Piu grande di un uomo, ma non ancora dio. Immagini teologiche e presupposti politici del culto imperiale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il culto imperiale è innanzitutto un atto di devozione politica che non va confuso con quello tributato alle divinità vere e proprie. D’altra parte un imperatore è divus soltanto dopo la morte; in vita egli è semplicemente augustus, un appellativo legato ad auctoritas e fortemente connotato in senso sacrale. Fu questo titolo che permise ad Ottaviano, insieme all’assunzione del pontificato massimo e ad un complesso programma di costruzione del proprio culto personale, di legittimare il nuovo potere attraverso il ricorso alla religione tradizionale.
La grande novità della religione romana in età imperiale è senza dubbio il culto tributato alla persona dell’imperatore, un culto però sostanzialmente diverso da quello reso agli dèi. La religione romana infatti, tranne rari casi, non arrivò mai a considerare l’imperatore vivente come un dio. Gli storici moderni, a partire da Simon Price (Rituals and Power. The Roman Imperial Cult in Asia Minor, Cambridge University Press, 1984), hanno mostrato che lo statuto del principe è ambiguo, a metà strada tra l’umano e il divino, simile per certi versi a quello del santo cristiano. La divinizzazione dell’imperatore infatti può avvenire solamente dopo la morte, attraverso una procedura che richiede l’autorizzazione del senato e l’approvazione del nuovo sovrano.
Caligola e Domiziano, che giunsero a pretendere un culto divino per la propria persona prima della morte, sono delle eccezioni che confermano la regola. Fintanto che l’imperatore è in vita è al suo genius (una sorta di spirito tutelare che nasce con l’individuo e lo accompagna durante il corso dell’intera esistenza) o al suo numen (l’espressione divina della sua volontà) che sono offerti sacrifici.
L’aggettivo che meglio si presta a qualificare la persona del principe è augustus, titolo che il senato tributa a Ottaviano nel 27 a.C. e che viene poi ereditato dai suoi successori. Il termine, tratto dal linguaggio degli àuguri, che deriva come auctoritas e augurium dal verbo augeo, “accrescere”, indica un individuo eccezionalmente dotato, in quanto oggetto di una sorta di “accrescimento” operato dalla divinità, e dunque inevitabilmente destinato al successo. In origine però augustus doveva essere un aggettivo qualificativo riferito a luoghi, più che a persone.
Nel De verborum significatu di Festo, augustus “è un luogo sancito (sanctus) dal moto degli uccelli (aves); detto così perché da loro indicato con un segno (significatus)” (Paolo Diacono, Epitome di Festo, De verborum significatu 2 ed. W. M. Lindsay, Teubner, Stuttgart, 1997, trad. dell’autore). Un segno che equivale a una vera e propria consacrazione, se Servio, il noto commentatore di Virgilio, parafrasa l’espressione augusta moenia (“mura auguste”) in Eneide, VII, 133 con augurio consecrata (“consacrate mediante augurium”). Insomma augustus, come suggerisce il rapporto con auctoritas, augeo ecc., è qualcosa o qualcuno che è stato “potenziato” rispetto al suo valore naturale da un intervento dall’alto, e al quale conseguentemente viene riconosciuto uno statuto speciale. Ciò che in effetti si riconosce a Ottaviano, a partire dal 27 a.C. con il conferimento dell’appellativo di Augustus, è il possesso di una auctoritas di natura sovrannaturale, che gli storici moderni hanno dimostrato essere la vera chiave del dominio dei principes.
Svetonio
Divus Augustus
De vita Cesarum
In seguito assunse il nome di Caio Cesare, e poi il soprannome di Augusto. Il primo, in base al testamento del prozio, l’altro perché, mentre alcuni senatori erano del parere di attribuirgli quello di Romolo, quasi fosse stato il secondo fondatore di Roma, prevalse la proposta di Munazio Planco di chiamarlo invece Augusto, non tanto per attribuirgli un nome che non era mai stato usato prima, quanto per il significato onorifico di quella parola.
Infatti si chiamano “augusti” i luoghi resi sacri dalla religione, e in cui si prendono gli auguri per consacrare qualcosa, sia che questa parola derivi da auctus, [ingrandito] sia che derivi da avium gestus [movimento degli uccelli] o da gustus [modo di cibarsi] come ci ricorda questo verso di Ennio: “Dopo che l’inclita Roma fu eretta con presagio augusto”.
Svetonio, Vite dei Cesari, trad. it. F. Dessì, Milano, BUR, 1982
Non a caso la grande rivoluzione politica operata da Augusto viene definita da Santo Mazzarino come “lo stato dell’auctoritas” (L’impero romano, Laterza, 1993). Le origini del culto imperiale sono legate in modo viscerale al possesso di poteri e onori che resero ben presto la persona del principe non assimilabile a nessuna delle figure magistratuali tradizionali di età repubblicana. Un simile potere, quanto più appariva incompatibile con la tradizione repubblicana, tanto più necessitava di legittimazione. Una legittimazione che a Roma, dove “il sacro primeggia sul politico, lo precede e lo fonda, tracciando la forma in cui il politico si dischiude” (J. Scheid, La religione a Roma, Laterza, 2004, p. 58), non poteva che fondarsi sui principi della religione tradizionale.
