Pittura
La definizione di "pittura federiciana" nasce con un'accezione estensiva, con riferimento a un contesto crono-topografico, o temperie culturale, talora estesi al di là di Federico II, inclusivo anche (con l'addizionale referente "svevo") del regno di Manfredi, senza che si sia tenuto conto di un diretto coinvolgimento (committenza) di questi sovrani nell'elaborazione delle diverse opere discusse. È così che nell'orbita della pittura "svevo-federiciana" è stato giudicato il ciclo pittorico con scene di torneo e di caccia disposto lungo le pareti della Sala del Consiglio del Palazzo Pubblico di S. Gimignano; sulla sola base del confronto tra le sue eleganti rappresentazioni di vita cortese e le miniature del celebre esemplare vaticano del De arte venandi cum avibus (Bologna, 1969, p. 42) se n'è infatti proposta una datazione al 1260, volendosene agganciare l'esecuzione alla vittoria dell'esercito ghibellino nella battaglia di Montaperti. Ma la critica successiva, pur riconoscendovi un'eco della pittura italomeridionale, ne ha piuttosto indicato i referenti nella miniatura fiorita a Napoli in età angioina (De Benedictis, 1986) e ne ha più convincentemente posticipato la data di esecuzione, circoscrivendola agli anni 1290-1291 (Campbell, 1997).
Secondo un analogo procedimento, è stato giudicato come testimonianza di pittura federiciana anche un lacerto di pittura murale superstite all'interno dell'odierna cattedrale di Atri. La scena raffigura l'Incontro dei tre vivi e dei tre morti, di cui risulta essere la più antica attestazione: tre cavalieri, nel corso di una battuta di caccia con paggi e cavalli al seguito, si arrestano sorpresi e intimoriti da una coppia di scheletri che si erge al loro cospetto, mentre un terzo scheletro, di cui resta solo un frammento, pare ancora giacere nella tomba. Il contenuto moralizzatore dell'immagine è ulteriormente chiarito dalla sovrastante iscrizione didattica che, per quanto ormai poco leggibile, si conclude con il monito: "quod sumus hoc eritis". L'eleganza che pervade la rappresentazione nella mimica dei protagonisti, nel loro abbigliamento à la page e nel paesaggio rabescato da ciuffi di fiori le è valso il confronto con la scena di dedica della Bibbia di Manfredi e con le miniature del De arte venandi. La genesi stessa del tema iconografico dell'Incontro dei tre vivi e dei tre morti, già approfonditamente studiata (Settis Frugoni, 1967), è stata imputata alla temperie culturale della corte federiciana, volendosene così suffragare una datazione alta agli anni Quaranta-Cinquanta del XIII sec. (Bologna, 1969, pp. 42-44). Il brano pittorico con l'Incontro dei tre vivi e dei tre morti è tuttavia ancor oggi materia di dibattito, sia per la cronologia sia per il connesso problema della committenza.
Se la valutazione "federiciana" dell'affresco e la sua conseguente datazione alta hanno trovato consensi negli anni seguenti (Leone de Castris, Arte di corte, 1986; Aceto, 1990; Falla Castelfranchi, 1995), rimane valida l'alternativa (a mio avviso più convincente) di una sua collocazione cronologica nella seconda metà del secolo. In questo ambito ne sono stati proposti sia gli anni iniziali (Bologna, 1962; Pace, 1986 e 1993), sia pure l'ottavo-nono decennio (Matthiae, 1969), sostenuto in seguito anche dall'analisi delle vicende costruttive dell'edificio, in conseguenza della sua radicale ristrutturazione a partire dal 1252 (Bozzoni, 1979; Bozzoni-Andaloro, 1991). Tale analisi è stata peraltro messa in dubbio da chi (Aceto, 1998 e 2000) ha ritenuto l'affresco preesistente e soltanto reintegrato (con il gruppo degli scheletri) al seguito delle vicende edilizie, postulandone una data intorno al 1238, in connessione (a dire il vero alquanto pretestuosa) con il soggiorno ad Atri di Isabella d'Inghilterra ‒ registrato dalla Chronica di Riccardo di San Germano. Se, comunque, resta indiscutibile il rapporto tra l'episodio di Atri e la miniatura sveva, in primis il De arte venandi, bisogna anche ricordare in proposito che questo codice costituisce un problema nel problema, poiché l'esemplare a noi giunto è notoriamente una copia, elaborata per conto di Manfredi, di un manoscritto federiciano perduto, la cui presunta fedeltà all'originale non è affatto indiscutibile (v. Miniatura).
Se le pitture di Atri sono state ritenute centrali per la supposta esistenza di una pittura "federiciana", va qui ribadito, al contrario, che non solo non ci è pervenuto alcun testo pittorico irrevocabilmente imputabile alla committenza federiciana, ma che le fonti stesse sono a questo proposito significativamente scarse. L'esiguità o comunque la marginalità di notizie relative a imprese pittoriche patrocinate da Federico II appare tanto più eloquente se paragonata alla dovizia di descrizioni dedicate agli apparati scultorei delle residenze federiciane e alle sue collezioni di gemme. Un unico riferimento alla possibile esistenza di pitture nel castello di Roseto si coglie nella raccomandazione di Federico II affinché il soffitto di questa residenza fosse riparato per arrestare le infiltrazioni di acqua che avrebbero potuto rovinare i dipinti (recentemente segnalato da Aceto, 2000; Historia diplomatica, V, p. 588). Resta d'altronde irrisolvibile il quesito se la tanto dibattuta scena di amministrazione della giustizia, situata in un palazzo napoletano, fosse stata realizzata in scultura (Kantorowicz, 1927), in mosaico o in pittura (Aceto, 2000). Infatti Francesco Pipino (1726), il cronista trecentesco che ne tramanda la descrizione, ne tace il medium (la fonte è riportata e discussa in Delle Donne, 1997). I dubbi circa un possibile diretto coinvolgimento di Federico II nella programmazione di cicli pittorici o musivi sono accresciuti dal suo sostanziale disinteresse nei confronti dell'edilizia di ambito ecclesiastico, sede privilegiata di tali manifestazioni artistiche.
