RAMPONI, Placido Francesco
RAMPONI, Placido Francesco. – Nacque a Firenze, nel popolo di S. Frediano, il 5 ottobre 1672 da Iacopo di Giorgio, geometra, e da Caterina di Bernardino Parmini, in una casa «del Sacro Eremo di Camaldoli, con orto e corte, et altre sue appartenenze, posta in Firenze nel Popolo di San Frediano sopra la Piazza Piattellina» (Archivio di Stato di Firenze, Arroti dell’anno 1716, Q. S. Spirto 2/do).
Proveniente da una famiglia di tessitori di panni e lane, probabilmente oriunda di Cesena, il padre aveva abbandonato l’ufficio familiare per dedicarsi alla pratica ingegneristica nell’amministrazione pubblica del Granducato, subentrando il 28 agosto 1672 alla carica di ministro d’Arno, dopo avere servito per alcuni anni «in varie occasioni di ingegnere lo Scrittoio delle Possessioni in levar piante, a visitare a diversi ripari di fiumi e fabbriche e […] ai lavori di Vagaloggia» (Archivio di Stato di Firenze, Capitani di Parte (nn. neri), f. 1489, cc. 6, 116). Il nome di Iacopo figura inoltre in relazione all’Accademia Geometrica, suggerendo in tal modo l’ambiente nel quale Ramponi deve essersi formato: un ambiente composto da una media burocrazia tecnica che annoverava ingegneri, capomaestri e aiuti le cui competenze scientifico-matematiche, associate il più delle volte alla perizia nei complessi lavori di sistemazione fluviale, si erano progressivamente innalzate grazie alla diffusione degli insegnamenti galileiani.
Intorno al matematico Vincenzo Viviani era venuta consolidandosi, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Seicento, una cerchia di giovani, tra i quali Ramponi padre, capaci di impiegare la loro perizia tecnica e l’elevata formazione professionale al servizio delle necessità politico-amministrative relative alla gestione territoriale del Granducato. La famiglia vantava, peraltro, anche un altro ‘ingegnere delle acque’, Felice Innocenzio, il quale, tra il 1703 e il 1755, anno della morte, si occupò delle operazioni di canalizzazione dell’Arno nel Valdarno superiore.
Questi elementi, nonché il rapporto fiduciario con il granduca Cosimo III, suggerito da talune fonti, sembrano indicare che Ramponi, contrariamente a quanto ritenuto nei pochi studi a lui dedicati ove egli è definito pittore o comunque artista, fosse un ‘capomaestro’ al servizio delle officine granducali, ovvero titolare di una carica concessa per grazia, che sottendeva qualifiche professionali abbastanza eterogenee, tali da comprendere quelle dell’architetto, dell’ingegnere, nonché quelle dello scalpellino, del muratore e dell’intagliatore. Questa ipotesi sembra essere confermata da Francesco Saverio Baldinucci (1975), il quale definisce appunto Ramponi un «ingegnere» (p. 377). Tali figure professionali erano in contatto diretto e sovente in rapporti di collaborazione con gli artisti al servizio della corte medicea; è questo il caso di Giuliano Ciaccheri (1644-1705), esperto di ingegneria idraulica e compagno di studi di Iacopo Ramponi sotto la direzione di Viviani, il quale collaborò con il pittore Francesco Corallo alla progettazione delle decorazioni per la cappella della villa medicea di Lappeggi, fornendo numerosi disegni.
Anche Ramponi instaurò una proficua collaborazione con il più rinomato scultore e architetto di corte, nonché direttore della granducale Galleria dei lavori: Giovanni Battista Foggini (1652-1725), dal quale probabilmente apprese i rudimenti del disegno anatomico, secondo quanto dimostrano i disegni che probabilmente corredavano il Racconto del viaggio composto da Ramponi su richiesta del granduca.
Nel 1689 Cosimo III affidò a Foggini la progettazione e la realizzazione del mausoleo che avrebbe dovuto ospitare il sarcofago contenente le spoglie di Francesco Saverio, conservate presso la chiesa gesuitica del Bom Jesus, situata nell’enclave portoghese di Goa in India. Nel 1697, trascorsi ormai due anni dal completamento dei lavori, periodo durante il quale il mausoleo era stato esposto nella Cappella dei principi in San Lorenzo, Cosimo III affidò a Ramponi e a Simone Fanciullacci, lavorante di pietre dure, il compito di condurre i marmi del sepolcro sino a quelle remote regioni.
