dunque posto lo svolgimento delle due grandi scuole pittoriche del IV sec., la tebano-attica, e la sicionica (v. greca, arte, iii, p. 1034). Ancora da Aristotele si ricava che in quel tempo esisteva già la "pittura di genere" (v. genere, pittura di) e, forse, un avvio alla "natura morta" (v.) giacché si esemplificano, a mò di paragone, pitture di animali "tra i più spregevoli" o di oggetti "in sé affatto piacevoli" (Poetica, 1448 b, 10 ss.; Retorica, i, 1371 b, 5 ss.; Depart. anim., 665 a, 13 ss. Le più antiche "nature morte", del tutto inanimate, che ci rimangono si trovano sui vasi di Hadra del III sec. e su mosaici di Delo del Il). Si parla anche di accordi e relazioni attive fra i colori, ma sempre sorretti dal disegno di contorno. Il disegno è considerato tuttora, da Aristotele, "l'anima della pittura" (Poet., 1455 a, 1). Tuttavia, osservando le testimonianze monumentali, si può arguire che il predominio della linea di contorno (disegno) andasse già attenuandosi, e che gli artisti fossero più progrediti dei teorici (come sempre avviene) nella via della completa liberazione dal disegno: un mosaico di Pella, la capitale del regno macedone (v. vol. v, fig. 295 e voce pella) databile alla seconda metà o alla fine del IV sec., ci mostra nel corpo umano una netta linea di contorno che ne accentua la forma plastica, ma nel panneggio svolazzante, eminentemente pittorico, la linea di contorno è già scomparsa è la forma è suggerita soltanto dal chiaroscuro che varia i colori.
Un passo del Kritias di Platone (107 BD, riportato alla voce paesaggio) attesterebbe l'esistenza di veri paesaggi all'inizio del IV sec. e non sappiamo se limitati alla scenografia. Da altre testimonianze pittoriche e letterarie, possiamo affermare che alla fine del IV sec. il problema dello spazio nella pittura greca era arrivato al punto di rappresentare figure poste all' interno di ambienti chiusi da tre pareti (Alessandro e Rossane nella camera nuziale, v. aetion; analoga ambientazione ripetono le pitture a naìskos di stile classicheggiante provenienti dalle città vesuviane: v. tav. a colori con attore), o di ambienti chiusi, la cui parete di fondo si apriva prospetticamente sopra altri ambienti più interni (stele di Hediste); oppure composizioni di figure collocate all'aperto al di là di un primo piano esplicitamente caratterizzato da elementi prospettici (per esempio le armi e poi il cavallo visto di dietro nel mosaico della Battaglia di Alessandro, v. philoxenos), e disposte in modo da coprirsi in parte una con l'altra, sì da accennare varî piani di profondità, eventualmente con l'aggiunta di isolati elementi paesistici, ma senza uno sfondo "infinito". Dopo una parentesi di ritorno, quasi per timore del nuovo, verso la metà del IV sec., ai ritmi misurati che erano stati creati nell'età fidiaca, le figure sono spesso raffigurate in movimenti impetuosi (v. anche theon e le sue Phantasiai) i quali creano contrasti di chiaroscuro accentuati, almeno fin dalla prima metà del secolo, da "lumi", cioè da tocchi di pennellate di colore chiaro, talora quasi bianco, nei punti salienti del riflesso della luce. (Per Pausias si notava lo scorcio ottenuto senza "lumi": eminentia non rilevate candicanti colore; Plin., Nat. hist., xxxv, 127). I "lumi" appaiono sulle ceramiche fra 350-340; tra i migliori esempî la brocchetta con duello di un greco con un'amazzone all'Ermitage (Leningrado), ed il sarcofago con le amazzoni al Museo Archeologico di Firenze, da Tarquinia (v. vol. i, Tavola a colori a p. 302), dove il chiaroscuro pittorico è ancora ampiamente sorretto dal tratteggio lineare (anche incrociato) e dalla linea di contorno. Il mosaico della Battaglia di Alessandro (v. philoxenos) ci mostra (in una copia in parte incompleta da una grande pittura) il "magnifico compimento dei propositi del IV sec.; ma esso non è l'ultima parola della pittura greca, per quanto riguarda la concezione dello spazio e gli effetti di luce" (Rumpf).
3. - Il III sec. a. C. Col III sec. a. C. la testimonianza delle fonti letterarie ci viene quasi interamente a mancare. (Perduta è l'opera, in almeno 9 libri, che alla p. aveva dedicato Giuba Il re di Mauretania, che si era istruito a Roma prima che, nel 25 a. C., Augusto gli concedesse una parte del regno paterno). Ci accorgiamo quanto, anche nella loro povertà e nei loro fraintendimenti, esse fossero prezioso complemento degli indizî ricavabill dalla documentazione offerta dai monumenti, artigianale e lacunosa anch'essa. E viene a mancare, anche, nello stesso tempo, la testimonianza della ceramica. Questa, perché nella nuova situazione economica del mondo ellenistico si moltiplicano le fabbriche locali, con produzioni strettamente utilitarie, dato che l'accresciuto lusso trasferiva le proprie ambizioni artistiche sul vasellame in metallo, e particolarmente. in metallo prezioso che, naturalmente, si è perduto (v. toreutica; tesori).