La controversia circa l'esistenza o meno di una pittura federiciana strictu sensu, ovvero patrocinata dall'imperatore stesso o quantomeno a lui destinata, ha comunque tratto nuova linfa dal recentissimo rinvenimento a Bassano del Grappa di un lacerto pittorico con scene cortesi di straordinaria qualità. Il brano sviluppa una rappresentazione letta sia sul (corretto) piano simbolico che su quello (inverosimile) realistico. Assolutamente insolita è la scena di un monarca assiso in trono in atto di offrire una rosa a una regina che tiene sul pugno guantato un falchetto. In essa si è voluta riconoscere una consonanza con il repertorio figurativo del De arte venandi, segno che la cultura elaborata nelle corti imperiali del Regno meridionale circolava anche al di fuori dei suoi confini, mediante codici miniati o addirittura tramite gli stessi artisti itineranti al seguito del sovrano (Avagnina, 1995). Poiché d'altronde il luogo del rinvenimento, attualmente noto come Palazzo Finco, aveva fatto parte delle proprietà bassanesi di quei validi alleati di Federico II che furono i da Romano, si è voluto altresì agganciare la nascita del sorprendente dipinto con l'attesa della visita a Bassano di Federico II, costretto dagli eventi bellici a una lunga permanenza nella vicina Padova nel corso del 1239, di conseguenza ritenendosi che nella coppia di regnanti qui rappresentati siano individuabili proprio i ritratti di Federico stesso e della moglie Isabella. A conferma della matrice sveva del lacerto bassanese è stata infine addotta la sua radicale estraneità alla produzione figurativa del territorio circostante, evidenziata dal confronto con il ciclo pittorico di S. Zeno a Verona, caratterizzato anch'esso da un tema profano, di possibile referenza federiciana, e datato attorno al 1238 (Zuliani, 1992 e 1995).
Anche su questo straordinario lacerto pittorico si è immediatamente sviluppato un dibattito segnato da opinioni di segno opposto. Il quadro storico di segno "federiciano" e la sua conseguente datazione non sono stati accolti da chi ha osservato (Russo, 1995) come proprio la messa in causa dei da Romano ostacoli una data anteriore al 1250, perché solo a partire da allora questa famiglia iniziò gli acquisti immobiliari bassanesi (Morsoletto, 1992); d'altro canto non è parsa convincente nemmeno un'identificazione 'storica' della coppia regale raffigurata nel lacerto, sia per l'esplicita valenza allegorica dell'immagine, sia per la difformità della figura del sovrano dalla ritrattistica federiciana nota (Pace, Il "ritratto", 1995), suggerendosene conseguentemente una datazione alternativa all'iniziale terzo quarto del XIII sec., anche meglio compatibile con i dati stilistici dell'opera. Chi ha invece pienamente aderito alla tesi della destinazione federiciana delle pitture di Bassano del Grappa ha trovato in questa scoperta un ulteriore argomento a favore dell'esistenza di una pittura monumentale propriamente riferibile al contesto della corte imperiale (Aceto, 2000). Tale cultura figurativa si sarebbe irradiata dai centri di corte ai territori dove più forte era l'ascendenza imperiale, informando anche episodi figurativi non necessariamente dipendenti dal patrocinio svevo. Sarebbe il caso dei cicli agiografici dedicati alle ss. Cristina e Margherita, dipinti lungo le imposte della volta della chiesa di S. Maria della Croce a Casaranello (Lecce) e datati dopo la metà del XIII sec. (Leone de Castris, Arte di corte, 1986; Id., Pittura del Duecento, 1986; Falla Castelfranchi, 1995; Aceto, 2000), a dire il vero assai modesti e aggiornati solo su dettagli della moda contemporanea. A conferma del radicamento in ambito abruzzese della corrente pittorica sveva sono stati citati alcuni episodi figurativi: il poco noto lacerto, rinvenuto a Sulmona in un palazzo che era appartenuto a Pasquale Caracciolo, unico resto di un probabile ciclo profano, inizialmente riferito al periodo angioino (Gabrielli, 1934) e adesso ricondotto nell'orbita sveva (Colangelo, 1995; Mattiocco, 1995; Aceto, 1998); oppure i più celebri affreschi del S. Pellegrino di Bominaco (L'Aquila), datati al 1263; o anche quelli di S. Maria ad Criptas presso Fossa (L'Aquila), degli anni Ottanta, per i quali la scena dell'Incontro di Atri, secondo una prospettiva "federiciana", avrebbe costituito solo un incunabolo (Aceto, 2000). Ma questi stessi esempi sono stati viceversa chiamati a testimoniare la precoce circolazione in Abruzzo di un fare pittorico aggiornato sulle novità transalpine senza che ciò implicasse necessariamente una committenza eccezionalmente innovativa (Andaloro, in Bozzoni-Andaloro, 1991).
È evidente, in conclusione, che l'interpretazione storica della pittura che si vuole "(svevo)-federiciana", come di qualsiasi altro fenomeno figurativo, non può sostenersi esclusivamente su soggettive valutazioni di stile, ma deve fondarsi su quei più solidi argomenti di contesto e di committenza che, nel caso in questione, non trovano in nessun caso serio e indiscutibile supporto. Si corre altrimenti il rischio di alimentare miti che non hanno fondamento nella storia.
fonti e bibliografia
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