Planet of the Apes
(USA 1967, 1968, Il pianeta delle scimmie, colore, 112m); regia: Franklin J. Schaffner; produzione: Arthur P. Jacobs per Apjac; soggetto: dal romanzo La planète des singes di Pierre Boulle; sceneggiatura: Rod Serling, Michael Wilson; fotografia: Leon Shamroy; montaggio: Hugh S. Fowler; scenografia: William J. Creber, Jack Martin Smith; costumi: Morton Haack; trucco: John Chambers; musica: Jerry Goldsmith.
Un equipaggio umano precipita con una navicella spaziale su un pianeta sconosciuto. Sono rimasti in tre, e la sola donna del gruppo è perita durante il volo. I sopravvissuti scoprono presto di essere capitati in un posto dominato da scimmie con abitudini straordinariamente umane, che si dilettano nella caccia a una specie in tutto somigliante alla nostra, non fosse per i costumi primitivi e l'incapacità di favellare. Un cosmonauta è ucciso, un altro lobotomizzato. L'unico superstite in mano alle scimmie, George Taylor, sconcerta i dominatori del pianeta dando prova della propria intelligenza. L'arroganza delle scimmie, e in particolare quella del loro capo scientifico e spirituale Zaius, è temperata dall'atteggiamento di Zira e Cornelius, una giovane coppia di scienziati che tratta George come un soggetto di studio degno di rispetto, vedendovi la dimostrazione di come la loro specie derivi dall'uomo. Con l'aiuto di Zira e Cornelius, George fugge dalla prigionia assieme a Nova, splendido esemplare sopravvissuto a un'umanità abbrutita. Nel suo viaggio, finisce al cospetto della Statua della Libertà: la sua astronave è precipitata sulla Terra, migliaia d'anni dopo la partenza.
Di certi film rimane, indelebile, un'immagine. Di Planet of the Apes è molto difficile dimenticare l'inquadratura conclusiva in cui la Statua della Libertà, ridotta a un mezzobusto conficcato in riva al mare, occupa lo schermo per darci la prova beffarda della suprema imbecillità umana. Charlton Heston, come un Tarzan spogliato di ogni magnificenza, non può far altro che inginocchiarsi sulla sabbia, sbattere i pugni e maledire ad alta voce i propri simili. Questa immagine, assente dal romanzo di Boulle, riassume in pochi tratti un'epoca incrostata da una psicosi da fine del mondo molto concreta. Il rischio che Madre Terra finisca spappolata in miasmi post-atomici seduce mortalmente molti film; lo stesso Heston mette la propria notevole fibra muscolare al servizio di varie storie che ci raccontano di una razza umana vicinissima al collasso per propria stessa mano. È il lato oscuro della fantascienza, destinato a sparpagliarsi lungo gli anni Settanta, prima dell'arrivo pirotecnico di Star Wars a spazzar via di netto le inquietudini.
Il 1968 è anche l'anno di 2001: A Space Odyssey: data d'oro per la fantascienza cinematografica, che con questi due film acquista una rispettabilità prima d'allora costantemente negata da una vulgata intellettuale che ne sanciva l'irrimediabile inferiorità nei confronti della fantascienza letteraria (il successo al botteghino di entrambi i film, inoltre, risolleva le sorti commerciali di un genere che, negli ultimi anni, aveva collezionato pochi exploit). Il paradosso tematico messo in scena da Planet of the Apes si è rilevato subito efficace e negli anni duraturo, un rovesciamento di paradigma impreziosito da una squisita semplicità (di contro all'ermetismo di 2001: A Space Odyssey). La scimmia da cui deriviamo è rimasta abbarbicata come edera millenaria al nostro patrimonio genetico, l'orgoglio dell'uomo è fratello gemello della sua stoltezza, il nostro dio (se c'è) meriterebbe qualcosa di molto meglio a sua immagine e somiglianza. Il nichilismo al fondo del film trova un degno corifeo nella figura dell'astronauta Taylor che, quando un suo collega suggella lo sbarco sul pianeta ficcando nel suolo una bandierina a stelle e strisce, commenta con una risata sprezzante. Per lui, la misera fine dell'unica donna sulla navicella spaziale, a bordo per assicurare se necessario la continuazione della specie, è un dramma dimenticato molto alla svelta, perché costa poca fatica negare agli eredi un destino sociale a tal punto impazzito. Nelle scimmie il pubblico vede bene, sotto la maschera mobilissima, il proprio 'doppio' riflesso che viviseziona le bestie per il bene della scienza, nega l'evidenza della Storia per non alterare i meccanismi di potere, è superbo al punto da mettere l'odio tra i sentimenti più coltivati, ma stenta a raffrenare le intemperanze di una gioventù 'cinica' e si lascia andare a modi di dire familiari ("Cornelius, sii scimmia!"). I meriti del film vanno spartiti in varie direzioni: il genio di John Chambers, che con le maschere delle scimmie realizza il capolavoro della carriera (gli valse un Oscar); le musiche allucinatissime di Jerry Goldsmith; le scenografie 'alla Gaudí', subentrate a un primo progetto in cui la civiltà delle scimmie doveva essere solcata da ascensori e metropolitane; la straniante oppressione dei paesaggi dello Utah e dell'Arizona. Ma, su tutto, occorre rendere onore alla fantasia di Rod Serling, che aveva già assicurato ottime razioni di fantascienza al pubblico del serial televisivo Twilight Zone (Ai confini della realtà).
Planet of the Apes, in molti passaggi, fa sfoggio di un'ironia che 'sgambetta' il pessimismo dominante (prima dello 'scipito' Franklin J. Schaffner, doveva dirigere Blake Edwards, ed è un gioco dilettevole immaginare gli slanci di sarcasmo che la sua mano avrebbe potuto imprimere). I vari film che sorgeranno dalle sue costole saranno incapaci di eguagliare l'abilità d'equilibrismo dimostrata dal capostipite, anche se almeno un paio di sequels, sui quattro complessivi (più due serie televisive), sono rimarchevoli (il secondo e il terzo). Beneath the Planet of the Apes (L'altra faccia del pianeta delle scimmie, Ted Post 1970) è il più cupo e delirante, con una setta che adora una bomba atomica infine innescata da Heston. Dal botto riescono a sfuggire Zira e Cornelius, nel divertente Escape from the Planet of the Apes (Fuga dal pianeta delle scimmie, Don Taylor 1971): la metafora uomo/scimmia trova qui un'applicazione tanto esemplare da sfiorare lo scolastico, con i due scimpanzé catapultati fra le magagne della contemporanea democrazia umana. Tim Burton ha realizzato nel 2001 un omonimo remake.
Interpreti e personaggi: Charlton Heston (George Taylor), Roddy McDowall (Cornelius), Kim Hunter (Zira), Maurice Evans (Dr. Zaius), Linda Harrison (Nova), James Whitmore (presidente dell'assemblea), James Daly (Honorius), Robert Gunner (Landon), Lou Wagner (Lucius), Woodrow Parfrey (Maximus).
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