L'assenza delle testimonianze letterarie è dovuta al prevalere, dopo la metà del Il sec. a. C., di una concezione (v. classicismo) che rifiutò tutto lo sviluppo artistico ellenistico, posto tra la Olimpiade CXXI e la CLVI (cioè fra 290 e 150 a. C.). Ci troviamo di fronte a una vasta lacuna, che si chiude con le prime pitture parietali di Roma e delle città campane sommerse dall'eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Questo stato di cose ha facilitato il crearsi di un grosso equivoco, al quale hanno contribuito per la loro parte l'angusto filologismo dei primi studiosi e la troppo sprovveduta critica formale di molti dei più recenti. Il Wickhoff (v.), con i suoi geniali errori, ha avuto anch'esso una buona parte di colpa. L'equivoco consiste, in sostanza, nel ritenere ferma la p. greca al punto che abbiamo documentato per la fine del IV sec., e attribuire, per conseguenza, ad una originalità pittorica romana (o addirittura campana) tutta la nuova problematica che è dato riconoscere nelle pitture di età romana, e che ci mostra: la completa conquista dello spazio fino alla rappresentazione di paesaggi con sfondi all'infinito, raffigurati non soltanto con mezzi prospettici lineari, ma anche con attenuazioni cromatiche; il completo superamento del disegno in una p. ricca non solo di chiaroscuri, ma di riflessi e di cangiantismi, manieristica, si potrebbe dire, e inoltre un uso così esteso della "macchia", da poter suggerire, per caratterizzarne taluni momenti, l'uso del termine "impressionismo" (v.). (Si veda, ad esempio, il particolare dei Ciclopi nel quadro di Teti da Efesto, della Casa degli Amorini Dorati, Reg. vi, 16, 7, di tardo III stile). Per riconoscere la natura di questo equivoco basta, ma occorre, una più accurata documentazione della tradizione monumentale e delle fonti letterarie e un pò di riflessione sulla situazione storica della cultura ellenistica e della cultura romana (v. anche romana, arte). È necessario, infatti, tener presente l'enorme peso e il valore della tradizione culturale ellenistica, la forza di penetrazione della forma naturalistica da essa portata, una forma tanto più facilmente amabile e comprensibile di fronte alle "stilizzazioni" precedenti, tanto più "completa", e per di più diffusa da un artigianato artistico, che aveva assunto aspetti e tecniche quasi industriali. (Si può parlare veramente, dall'ellenismo in poi, di industria artistica). Sicché la forma ellenistica penetrò ovunque, annullando o assorbendo le preesistenti culture artistiche locali.
Che la forma artistica greca non si sia però arrestata alla problematica raggiunta alla fine del IV sec., è palesato in maniera più che evidente nella scultura. In essa, in mezzo a sempre risorgenti spunti classici, abbiamo in età ellenistica un sempre più profondo mutamento di forma e di contenuto, oltre che di temi e di soggetti. L'arte, non più espressione della polis, non più sorretta da un sentimento collettivo, ma passata a servizio del privato, fosse esso sovrano che volesse adornare di monumenti la sua città, o privato amatore e collezionista, subisce un impoverimento nel proprio contenuto e finirà nel freddo intellettualismo e nel commercialismo neoattico (v. neoatticismo), ma si avventura, per compenso, nella più varia e spericolata sperimentazione formale.
Dal punto di vista meramente formale, per quanto riguarda la scultura, non solo tutte le premesse contenute nell'arte dell'ultimo dei grandi artisti classici, Lisippo, vengono sviluppate, ma nuovi e arditi problemi di forma e d'espressione vengono affrontati, sempre sulla base di un sostanziale naturalismo e nella direzione di una sempre maggiore libertà della forma moventesi con assoluta disinvoltura nello spazio e particolarmente nella ricerca di effetti coloristici (forti chiaroscuri, trasparenze di tessuti, modellato sfumato). Se questo vediamo avvenire nella scultura, che ci è meglio conservata, non possiamo non postulare uno sviluppo analogo per la p., che era stata, ed era rimasta, l'arte-guida, e in un tempo nel quale anche la plastica cercò di farsi quanto più possibile pittorica. L'una e l'altra, proprio a causa di questi sviluppi, vengono negati dalla reazione classicistica.
Sulla base di queste considerazioni si giunge a concludere che tutti i problemi stilistici di fondo che noi troviamo espressi nelle pitture romane della metà del I sec. a. C. e che appaiono come novità rispetto alla problematica pittorica che abbiamo potuto ricostruire per la fine del IV sec., appartengono allo svolgimento della p. ellenistica del III e Il e della prima metà del I sec. a. C. e non a un'"arte romana", che non esiste prima del 100 a. C. e che, nemmeno nelle sue ascendenze italiche preromane, non presenta nessuna particolare sensibilità per i problemi pittorici (altra cosa è per il disegno, la composizione, i soggetti) se non per quelli derivati dalla p. greca.
Un noto passo di Vitruvio (vii, 5 ss. paesaggio) e tutti gli accenni fatti da Petronio (v.) e da Plinio il Vecchio (morto nel 79 d. C.) sulla decadenza della p. al tempo loro, "arte un tempo famosa" (quondam nobilis), ridotta quasi esclusivamente a ornamentazione parietale, confermano ampiamente il quadro storico tracciato (Plin., Nat. hist., inizio del libro xxxv, 1-6 e cfr. 26). Se ciò non bastasse, si osservi come, tranne pochissime eccezioni sulle quali si tornerà più avanti, la qualità di ciò che resta della p. romana e campana del I sec. a. C. e del I d. C. palesi chiaramente, alla aderente lettura formale, il divario fra una invenzione talora grandiosa, tal'altra piena di arguzia o di grazia, e una esecuzione sovente sciatta o addirittura ottusa, anche se tecnicamente disinvolta, che fraintende il problema pittorico proposto; spesso frettolosa. E questo divario è chiara testimonianza che, dove esso è avvertibile, non si crea, ma si imita, e spesso si copia perdendo in un abile eclettismo che si vale contemporaneamente di tutte le maniere pittoriche del passato, ogni effettiva aderenza stilistica con il modello. Questo divario si avverte evidente anche nelle più celebrate pitture pompeiane: il fregio figurato della Villa di Boscoreale, il fregio figurato della Villa dei Misteri, le grandi composizioni pittoriche inserite nella varia decorazione parietale. Fra le migliori vanno riconosciute le composizioni di Achille a Sciro e della Partenza di Criseide (o di Elena), dalla Casa dei Dioscuri, di Achille che rilascia Briseide, dalla Casa del Poeta Tragico, della Epifania di Dioniso a Nasso dalla Casa del Citarista (v. tav. a colori), le quali ci mostrano, sia pure alterate, tendenze diversissime, che vanno dall'impasto di colore grezzo e robusto alle sfumature e ai cangiantismi, dalla pittura a forti contrasti di luce alle trasparenze dell'acquerello. Ma anche in queste, con tutta la loro maestria tecnica, si avverte la incompleta realizzazione dei temi pittorici proposti dal modello. Si veda, per esempio, quanta distanza passi fra l'esecuzione e l'impostazione di una pittura "barocca" in dipinti come Teti nella officina di Efesto dalla Casa Reg. ix, 5, 2, O di Micon e Pero, dalla Casa Reg. ix, 2, 5. Ma la grazia e la capacità dei decoratori di età romana non consiste in queste copie di celebrati dipinti del passato (nei quali è fondamentalmente errato cercare dei "Maestri" o tentare di crearne), bensì nella decorazione, che rimane fresca e viva fino a circa il 60 d. C., cioè fino all'inizio di quello che noi chiamiamo il IV stile pompeiano che rielabora (e spesso affastella) materiali ormai da tempo affermati nel repertorio ornamentale, aggiungendo di suo solo una rapidità di esecuzione che sovente degenera in sciatteria.