Come è noto, il corpo del santo, dopo il decesso avvenuto nell’isola di Sanchan nella Cina meridionale il 27 novembre 1552, era stato trasferito a Goa presso la casa professa dei gesuiti. Due anni dopo la fastosa canonizzazione, proclamata da Gregorio XV nel 1622 insieme con quella di Ignazio de Loyola, Teresa de Avila e Filippo Neri, il corpo, o meglio ciò che ne rimaneva a causa delle continua richiesta di reliquie, fu traslato nella chiesa del Bom Jesus ed esposto in un’urna d’argento, opera di maestranze locali fortemente influenzate da artisti italiani presenti a Goa, forse coadiutori temporali attivi nell’ambito della Compagnia di Gesù. La preziosa reliquia fu a tal punto oggetto di venerazione che, tra la fine del 1636 e il 1637, fu forgiato oltre un quintale e mezzo di argento per realizzare un fastoso sarcofago, cesellato da maestranze locali con storie della vita del santo. L’opera, posta su di un semplice piedistallo, era il frutto dei buoni auspici del gesuita Marcello Mastrilli che si era procacciato le risorse economiche necessarie, prima della partenza per il Giappone, ove sarebbe morto martire in quello stesso anno. Secondo quanto narra un’importante fonte per lo studio della presenza gesuitica in Asia meridionale, Oriente conquistado, pubblicata da Francisco de Sousa nel 1710, Cosimo III avrebbe ricevuto in dono dal padre Francesco Sarmento, procuratore generale della provincia gesuitica di Goa, un cuscino appartenuto a Francesco (F. de Sousa, Oriente conquistado, I, Lisboa 1710, p. 666); tale atto avrebbe determinato nel granduca la decisione di incaricare la manifattura medicea della realizzazione di un grandioso supporto architettonico sul quale potesse essere convenientemente appoggiata l’urna contenente le venerate spoglie del santo.
Foggini diede inizio all’esecuzione del monumento nel febbraio del 1689, secondo quanto si apprende da una lettera conservata presso la Biblioteca Corsiniana di Roma, nella quale Cosimo III manifesta al suo segretario il desiderio di assistere all’inizio dei lavori che dovevano essere condotti, forse per prudenza politica, in tutta segretezza. Foggini, nella realizzazione di un’impresa che è nel contempo espressione della pietà religiosa e delle ambizioni coloniali di Cosimo III, doveva tenere conto del sarcofago preesistente e inglobarlo nella nuova composizione. Non è un caso dunque che i lavori di assemblaggio del monumento funebre e della sua posa in opera vengano affidati proprio a Ramponi, in virtù delle sue competenze ingegneristiche. Claudia Conforti (1991, p. 116) ha giustamente visto negli apparati effimeri allestiti in palazzo Pitti per l’ostensione delle spoglie dei granduchi, così come nei catafalchi innalzati nella crociera della chiesa palatina di S. Lorenzo per le esequie granducali, le più dirette fonti di ispirazione per la realizzazione del progetto. Al contrario, secondo la studiosa, sarebbe poco plausibile l’ipotesi avanzata da Klaus Lankheit (1962, p. 109) in base alla quale il monumento si ispirerebbe al modello dello stupa buddistico o dello sikkara brahamanico, strutture architettoniche di profonda valenza simbolica e rituale che sarebbero state suggerite al granduca e a Foggini da missionari gesuiti in visita a corte (Conforti, 1991, p. 117). Il catafalco lapideo, decorato con bassorilievi bronzei raffiguranti storie della vita di Francesco Saverio sembra piuttosto un immenso reliquiario o addirittura uno stipo, del genere di quelli che, numerosi, Foggini progettò per le botteghe granducali. La struttura architettonica del monumento è a tre piani sovrapposti. La zona basamentale, di forma bombata sui quattro lati, è decorata con teste cherubiche, cartigli, volute e festoni scolpiti in marmo bianco con giallo ammonitico e marmo rosso di Francia. Essa sostiene un largo piano d’appoggio in marmo di Carrara. Il secondo registro, a forma di parallelepipedo, rivestito di granito dell’Elba su una doppia zoccolatura di bardiglio e giallo di Siena, è ornato da quattro rilievi in bronzo che, per le loro dimensioni (cm 75×150), sembrano quasi paliotti d’altare; quelli dei lati maggiori sono affiancati da pannelli con mazzi di gigli a rilievo, eseguiti nella tecnica del rilievo musivo, caratteristica della manifattura medicea.