Il processo ha inizio con Gaio Giulio Cesare che già in vita è ricoperto di onori tali che possono far dubitare della sua natura umana: la sua clementia diviene oggetto di culto e una sua statua recante l’iscrizione deo invicto viene posta nel tempio di Quirino. Molto probabilmente Cesare non è ancora morto quando Marco Antonio viene nominato suo sacerdote personale. Ma d’altra parte, come i suoi successori, Cesare è divinizzato soltanto dopo la morte. Ottaviano, che è figlio adottivo di Cesare, diviene dunque divi filius, figlio di un dio. Ma egli è più cauto, più astuto e audace di Cesare, perché pur presentandosi come restauratore delle tradizioni avite riesce a ottenere, e soprattutto a mantenere, “un cumulo assolutamente non repubblicano di magistrature repubblicane” (W. Liebeschütz, La religione romana, in Storia di Roma II/3, Einaudi, 1992. p. 242), in cui l’imperium proconsulare maius et infinitum, un comando proconsolare spazialmente illimitato ed evidentemente superiore a quello di tutti gli altri governatori provinciali, si associa alla tribunicia potestas, caratteristica del tribuno della plebe, ma rinnovata annualmente, e dunque di fatto perpetua. Ma soprattutto egli possiede, rispetto ai suoi colleghi e ai suoi predecessori, l’auctoritas che gli deriva dall’essere augustus, per cui qualunque altro magistrato, pur disponendo per un tempo limitato del suo stesso potere (come console o come tribuno della plebe nella città di Roma, come governatore in una provincia), resta pur sempre a lui “inferiore” in auctoritas ed è pertanto costretto a cedere ai suoi ordini.
Eppure la sua carriera politica può dirsi definitivamente compiuta solo nel 12 a.C., quando, in seguito alla morte di Marco Emilio Lepido, egli ha finalmente libero accesso al pontificato massimo, il sacerdozio più importante e significativo della religione romana. Già in precedenza egli è entrato a far parte del collegio degli àuguri, è membro dei feziali e dei quindecimviri sacris faciundis. Così quando diviene pontifex maximus Augusto diviene signore assoluto del religioso e del politico, ricomponendo nella sua persona quella primordiale unità del potere che cinque secoli prima è stata una prerogativa dei re e che molti secoli più tardi sarebbe stato aspirazione dei nuovi signori di Roma, i vescovi della Chiesa romana. La conseguenza più notevole di un simile accentramento di poteri è il drastico ridimensionamento del ruolo dei magistrati e dei sacerdoti. Sebbene le istituzioni tradizionali restino in vita, dando l’impressione che nulla formalmente sia cambiato, sia gli uni che gli altri perdono di fatto la loro autonomia, scadendo al rango di semplici assistenti o collaboratori del principe nell’esercizio delle sue funzioni.
Cesare Ottaviano Augusto
Res gestae divi Augusti, cap. XXXIV
Dopo che ebbi messo termine alle guerre civili godendo di pieni poteri per il consenso di tutti gli uomini, nel sesto e nel settimo consolato trasferii la repubblica della mia potestà all’arbitrio del senato e del popolo romano. Per questo mio merito, su decreto del senato, fui chiamato Augusto, gli stipiti della mia casa furono rivestiti pubblicamente dall’oro e una corona civica fu affissa sopra la mia porta, e nella curia Giulia fu apposto uno scudo d’oro con una iscrizione dove si proclamava che il senato e il popolo romano mi conferivano quello scudo a motivo della mia virtù, della mia clemenza, della mia giustizia e della mia pietà. Dopo quel tempo fui superiore a tutti in auctoritas, ma di potestas non ebbi più degli altri che mi furono colleghi in ciascuna magistratura.
Augusto, Res gestae divi Augusti, trad. it. di A. Fraschetti, Roma-Bari, Laterza, 1998
Una delle chiavi adottate da Augusto nel fondare il culto della propria persona è la riorganizzazione religiosa dello stesso spazio urbano. Una notizia fornitaci da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., 3, 66), ci informa che in età augustea la città è divisa in 14 regioni e 265 vici, indicati nel testo come compita Larum, ossia “crocicchi dei Lari”, per via del culto in onore dei Lari celebrato presso i diversi crocicchi della città durante i Compitalia di gennaio.
Ora, l’esatta natura di questi Lari, definiti di volta in volta nelle nostre fonti con l’appellativo Praestites, Compitalicii o viales, costituiva probabilmente già un rebus per gli stessi Romani (è indicativa in questo senso l’incertezza di un erudito come Varrone). Sembra certo però che questi Lari vengono compresi all’epoca di Augusto come delle divinità attinenti al mondo dei morti, come attesta una notizia risalente al solito Festo, secondo cui “ai Compitalia si sospendevano ai crocicchi palle e immagini maschili e femminili, poiché credevano che questo fosse il giorno di festa degli dèi inferi che chiamano Lari. A questi erano offerte tante palle quante erano le teste degli schiavi, tante immagini quante erano quelle dei liberi, affinché si astenessero dai vivi e si accontentassero di queste palle e simulacri” (Paolo Diacono, Epitome di Festo, De verborum significatu 273 ed. W. M. Lindsay, Teubner, Stuttgart, 1997, trad. dell’autore). Ma non è tutto: Macrobio nei Saturnalia (1, 7, 34-35) riferisce che durante il regno di Tarquinio il Superbo, in seguito a un responso di Apollo, era invalsa la pratica di sacrificare dei fanciulli in carne e ossa ai Lari dei crocicchi. Insomma, a proposito del culto dei Lari la tradizione presenta anche risvolti inquietanti e assai poco irenici, diversamente da quanto traspare dalla documentazione di età augustea.