Chiarita così la situazione storica, dobbiamo riprendere il filo del discorso e cercare di documentare lo svolgimento della pittura greca dagli inizî del III sec. a. C. in poi, con i pochi mezzi di indagine dei quali disponiamo. Uno dei più ampî documenti che siano databili agli inizî del III sec., tra 323 e 281, la tomba a cupola di Kazanlăk (v.) in Bulgaria, mostra in realtà uno stile classicheggiante non privo però di sapore provinciale e pertanto privo di ogni accenno a nuovi problemi formali. Se ne trovano invece (sempre a livello artigianale), nelle stele di Demetriade (Pagasai) e di Alessandria d'Egitto. In queste si è tentato di riconoscere (Brown) quattro tendenze stilistiche, una specialmente tra 317 e 307 a. C., ancora legata all'arte attica della seconda metà del IV sec. (alla quale appartiene, per esempio, la stele col cavaliere Nr. 21); una seconda che riecheggia quasi la grazia post-prassitelica che si trova nelle terrecotte tanagrine (v. tanagra) e appare più propria al III sec. (per quel poco che ne resta si potrebbe richiamare la tarquiniese Tomba del Cardinale); una terza tendenza, contemporanea alla precedente, che sembra accogliere echi dell'arte di Pergamo, e infine, nel Il sec., una caduta della tradizione colta a favore del diffondersi di uno stile convenzionale e popolareggiante, che corrisponde al corrente artigianato tardo-ellenistico anche nella penisola italiana. (Le stele di chiusura dei loculi della Tomba dei Soldati nella necropoli E di Alessandria sono gli unici pezzi di pittura alessandrina sicuramente datati dai vasi di Hadra usati come cinerarî e iscritti con date corrispondenti al 250, 242, 239 a. C.; ma si tratta di artigianato corrente, per un sepolcro di mercenarî, per lo più gallici). Una testimonianza di pittura cromatica del tutto ellenistica sono anche le amabili figurazioni sui coperchi e sul corpo dei vasi di Centuripe (v.); ma l'esempio massimo del complesso colorismo della pittura nel III-II sec. a. C. restano i mosaici di Dioskourides (v.) di Samo (Napoli, Museo Naz.), in confronto dei quali le pitture parietali conservateci dalla eruzione vesuviana si collocano immediatamente nel rango di un abile ma corrente mestiere artigiano, al quale le assegnavano gli stessi contemporanei, come risulta largamente dalle fonti letterarie. La esistenza di una forma pittorica non più retta dal disegno, ma soltanto dal cromatismo, e ravvivata dalla macchia, è attestata dalle ceramiche alessandrine di Hadra (v.), da quelle dette delle Pendici Occidentali (v.) dell'Acropoli, da quelle dette di Gnathia (v. apuli, vasi; egnazia) e dai pocola (v.) laziali con l'affine gruppo di Hesse. Anche se le reciproche relazioni fra queste fabbriche non sono state ben chiarite (tra i vasi di Hadra ve ne sono alcuni che recano iscritte date che si possono scalare fra il 259 e il 212 a. C.), si ha innegabilmente la testimonianza di una pittura che si regge sopra un vivace chiaroscuro, rapida e franca, che già contiene (e questo è il punto decisivo) tutta l'esperienza che si ritroverà negli elementi decorativi più freschi della pittura pompeiana del cosiddetto II e III stile (v. pompeiani, stili). Questa pittura rapida e a macchia, ci porta a interpretare in questo senso il termine pictura compendiaria usato (e si è discusso se il termine abbia lo stesso significato in entrambi gli autori) da Petronio (Satyricon, 2, 2) e da Plinio (Nat. hist., xxxv, 110. Per la discussione si veda le voci impressionismo; petronio) e che è considerato in modo negativo da un punto di vista classicistico (Petronio), ma in modo positivo, come la conquista di una maggiore abilità, dal punto di vista dello sviluppo storico della p. greca al volgere tra il IV ed il III sec. a. C., nei testi riecheggiati da Plinio.
4. - Il tardo ellenismo. Per il Il sec. la documentazione è ancora più scarsa; e forse la sola notizia che possa dare qualche indizio e che ci riporta alla metà del secolo, è la dedica del teatro di Oropos (I. G., vii, 423) dove sono nominati i thyromata, cioè le scene dipinte su legno inserite nelle grandi aperture della fronte scenica, la cui introduzione porta, nello stesso tempo, alle modifiche architettoniche riscontrabili nei teatri di Priene e di Efeso. Di alcune di tali scene sembra plausibile riconoscere, con l'appoggio del già citato passo di Vitruvio (rafforzato dal passo v, 6, 9) una riproduzione, o almeno un'eco diretta, nelle pitture di Boscoreale (v. boscoreale; paesaggio) che presentano nella thòlos entro un porticato, una scena tragica; nella veduta di città (con la porta in primo piano da supporsi praticabile nell'originale), una scena di commedia; e nella grotta con la fontana e la pergola, una scena di dramma satiresco. Il rifiuto di tale interpretazione da parte di qualche studioso a favore di una complicata interpretazione simbolica (Lehmann-Williams) non sembra realmente basarsi su alcun argomento convincente, mentre sta a favore di essa anche la mancanza di figure umane in queste composizioni. Che per questo tempo si avesse una p. di paesaggio quale specializzazione, sembra confermato (ma il termine può essere interpretato anche diversamente) dal soprannome dato a quel Demetrios (v.) detto il topographos, che viveva a Roma nel 164 a. C. e vi era venuto dall'Egitto come quel Serapion (v.) che vi aveva dipinto una scena di grandissime dimensioni e priva di figure. I paesaggi dell'Odissea (Roma, Biblioteca Vaticana) provenienti dalla decorazione di una casa romana di un tipo strutturalmente iniziatosi con l'età sillana (fra 100 e 8o a. C), ma eseguiti probabilmente fra il 50 e il 40 a. C., sono stati, anche dalle più recenti indagini, confermati come buone, anche se non ottime, repliche di pitture ellenistiche d'attorno al 150 a. C., che corrispondono esattamente a quelle Ulixi errationes per topia che Vitruvio poneva tra le decorazioni parietali in uso presso gli antiqui e che al suo tempo, nunc (e siamo al 30-25 a. C.) erano state sostituite da quelle fantasie ornamentali architettoniche che sono state classificate come di II stile, fase D.