Contrariamente a quanto affermato da tutti gli studiosi che ne hanno scritto, non sono presenti nel monumento materiali silicei; anche se le tipologie litiche impiegate sono varie, esse sono comunque riconducibili alla categoria dei mischi nobili, come lo stesso Foggini le definisce in una breve nota autobiografica (Lankheit, 1962, p. 232). L’unica pietra davvero rara è l’alabastro orientale che, con taglio a cabochon, riempie i cartigli bronzei sorretti sui quattro lati del mausoleo da coppie di angeli. Gli inserti in alabastro sono ulteriormente impreziositi da un emblema intagliato a ‘stiacciato’ al centro della superficie convessa. Ciascun emblema si riferisce alla storia narrata nel pannello bronzeo sottostante, come pure all’iscrizione in caratteri dorati a rilievo su un nastro bronzeo posto sopra ciascun cartiglio (si veda il resoconto dell’intervento di restauro del monumento eseguito nel 1998 dall’Opificio delle pietre dure di Firenze). Non è possibile, allo stato attuale degli studi, stabilire con certezza se la scelta di utilizzare materiali lapidei non particolarmente pregiati, nonostante l’opificio mediceo fosse ben provvisto di pietre preziose, sia stata determinata dalle ristrettezze economiche di Foggini oppure da esigenze di prudenza politica e sobrietà religiosa.
Appare comunque infondata l’ipotesi a suo tempo avanzata da Antonio Zobi (1853, pp. 249 s.) secondo la quale Ramponi e Fanciullacci avrebbero introdotto in India il commesso di pietre dure e che si possa rinvenire traccia di un loro intervento nell’ornamentazione del Taj-Mahal, la cui edificazione venne completata nel 1652. Nonostante l’evidente sfasatura cronologica, alcuni autori, in tempi recenti, si sono espressi a favore di tale ipotesi oppure l’hanno diversamente modulata, ma comunque sempre in senso unidirezionale. Un’interessante ipotesi, che ribalta completamente il carattere unidirezionale della diffusione della tecnica del commesso di pietre dure, è stata offerta in tempi recentissimi da Claudia Conforti (2013). La studiosa postula uno sviluppo parallelo di quella tecnica in India, del quale, consapevolmente, Cosimo III tenne conto nel commissionare un manufatto destinato alla ‘Roma do Oriente’, nel quale sia assente proprio quella raffinata specialità per la quale l’opificio granducale era famoso in tutta Europa, ma che certo non avrebbe suscitato particolare sorpresa in un Paese ove quella tecnica aveva raggiunto livelli di consumata maestria.
La lavorazione del monumento per Francesco Saverio era già iniziata nel febbraio del 1689, ovvero almeno un anno prima della data sinora nota (Lankheit, 1962, doc. 467). La fusione dei rilievi in bronzo fu piuttosto lunga, continuamente interrotta dalle già citate difficoltà economiche di Foggini. Nel 1695 il monumento terminato fu esposto alla pubblica vista nella Cappella dei Principi in S. Lorenzo. La notizia si ricava dal diario di Valentino Calzolai, abate vallombrosano che il 21 settembre si era recato a Firenze ove aveva potuto ammirare l’opera.