A partire dal 12 a.C. infatti questi Lari venerati nei crocicchi cambiano improvvisamente nome, divenendo Lares Augusti, i Lari di Augusto; ma soprattutto accanto al loro culto fa la sua comparsa il genius del principe. Questa sostituzione risponde a un preciso programma politico e religioso. Se infatti i Lares Augusti devono essere identificati con i morti della casa di Augusto e più probabilmente con gli antenati eroizzati di questa famiglia, allora il principe, sostituendo il culto di Lari anonimi e potenzialmente pericolosi con quello dei propri Lari e del proprio genius, intendeva impiantare il culto della propria famiglia nei vari vici della città, trasformandolo dunque in culto pubblico e divenendo in tal modo sovrano assoluto dello spazio cittadino. Parallelamente, dopo l’assunzione del pontificato massimo nel 12 a.C., invece di trasferirsi nella domus publica, dove risiedeva tradizionalmente il capo dei pontefici, Augusto in ottemperanza al suo nuovo impegno sacerdotale apre al pubblico una parte della propria residenza sul Campidoglio, facendovi erigere una statua e un’ara in onore di Vesta, dea del focolare comune, così da rendere privato un culto per sua natura eminentemente pubblico e potersi dire, come riferisce il poeta Ovidio, unico tra i Romani, parente (cognatus) della dea.
Ovidio
Fasti, Libro III, vv. 417-426 Tutti voi presenti che venerate il santuario della pura Vesta,
rendete grazia e deponete incenso sul focolare iliaco.
Agli innumerevoli titoli di Cesare, che egli ha preferito ottenere
per i suoi meriti, si aggiunge l’onore pontificale.
L’eterna divinità di Cesare presiede agli eterni fuochi;
vedi così congiunte le due garanzie dell’impero.
Dèi dell’antica Troia, bottino ben degno del suo portatore,
Enea, che carico di esso poté salvarsi dai nemici,
v’è un sacerdote della sua stirpe che si cura di un nume
Parente: O Vesta proteggi il capo del tuo congiunto.
Ovidio, Fastorum libri, trad. it. L. Canali, Milano, BUR, 1998
Il successo di questa “rivoluzione” che non è solo politica e religiosa, ma anche culturale e sociale, è davvero straordinario. Gli onori, i titoli e le manifestazioni di devozione nei confronti del principe sorgono un po’ ovunque spontaneamente a Roma, in Italia e nelle province, già sotto il principato di Augusto, per poi dilagare dopo la morte e la successiva divinizzazione di questo. I suoi successori, in particolare i Flavi e gli Antonini, sono spesso costretti a reagire nel rispetto dei confini teologici della religione romana contro gli eccessi di un tale fenomeno, che però sbaglieremmo a considerare come espressione di semplice piaggeria.
L’istituzione di un culto imperiale è senz’altro un modo per le élite cittadine di “avvicinarsi” a Roma, di acquisire una certa visibilità politica, di emergere, oggi diremmo, sul piano internazionale (spesso le cariche sacerdotali, che richiedevano per le spese cultuali ingenti somme di denaro, ed erano dunque perlopiù appannaggio dei notabili, consentivano a chi le ricopriva di portarsi direttamente all’attenzione dell’imperatore). Ma le ragioni erano ben altre. Le nuove festività augustee, officiate annualmente per commemorare anniversari riguardanti date particolarmente rilevanti nella vita di Augusto e dei membri della sua famiglia, si risolvono per lo più in un pubblico ringraziamento agli dèi per aver assistito il princeps nei momenti determinanti della sua ascesa.
I partecipanti intendono dimostrare in questo modo la propria lealtà e la propria fiducia nei confronti del sovrano, ma soprattutto il riconoscimento della straordinaria importanza da lui assunta nella nuova storia di Roma. Ciò spiega perché molti interpreti moderni abbiano preferito considerare questo genere di pratiche cultuali, sono parole di Arnaldo Momigliano, “più come espressione di devozione politica che di emozione religiosa” (Saggi di storia della religione romana, Morcelliana, 1988, p. 88). In realtà, come dimostra la storia dei totalitarismi del Novecento, devozione politica ed emozione religiosa possono confondersi fino a dissolversi l’una nell’altra e sembrare la stessa cosa. Come scrisse Clifford Geertz, citato dallo stesso Momigliano, “la gravità dell’alta politica e la solennità dell’alto culto scaturiscono da impulsi più simili di quanto non appaia a prima vista”.