Con la rappresentazione di questi paesaggi a orizzonte infinito, immaginati come visti al di là di un porticato, tracciati con mano agile e disinvolta, ricchi di effetti coloristici e di velature negli sfondi (qualità emerse in modo particolare durante i recenti, anche se non del tutto felici restauri) la p. greca ha realmente compiuto il suo ciclo, portando alle ultime conseguenze le sue lontane premesse di ricerca naturalistica, prospettica e coloristica.
A questi problemi, il gusto romano non arrecò nessun contributo. La p. classica ed ellenistica fu accettata qual'era ed essa continuò a svolgersi anche sotto il dominio politico romano nei varî suoi centri. Appartiene all'età di Cesare uno degli ultimi pittori di quadri, dei quali le fonti ci conservino il nome: Timomachos (v.) di Bisanzio. Appartiene agli ultimi sviluppi della p. ellenistica, che ha come suo nuovo centro Roma, la decorazione parietale, detta diii stile, con le sue varie fasi e quella del cosiddetto III stile (v. pompeiani, stile). Dopo di che sembra cessare ogni nuovo apporto di motivi ellenistici. Il iv stile che ha inizio attorno al 60 d. C., non è che un riprendere, combinare diversamente e accentuare in senso scenografico, manieristico o addirittura barocco (come nel quadretto della Liberazione di Andromeda qui riprodotto da nuova fotografia) i temi ed i motivi degli stili precedenti. Ma non vi è apporto di problemi pittorici nuovi, giacché anche il suo noto "impressionismo" non è che accentuazione della "macchia" precedente: esso tuttavia, precede ed annunzia quel disgregarsi della connessione formale non più sorretta dalla razionalità classica, che poi nella scultura sarà raggiunto pienamente soltanto agli inizî del III sec. d. C. Anche dove, nell'ambito della p. romana si possono cogliere i segni di una personalità pittorica che non copia, ma inventa, come nel caso del fregio sulle pareti a fondo bianco della Casa della Farnesina (v. Tav. a colori) o nella p. di giardino della villa di Livia (entrambe Roma, Museo Nazionale Romano), e anche se si volesse accettare la ipoteticissima connessione dell'una (ma non certo dell'altra) con Ludius (v.), si tratta pur sempre di pittori che operano nella tradizione pittorica ellenistica: del paesaggio idillico-sacrale, o bucolico, con l'aggiunta forse di qualche tema di architettura, o di un episodio narrativo o della composizione di maschere per l'uno, del paràdeisos di alberi e uccelli per l'altro, che ha un suo significativo precedente, anche se nella forma povera e sciatta delle pitture tombali, nella camera n. 5 della necropoli alessandrina di Anfushi (v. anche giardino). L'ulteriore svolgimento degli schemi (o "stili") parietali, mostra che si continuò a operare sugli elementi acquisiti: lo schema tripartito con l'edicola al centro e le due ali prospettiche raggiunto nella fase D del II stile, continua ad essere fondamentale anche quando sarà ridotto ad una astrazione lineare (Roma, resti di una Villa sotto S. Sebastiano all'Appia, pareti del primo trentennio del III sec. d. C., ipogei delle catacombe romane). Ancora alla fine del II sec. (Villa sotto S. Sebastiano, pareti di età antonina, v. vol. v, tav. a colori, p. 828) si ripetono le ville del IV stile pompeiano e le composizioni di uccelli e nature morte come negli xenia (v.) pompeiani (ipogeo di Clodius Hermes, Roma: v. tav. a colori, vol. v, p. 356).
Sempre più stanca e svuotata dei suoi problemi, la tradizione della p. ellenistica si protrarrà, nella parte orientale dell'Impero, sino a incontrarsi con la nuova concezione del disegno e della p. che noi diciamo bizantina. Le miniature dei codici con il loro ripetersi in successive copie, saranno uno dei veicoli di questa conservazione (v. illustrazione).
5. - L'età romana. Il gusto romano, che pur si manifesta accanto alla persistente tradizione ellenistica, non pose dunque nuovi problemi formali alla concezione della pittura. Esso predilige, accanto ai temi della eleganza ellenistica, altri temi che, per tradizione, erano sempre stati espressi in un linguaggio diverso: temi narrativi, storici, nei quali la chiarezza della narrazione importa assai più della grazia nel comporre o dell'arguzia nel cercare nuovi effetti cromatici, o temi del tutto pratici: cartelloni per annunziare ludi gladiatorî (Plin., Nat. hist., xxxv, 52) o insegne di botteghe o piccoli quadretti di carattere devozionale, processioni di collegi religiosi, edicole dei Lan (v.) o anche quei cartelli rappresentanti i momenti culminanti di un delitto, che avvocati con tendenza al ciarlatanesco portavano innanzi ai giudici svelandoli nei momenti salienti della loro arringa (v. quintiliano). Ma anche per tali pitture, fino al III sec. d. C., non vediamo porsi problemi stilistici e pittorici nuovi, e persino per queste, le fonti ricordano nomi forestieri (v. theodotos). Questa p. modesta e senza pretese che si potrebbe dire plebea, non fa che continuare la p. già in uso nell'età ellenistica negli ambienti popolari provinciali (come le stele di Alessandria del 4° gruppo: v. sopra, o talune pitture nelle case di Delo). La troviamo nelle camere sepolcrali di tutta l'area ellenistica, dalla Crimea a Taranto, e nelle stele funerarie (v. libero, tav. a col.). Ciò che da essa diverge, in qualche caso, come in alcune camere sepolcrali lucane, di Paestum o di Cuma, dove non riecheggi forme ellenistiche non diverge perché ponga diversi problemi pittorici, ma solo perché si esprime in forme primitive, barbariche; le quali a certo gusto del nostro secolo ventesimo hanno potuto anche presentare particolari attrattive; ma storicamente non hanno valore, non avendo né continuità né sviluppo. Esse scompaiono senza traccia non appena si diffonde la cultura più complessa derivata dalla tradizione ellenistica.