Fu lo stesso Cosimo III a informare, con una lettera del 31 ottobre 1697, Francesco Ginori, residente a Cadice in qualità di console presso l’Impero portoghese, di avere fatto caricare il mausoleo, disassemblato e imballato in 45 casse, sulla nave del comandante Prasca, salpata dal porto di Livorno e diretta appunto a Cadice. La posa in opera del monumento era affidata a Ramponi e Fanciullacci, i quali erano affidati alle cure di Ginori, affinché questi li istruisse sui pericoli del viaggio e si adoperasse nell’assicurare loro l’imbarco «sopra il legno migliore e più poderoso tra quelli che a primo tempo partiranno per l’India» (Lankheit, 1962, pp. 304 s.). Cosimo III affidò a Ginori l’ulteriore delicato compito di assicurarsi che, al momento dell’imbarco, fossero presenti anche i dieci colli contenenti «marmi diversi» destinati al padre Salvatore Gallo, vicario generale dei teatini a Goa. La fitta corrispondenza tra Cosimo e il console Ginori nei mesi successivi ci fornisce informazioni dettagliate circa i preparativi per l’imbarco dei marmi sulla nave che, salpando da Lisbona alla fine di marzo del 1698, avrebbe condotto il prezioso carico nell’enclave portoghese di Goa. La corrispondenza tra il granduca e Salvatore Gallo, presso i quali alloggiarono Ramponi e Fanciullacci, sembra invece suggerire, secondo l’attenta lettura che ne fa Carla Sodini (1996, pp. 59-63), il fatto che i gesuiti non avessero pienamente gradito l’iniziativa di Cosimo, preferendo forse rimanere i detentori esclusivi del monopolio sul culto di Francesco Saverio.
Ramponi è autore di un Racconto del viaggio dell’Indie orientali e occidentali, compilato su richiesta dello stesso Cosimo III il quale deve avergli anche fornito spunti in ordine ai contenuti da sviluppare perché Ramponi dedica solo pochi cenni al resoconto dei lavori di assemblaggio del monumento funebre, mentre si sofferma sulla descrizione minuziosa della flora e della fauna dei luoghi visitati. In particolare, egli ha il compito di «provvedere semi e piante di frutti e fiori, animali e varie sorti di riso» (c. 33) che consegnò al granduca a Pisa verso la fine di febbraio del 1699, insieme con il resoconto dettagliato del viaggio attraverso le Indie Orientali e Occidentali. L’interesse di Cosimo III per i frutti e le piante esotiche potrebbe aver avuto origine nel 1681 allorché, ammalatosi di bile, viene costretto dal suo medico, Francesco Redi, a sottoporsi a una rigida dieta ‘pitagorica’, a base di sola frutta e legumi. Il contributo di Ramponi all’arricchimento della collezione granducale di piante rare alla Topaia o a Boboli, ove probabilmente nel ‘giardino degli ananassi’ trovarono dimora alcuni degli esemplari così minutamente descritti nel Racconto, non è stato ancora preso in considerazione dagli studiosi a causa delle scarse e inconsistenti ricerche, salvo alcune preziose eccezioni, intorno a questo personaggio. Non è escluso peraltro, che molti di questi esemplari siano stati affidati all’arte pittorica di Bartolomeo Bimbi (1648-1730), giacché, secondo quanto narra Francesco Saverio Baldinucci (1975), non vi era «frutta forestiera e stravagante che Sua Altezza Reale non la mandasse subito a farne il ritratto al Bimbi per collocarsi poi in detto casino, col dovuto e destinato ordine, al luogo suo» (p. 247).
Le vicende correlate al destino del diario di Ramponi non sono meno avvincenti del suo contenuto. Il manoscritto originale fu acquistato, in circostanze ignote, da sir Bruce Ingram, l’editore della rivista The illustrated London news, il quale ritenne opportuno, a un anno dall’indipendenza di Goa dal dominio coloniale portoghese, darne alle stampe una traduzione parziale, pubblicata sulla medesima rivista l’11 settembre 1954 (pp. 416 s.) e corredata dalla riproduzione dei disegni di Ramponi che arricchivano il manoscritto. I beni di sir Bruce vennero posti in vendita dagli eredi alla morte di questi e il manoscritto entrò nel mercato antiquario facendo perdere così le sue tracce. Alla traduzione in inglese fece seguito, due anni dopo, una traduzione in portoghese, condotta da Carlos de Azevedo (1956) sulla base del manoscritto originale, anch’essa corredata da alcune riproduzioni dei disegni. Il manoscritto ebbe una, seppur limitata, circolazione a Firenze, perché lo storico dell’arte e sinologo George Loehr, ivi residente negli anni Settanta, ne mostrò una fotocopia a Luisa Monaci, autrice di un importante catalogo dei disegni di Giovan Battista Foggini. Nel Settecento venne realizzata una trascrizione del Racconto, oggi conservata presso l’Archivio di Stato di Firenze e della quale Carla Sodini ha pubblicato una trascrizione in epoca recente (1996).