Quella disinvolta p. "plebea" priva di lenocinî, che aveva trovato così ampia diffusione a Roma e nelle provincie, è poi quella che sussiste dopo lo spengersi del ragionamento sulle arti e della problematica storica della civiltà ellenistica. Essa si inserisce senza sforzo, nella grande crisi generale, economica, sociale, artistica del III sec. d. C. (v. romana, arte).
Una delle poche testimonianze superstiti di carattere monumentale, e probabilmente di non scadente qualità, che decorava le pareti dell'aula sacra, nel castrum dioclezianeo insediatosi entro l'antico tempio faraonico di Luxor, è quasi distrutta ad opera degli egittologi ansiosi di leggere le iscrizioni coperte dall'intonaco, e ne rimane poco più che il ricordo in rapidi schizzi acquarellati. Ma essi sono sufficienti a testimoniare la persistenza di quella "pittura trionfale" che doveva aver illustrato i fatti d'arme e i luoghi conquistati, con grandi quadri recati nel trionfo o esposti nel Foro o dedicati nei templi, per i quali esistono menzioni letterarie riferentisi ad avvenimenti dall'inizio del III sec. a. C. in poi. (Festo, p. 209 M: trionfo di L. Papirio sui Sanniti, 372 a. C.; di M. Fulvio Flacco sui Volsiniensi, 264 a. C.; Plin., Nat. hist., xxxv, 22: vittoria di M. Valerio Messalla contro Cartaginesi e Siracusani 263 a. C. e vittoria asiatica di Scipione, trionfo del 188; Liv., 41, 28, 8; battaglie di Ti. Sempronio Gracco in Sardegna, 174 a. C.; Plin., Nat. hist., xxxv, 23: presa di Cartagine, 146 a. C.; ecc.). Frammentarî esempî ne restano in alcune pitture storiche provenienti da sepolcri dell'Esquilino di età repubblicana (Roma, Museo Nazionale Romano) e nella Tomba Giglioli a Tarquinia (v. Tavola a colori).
La più dettagliata descrizione di tali pitture trionfali è quella di Giuseppe Flavio (vii, 143) per il trionfo di Tito e da essa si può desumere che dovettero appartenere sostanzialmente allo stesso genere i disegni, che è necessario presupporre per l'esecuzione del lungo fregio in bassorilievo della Colonna Traiana, modello di tutte le altre colonne coclidi istoriate, fino all'età di Teodosio.
Nella tradizione ellenistica della p. si assiste dunque, sino al III sec. d. C., ad un impoverimento, ma non al proporsi di nuovi problemi formali. La p. dei ritratti del Fayyūm (v.) presenta, sino al III sec., una concezione e una tecnica dell'impasto cromatico interamente ellenistica, che poi viene abbandonata per l'insorgere di un gusto lineare che abbandona il chiaroscuro e il rendimento dello spazio e appartiene a uno di quei fenomeni di affermazione di culture nazionali, più rozze, ma sentite con maggior efficacia, che si notano al momento dell'infrangersi dell'unità dell'Impero romano (v. copta, arte). La tradizione ellenistica resiste di più nella parte orientale dell'Impero, mentre nella parte occidentale si ha un più rapido e persistente declino verso forme di arte incolta, popolare, non senza qualche inserzione di gusto barbarico, specialmente nei mosaici della Britannia (cfr. vol. iii, fig. 123).
La finale divergenza delle tradizioni si vedrà assai chiaramente nel confronto tra le miniature di due codici pressocché contemporanei (fine del VI sec.), la Genesi di Vienna (opera orientale antiochena o costantinopolitana) e l'Evangelario di Sant'Agostino di Canterbury (opera occidentale di scriptorium italiano). Forme ellenistiche impoverite mostravano ancora alcuni gruppi di miniature della Iliade Ambrosiana (gruppi A, C, CC) risalenti a modelli anteriori (fra I e III sec.), eseguiti tra la fine del V e gli inizî del VI sec., accanto ad altre miniature (gruppi D, EC) già influenzate da una diversa visione artistica. Sarà questa ultima a sostituirsi poi alla problematica ellenistica in modo durevole, sì da annullarne tutte le premesse con l'affermarsi della p. bizantina, il cui svolgimento cade al di fuori del quadro di questa enciclopedia (v. bizantina, arte). Sulle componenti di essa e sulla sua formazione la discussione è ancora aperta. Ma non v'è dubbio che una sua componente determinante va ricercata nella corrente d'arte che, su basi iraniche, andò affermandosi nelle provincie asiatiche dell'Impero (v. partrica, arte) e che fin dal I sec. d. C. troviamo presente, anche se frammista a particolari durezze provinciali, nelle pitture di Dura Europos (v.) dove alcuni passi, come l'affresco della famiglia di Conon, hanno una purezza di stile ed un'altezza di qualità che ci obbligano a riconoscere la presenza, accanto a forme d'arte provinciale, di una diversa concezione della forma pittorica: diversa soprattutto per la negazione dello spazio illusionistico tridimensionale e per il valore preminente della linea disegnativa. Visione spaziale limitata e linearismo, che non sono semplicemente (come qualche studioso volle dire) un ritorno (o una conservazione) della concezione arcaica precedente alla prospettiva e al chiaroscuro, perché qui si tende deliberatamente all'astrazione della forma e ad un puro cromatismo, mentre nell'età arcaica greca, pur nella costruzione bidimensionale, palpitava la continua ricerca di una aderenza alla realtà organica della vita e della forma naturalistica.
Un'altra corrente artistica, caratterizzata, invece, da un suo tipico realismo, ma non ancora sufficientemente osservata circoscritta e valutata dagli studiosi, va riconosciuta nei fiorenti centri della costa africana del Mediterraneo occidentale. Essa si compone, in una sua propria affermazione, con la tradizione ellenistica, qui mediata da Roma più che da Alessandria, ed è riconoscibile, per noi, soprattutto nei mosaici pavimentali della Tunisia, dell'Algeria e di una parte del Marocco e per gran parte in quelli di Piazza Armerina (v.). Nel mosaico dei Lavori campestri di Cherchel essa ci ha conservato un'opera di eccezionale qualità originale (inizî III sec. d. C.); nel mosaico del Dominus Iulius (da Cartagine, Tunisi, Museo del Bardo) degli ultimi decennî del sec. IV, si ha, rispecchiata ancora nella tradizione formale, un riflesso della vita dei proprietarî entro le grandi ville, fortificate contro l'insorgere del determinante elemento rurale (i coloni), mentre altri mosaici, come quelli della villa di Tabarca (Thabraca, Tunisi, Museo del Bardo) forse già degli inizî del sec. V, mostrano la ormai avvenuta rottura della tradizione che era, sino ad allora, tuttora permeata di forme ellenistiche. Alla rappresentazione narrativa si è sostituita l'immobilità, con una descrizione ornamentale, non più naturalistica, e di modi quasi araldici, che perdurerà lungo tutto il Medioevo. Nel mosaico con scene di circo, da Gafsa (Tunisi, Museo del Bardo) a questa immobilità si aggiunge una componente popolaresca e provinciale, che sovrasta ormai a ogni residua forma naturalistica. L'efficacia di questa corrente artistica rimane limitata all'Africa e si estende isolatamente alla Sicilia ed alla Spagna. Il Pentateuco Ashburnham (Parigi, Bibliothèque Nationale, nouv. acq. lat. 2334) ne mostra un raro riflesso nella miniatura illustrativa. La vitalità di questa corrente sopravvisse anche alla invasione (429-435) dei Vandali di Genserico, ma fu sopraffatta dalla conquista bizantina che, alla fine del sec. V ed agli inizî del VI procurò, insieme ai saccheggi delle tribù indipendenti, la maggior parte di quelle distruzioni tradizionalmente attribuite all'età vandalica.
6. - Tecniche della pittura. Superato lo stadio della p. preistorica, che usava come collante i grassi animali impastati con terre coloranti (pitture al coperto) o il sangue e la caseina (pitture esterne), le tecniche della p. nell'antichità egizia e in quella classica sono la tempera, l'encausto e l'affresco (v. affresco; encausto; tempera). Per i quadri di cavalletto delle due grandi scuole della Grecia classica, sembra che la p. a encausto fosse preferita dalla tradizione accademica sicionica, mentre in quella tebano-attica, nella quale si effettuò il superamento del disegno e la conquista del chiaroscuro e del cromatismo, venisse preferita la più rapida tecnica della tempera. I quadri da cavalletto dipinti sul legno ebbero certamente cornici (v. cornice). I quadretti votivi dovettero essere sia su legno che su lastre di terracotta; da qualche accenno si crede di poter avanzare l'ipotesi che i grandi cicli pittorici di Polignoto, non fossero sempre affreschi parietali, ma anche, in qualche caso, dipinti su lastre giustapposte (v. pinakes). Ciò li avvicinerebbe, dal punto di vista tecnico, agli esempî di lastre di terracotta dipinte, che si sono trovati nelle necropoli etrusche e che dovevano formare dei fregi all'interno di camere sepolcrali particolarmente fastose (v. cerveteri; etrusca, arte). La tecnica dell'affresco, basata fondamentalmente sulla reazione del colore sciolto in acqua a contatto della calce dell'intonaco fresco, che formando carbonato di calcio, fissa il colore in modo permanente, si trova usata fin dalla pittura egiziana e mesopotamica, su intonaco misto a paglia tritata. Nelle tombe etrusche di Tarquinia e di Chiusi si è osservato che sulla parete di tufo naturale veniva spalmata una sottile mano di argilla (ingubbiatura; nella Tomba delle Bighe a Tarquinia vi è eccezionalmente mescolata anche una piccola parte di torba con funzione analoga alla paglia tritata). Sull'argilla una scialbatura di latte di calce era sufficiente a costituire il fondo e il legante per un vero e proprio affresco. Analogo processo, senza la ingubbiatura d'argilla sciolta, si ha nel caso di piccole pitture votive e di stele funerarie.
Non del tutto chiarite risultano molte delle espressioni tecniche (v. harmogè e Plin., Nat. hist., xxxv, 23) e molti dei termini stilistici che s'incontrano nelle fonti letterarie antiche: quelle fonti che ci sono rimaste non sono opera di competenti in materia e pertanto riecheggiano talora confusamente notizie termini ed espressioni ricavate dagli scritti per noi perduti di pittori o di scrittori di età ellenistica (E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnug, cit., iii, p. 978 ss. dà un utile indice delle fonti più utilizzabili).
Sono ancora oggetto di discussione le espressioni Colores floridi e colores austeri (Plin., Nat. hist., xxxv, 30) e anche la tradizione che la p., sino all'introduzione del chiaroscuro, fosse basata su soltanto quattro colori (Plin., Nat. hist., xxxv, 32, nomina il bianco, il giallo, il rosso, il nero). A parte la probabile felice scoperta empirica del mezzo pittorico detto "cera punica", piuttosto oscurità che chiarimenti sono venuti da recenti ricerche sui colori (E. Schiavi). L'unica supposizione che potrebbe essere utilizzabile, che cioè la p. a due e poi a quattro colores si riferisse al collante (colos) e non al pigmento, rimane nei limiti di una suggestione non dimostrata e forse non dimostrabile. La distinzione pliniana pone fra i colori austeri: sinopis, rubrica, paraetonium, mulinum, eretria, auri-pigmentum; fra i floridi: minium, armenium, chrysocolla, cinabaris, indicum, purpurissimum. Gli uni e gli altri possono essere naturali o fabbricati; i floridi sono più preziosi e tocca al committente somministrarli; altri colori più comuni e di minor costo sono: ocra, sandaracha (?), sandyx, syrichum, atramentum. Un punto che sembra acquisito (Lepik-Kopaczynska) sarebbe che la distinzione tra floridi e austeri fosse soprattutto tecnica, cioè fra colori trasparenti e a corpo. Le osservazioni condotte (Cagiano de Azevedo) al momento del distacco delle pitture della Tomba delle Bighe (v. sopra) hanno constatato che i colori non vi erano già più usati solamente allo stato puro, ma in vari tratti erano composti (tre tipi di bianco: fondo calce, mescolato con ocra gialla, mescolato con piccola quantità di azzurro; incarnato femminile ottenuto con ocre rosse miste a calce per ottenere una tinta rosacea, ecc.), con stretta affinità ai pinakes lignei di Pitsà (v.).