Stando al racconto di Ramponi, i lavori di posa in opera del monumento saveriano furono di breve durata, avendo avuto inizio il 14 ottobre ed essendosi conclusi l’8 novembre. Ramponi si recò quotidianamente alla chiesa gesuitica del Bom Jesus, occupandosi di dirigere le maestranze locali. Il 2 dicembre, giorno della festività di san Francesco Saverio, il monumento fu ammirato da tutta la cristianità locale in occasione di una solenne celebrazione.
Testimonianza del rientro a Firenze di Ramponi è fornita da Francesco Bonazini: «Ricordo come il giorno 12 di febbraio 1699 ritornò dal Congo in Firenze Placido Maria (sic) Ramponi, il quale era colà andato di ordine del Ser.mo Granduca per erigere nella città di Goa l’altare già fatto da lui fabbricare qui in Firenze nella Cappella di S. Lorenzo, nella Cappella di S. Francesco Saverio, non so se il predetto Principe lo facesse per devozione o per urbanità» (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl. XXV.42: Bisdosso overo Diario di Francesco Bonazini, I, p. 364).
Non si hanno successivamente notizie di Ramponi, né è nota la data della sua morte, occorsa comunque dopo il 1730.
Il Racconto del viaggio dell’Indie orientali e occidentali di Placido Ramponi fiorentino IHS Mra 1700 è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, Acquisti e doni, 307, fasc. 2, di carte 56.
Fonti e Bibl.: Firenze, Archivio dell’Opera di S. Maria del Fiore, Registro dei battezzati, n. 1063 per gli anni 1673-68: Indice-Maschi dal 1° gen. 1670 all’ultimo ott. 1679; A. Zobi, Notizie storiche sull’origine e progressi dei lavori di commesso in pietre dure che si eseguiscono nell’I. e R. stabilimento di Firenze, Firenze 1853, pp. 249 s.; The people and customs of Goa as described in a hitherto unpublished seventeenth-century manuscript, in The illustrated London news, 11 settembre 1954, pp. 416 s.; C. de Azevedo, Um artista italiano em Goa. Plácido Francesco Ramponi e o túmulo de S Francisco Xavier, n. speciale della rivista Garcia de Orta, 1956, 4, pp. 277, 280, 284, 286 s., 291, 293, 315; K. Lankheit, Florentinische Barockplastik, Die Kunst am Hofe der letzten Medici, 1670-1743, München 1962, pp. 103, 104, 108, 235, 304 s.; G. Finazzo, Racconto del viaggio di P. R. fiorentino nelle Indie Orientali, Africa, in Rivista italiana di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, XXIII (1968), pp. 229 s., 233; F.S. Baldinucci, Vita dello scultore e architetto Giovanni Battista Foggini, in Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII, a cura di A. Matteoli, Roma 1975, p. 378; L. Monaci, Disegni di Giovan Battista Foggini (1652-1725), Firenze 1977, p. 49; C. Conforti, Cosimo III de’ Medici patrono d’arte a Goa: la tomba di s. Francesco Saverio di Giovan Battista Foggini, in Lo specchio del principe. Mecenatismi paralleli: Medici e Moghul, a cura di J. Dalu, Roma 1991, pp. 109, 121; E. Koch, Le pietre dure ed altre affinità artistiche tra le corti dei Moghul e dei Medici, ibid., p. 22; C. Sodini, I Medici e le Indie orientali. Il diario di viaggio di P. R. emissario in India per conto di Cosimo III, Firenze 1996, pp. 77-109; G. Bonsanti, SOS dalla ‘Roma do Oriente’, Il giornale dell’arte, 1997, 153, p. 67; F. Rossi, La pittura di pietra. Dall’arte del mosaico allo splendore delle pietre dure, Firenze 2002, p. 130; A. Giusti, Ritorno in India: di nuovo l’Opificio e il Mausoleo di san Francesco Saverio a Goa, in A. Griffo, Il restauro del mosaico e del commesso in pietre dure, Firenze 2009, pp. 87-89, 96; C. Conforti, Il Castrum Doloris (1689-1698) per san Francesco Saverio al Bom Jesus di Goa di Giovanbattista Foggini, dono di Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana, in The challenge of the object, Congress proceedings-Part 4, Nürnberg 2013, pp. 1436-1440; R. Gennaioli, Potere e devozione. Donativi medicei oltre i confini d’Europa, Nel segno dei Medici, a cura di M. Bietti, Firenze 2015, p. 57.