Monumenti considerati. - Olpe Chigi: P. E. Arias-M. Hirmer, Mille anni di ceramica greca, Firenze 1960, tav. a colori iv. Cratere con amazzonomachia di Bologna: E. Pfuhl, op. cit. in bibl., tavv. 187-188; G. Riccioni, in Studi Etruschi, xxii, 1952-3, p. 233 ss. Cratere da Spina: Alfieri-Arias-Hirmer, Spina, Firenze 1958, tav. 53. Anfora di Monaco, n. 1391: R. Lullies, in C. V. A., München, i, 1939, tav. 26, 1. Brocchetta di Leningrado: A. Rumpf, op. cit. in bibl., tav. 47, 4 (oggi assai guasta nell'originale). Pittura dalla Casa degli Amorini Dorati, Pompei: Herrmann-Bruckmann, Denkmäler, Tav. 140; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Colonia 1929 (ristampa: Hildesheim 1960), fig. 132. Pitture della Villa di Boscoreale: Ph. Williams Lehmann, Roman Wall Paintings from Boscoreale, Cambridge (Mass.) 1953. Pitture della Villa dei Misteri: E. Simon, Zum Fries der Mysterienvilla bei Pompeji in Jahrbuch, lxxvi, 1961, p. 111 ss. Pitture dalla Casa dei Dioscuri: L. Richardson, Pompeii: The Casa dei Dioscuri and its Painters, in Memoirs Amer. Academy in Rome, xxiii, 1955, tav. xxxii e G. E. Rizzo, La pittura ellenistico-romana, Milano 1929, tavv. lvil, vii. Pitture pompeiane delle: Casa del Poeta Tragico: id., op. cit., tav. lxii; Casa, Reg. ix, 5, 2: id., op. cit., tav. lix; Casa, Reg. ix, 2, 5: id., op. cit., tav. liii. Pitture della tomba di Kazanlǎk: V. Mikov, Anticnaja grobniza pri Kazanldk, Sofia 1954; V. Micoff, Le tombeau antique près de K., Sofia 1954. Stele di Pagasai: A. S. Ar-vanitopoulos, Αἱ γραπταὶ στέλαι Δημητριάδος - Παγασῷν, Atene 1928. Stele di Alessandria: B. R. Brown, Ptolemaic Paintings and Mosaics and the Alexandrian Style, Cambridge (Mass.) 1957. Fregio della Casa della Farnesina: G. E. Rizzo, op. cit., tav. clxix. Pitture della Casa di Livia: id., op. cit., tav. clxxxi s. Pitture della Tomba di Anfushi: B. R. Brown, op. cit., tav. xxviii S. Insegne di botteghe: A. Maiuri, La peinture romaine, Ginevra 1953, fig. a pp. 143-147; M. Napoli, op. cit. in bibl., tav. 54. Processioni di collegi religiosi: R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze 1950, tavv. 80 e 82; A. Frova, op. cit; in bibl., p. 396, fig. 368. Pitture private a Delo: M. Borda, op. cit. in bibì., fig. a pp. 153, 155, 156. Tombe della Crimea: M. I. Rostovcev, Anticnaja dekorativnaja zivopis' na juge Rossii (= La pittura decorativa classica nella Russia meridionale), Pietroburgo 1913-14. Tombe dipinte di Taranto: inèdite (è in preparazione uno studio di F. Bertocchi, in Riv. Ist. Arch. e St. d. Arte). Tombe di Paestum e Cuma: A. Maiuri, op. cit., p. 16, 19, 21 e 22; M. Napoli, op. cit., tav. 2 ss. Pittura del Sacello Imperiale a Luxor: U. Monneret de Villard, The Temples of the Imperial Cult at Luxor, in Archaeologia, xcv, 1953, p. 85 ss. Pittura dall'Esquilino: M. Borda, op. cit., p. 172; A. Frova, op. cit., p. 374, fig. 350. Tomba Giglioli a Tarquinia: C. M. Lerici, Nuove testimonianze dell'arte e della civiltà etrusca, Milano 1960, pp. 75 e 139. Genesi di Vienna: H. Gerstinger, Die Wiener Genesis, Augsburg 1931. Evangelario di Canterbury: F. Wormald, The Miniatures in the Gospels of St. Augustine, Cambridge 1954. Iliade Ambrosiana: R. Bianchi Bandinelli, Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad, Olten 1955. Affresco del tempio di Bel a Dura: J. Breasted, Oriental Forerunners of Byzantine Paintings, Chicago 1924; A. Frova, op. cit., tav. xiv. Mosaici pavimentali dell'Africa settentrionale: varî esempî in Frova, op. cit., passim. Mosaici di Piazza Armerina: G. V. Gentili, La villa Erculia di Piazza Armerina. I mosaici figurati, Milano 1959. Mosaico di Cherchel: R. Bianchi Bandinelli, in Archeologia e Cultura, tavv. 63 e 64. Mosaico del Dominus Iulius a Tunisi: A. Frova, op. cit., p. 669, fig. 582. Mosaico della villa di Thabraca: A. Frova, op. cit., p. 668, fig. 581. Mosaico di Gafsa a Tunisi: A. Driss-G. Caputo, Tunisie (Mosaici pavimentali antichi, Unesco 1962), tavv. 27-28. Pentateuco Ashburnham, o di Tours: J. Dominguez Bordona e altri: Ars Hispaniae, vol. xviii, Madrid 1962, fig. 1, 2.
Bibl.: Si veda bibl. s. v. greca, arte, e alle voci dei singoli pittori (v. Indice): A. Reinach, Recueil Millet, Parigi 1921 (raccolta delle fonti); P. Hermann-R. Herbig-F. Bruckmann, Denkmäler der Malerei des Altertums, Monaco 1906-1950; i volumi della S. III (pittura ellenistica e romana) dei Monumenti della pittura antica scoperti in Italia: Pompei, I (O. Elia, Le pitture della "Casa del Citarista", 1938); II (A. Maiuri, Le pitture della Casa di "M. Fabius Amandio", del "Sacerdos Amandus" e di "P. Cornelius Teges", 1938); III-IV (O. Elia, Le pitture del tempio di Iside, 1942); Roma, I (G. E. Rizzo, Le pitture della "Casa dei Grifi", 1936); II (G. E. Rizzo, Le pitture dell'Aula Isiaca di Caligola, 1936); III (G. E. Rizzo, Le pitture della "Casa di Livia", 1937); V (G. Bendinelli, Le pitture del Colombario di Villa Pamphili, 1941); Centuripae, I (G. E. Rizzo, Ritratti di età ellenistica, 1940). Fondamentali dal punto di vista filologico, gli studi di C. Robert nei Hallische Winckelmannsprogr., Nr. 16, 17, 18, 19, 21, 22, 23, 24 (1892 ss.); A. Della Seta, La genesi dello scorcio nell'arte greca, Roma 1907; E. Pfuhl, Malerei und Zeichnung, 3 voll., Monaco 1923; M. H. Swindler, Ancient Painting, New Haven 1929; G. E. Rizzo, La pittura ellenistico-romana, Milano 1929; P. Marconi, La Pittura dei Romani, Roma 1929; G. Méautis, Chefs-d'oeuvre de la peinture grecque, Parigi 1939; G. A. Mansuelli, Ricerche sulla pittura ellenistica, Bologna 1950; R. Bianchi Bandinelli, in Storicità dell'arte classica, Firenze, 2a ed., 1950: "Parrasio", 1938; "Illusionismo nel bassorilievo italico, 1933; Noterelle in margine ai problemi della pittura antica, 1940; Tradizione ellenistica e gusto romano nella pittura pompeiana, 1941; id., Hellenistic-Byzantine Miniatures of the Iliad, Olten 1955; id., in Archeologia e Cultura, Milano-Napoli 1961, parte III, pp. 328-444; G. Lippold, Antike Gemäldekopien, Monaco 1951; A. Rumpf, Malerei und Zeichnung, in Handbuch, VI, 4, Monaco 1953; A. Maiuri, La peinture romaine, Ginevra 1953; B. R. Brown, Ptolemaic Paintings and Mosaics and the Alexandrian style, Cambridge, Mass. 1957, e le recensioni di O. Brendell, in Amer. Journ. Archaeol., LXV, 1961, p. 211 ss., e di E. Simon, in Gnomon, 34, 1962, p. 191 ss.; M. Borda, La pittura romana, Milano 1958; M. Napoli, Pittura antica in Italia, Bergamo 1960; M. Lee Thompson, Programmatic Painting in Antiquity, in Marsyas, Studies in the History of Art, IX, 1960-61, p. 36 ss.; A. Frova, L'arte di Roma e del mondo romano, Torino 1961; P. Devambez, La pittura greca (L'arte nei secoli), Milano 1962. Per quanto affermato alla fine del nr. 6: C. Courtois, Les Vandales et l'Afrique, Parigi 1955, p. 315 ss.
Per la p. etrusca si veda bibl. s. v. etrusca, arte. Si ricordino inoltre: M. Pallottino, La peinture étrusque, Ginevra 1952; M. Cagiano de Azevedo, Punti oscuri della critica circa la pittura etrusca del VI e V sec. a. C., in Arch. Class., II, 1950,p. 59 ss.; id., saggio su alcuni pittori etruschi, in Studi Etr., XXVII, 1959, p. 19 ss. Si vedano inoltre i volumi della Serie I (pittura etrusca) dei Monumenti della pittura antica scoperti in Italia: Clusium, I (R. Bianchi Bandinelli, Le pitture delle tombe arcaiche, 1939); Tarquinii, I (P. Ducati, Le pitture delle Tombe delle Leonesse e dei Vasi dipinti, 1937); II (P. Romanelli, Le pitture della Tomba della "Caccia e pesca", 1938; III-IV (G. Becatti-F. Magi, Le pitture delle Tombe degli Auguri e del Pulcinella, 1955).
Prospettiva: E. Panofsky, La prospettiva come "forma simbolica", Amburgo 1924 (trad. it., Milano 1961); J. White, Perspective in Ancient Drawing and Painting, Londra 1956; id., Birth and Rebirth of Pictorial Space, Londra 1957; W. Lepik-Kopaczyïnska, Die optischen Proportionen i. d. antiken Kunst, in Klio, XXXVIII, 1959, p. 90 ss. (sulle "correzioni ottiche").
Tecnica e colori: si veda bibl. s. v. colore e inoltre: E. Berger, Die Maltechnik des Altertums, Monaco 1904; A. Eibner, Entwicklung u. Werkstoffe d. Wandmalerei, Monaco 1926; K. Herberts, 1000 Jahre Malerei und ihre Werkstoffe, Wuppertal 1938; R. Wehle, Antike, Freskmörtel, in Technische Mitteil. zur Malerei (Dresda), 54, 1940, pp. 41 ss.; S. Augusti, Colori antichi e colori moderni, Napoli 1948; M. Cagiano d'Azevedo, Il colore nell'antichità, in Aevum, XXVIII, 1954, p. 151 ss.; W. Klinkert, Bemerkungen zur Technik der pompejanischen Wanddekoration, in Röm. Mitt., LXIV, 1957, p. 111 ss. (ristampato in appendice a L. Curtius, Die Wandemalerei Pompejis, cit. sopra). W. Lepik-Kopaczynska, Le problème de l'encaustique, in Archaeologia, VIII, 1951, p. 77 ss.; id., Colores "floridi" und "austeri" in der antiken Malerei, in Jahrbuch, LXXIII, 1958, p. 79 ss.; E. Schiavi, Il sale della terra, Milano 1961, pp. 81 ss.; 100 ss.