Planetologia
Lo studio dell'origine di un sistema planetario va di pari passo con le teorie della formazione ed evoluzione stellare: non possono nascere pianeti se non intorno a una stella e, comunque, questo è certamente il caso del Sole e del sistema planetario in cui viviamo. L'origine comune del Sole e del Sistema solare è da ricercarsi, quasi certamente, nel collasso gravitazionale di una nube molecolare, una delle tante della nostra galassia, nella quale, oltre a circa 100 miliardi di stelle, esiste una componente di mezzo interstellare composto soprattutto da idrogeno (e contenente tracce di altri elementi). L'idrogeno, a seconda delle condizioni in cui viene a trovarsi, può essere allo stato ionizzato, atomico o molecolare. In quest'ultimo caso il mezzo interstellare forma le cosiddette nubi molecolari, che hanno temperature di qualche decina di gradi kelvin e densità di oltre un migliaio di molecole per cm3. A una nube molecolare galattica, come a qualunque altro mezzo, si applica il criterio ideato da James Jeans, noto come : per un dato valore di temperatura e densità media, esso definisce la massa minima che la nube deve avere affinché, in presenza di fluttuazioni di densità, le forze gravitazionali di attrazione tra le sue varie parti siano più forti di quelle che si oppongono a tale contrazione, come l'agitazione termica. Se si verificano le condizioni che consentono l'inizio del processo di contrazione gravitazionale, la nuvola si frammenta in parti, ciascuna con una massa vicina a una massa solare, che a loro volta si contraggono indipendentemente. L'aumento di densità conseguente al collasso gravitazionale, se supera un dato limite, porta all'innesco delle reazioni di fusione nucleare, che liberano una grande quantità di energia e provocano l'accensione della stella.
La stella appena formata presenta una rotazione dovuta alla conservazione del momento angolare del materiale che si contrae; la stessa legge di conservazione spiega anche la possibilità di formazione di un disco appiattito, creato dalla contrazione e rotante intorno alla stella (il ). Il disco conterrà, oltre a gas di idrogeno ed elementi più pesanti, polvere e grani interstellari che tendono ad attirarsi gravitazionalmente e a disporsi nel piano equatoriale del disco protoplanetario. A poco a poco, la coesione gravitazionale forza i granelli di polvere ad accumularsi e a formare corpi sempre più grandi, finché si costituiscono i planetesimali, o planetesimi, che hanno dimensioni di circa un chilometro. La cattura di un planetesimo da parte di un altro planetesimo di dimensioni maggiori, una sorta di bombardamento dei frammenti più piccoli sui corpi già formati, origina alla fine veri e propri pianeti più o meno lontani dalla stella centrale. Il risultato di questo processo è che il Sole, nonostante contenga il 99,9% della massa del Sistema solare, ha un momento angolare che corrisponde soltanto al 2%.
I tempi ipotizzati per le varie fasi della formazione planetaria sono particolarmente interessanti: brevissimi, circa mille anni, per il processo iniziale di sedimentazione del disco a causa dell'elevato valore della densità nel piano centrale. I planetesimali formati dalla rottura del disco per instabilità, che sono in gran numero (forse miliardi all'interno dell'orbita di Marte), già in 10.000 anni si accumulano in oggetti di circa 500 km di raggio che poi, soprattutto per collisione, in un intervallo di tempo che va da 10 a 100 milioni di anni formano i pianeti. Nel caso del Sistema solare, i corpi di massa planetaria formati con successo sono otto, classificabili in due gruppi di quattro. Il modello fenomenologico descritto sopra sembra funzionare abbastanza bene per i pianeti interni, detti rocciosi o terrestri (Mercurio, Venere, Terra, Marte); per quelli esterni, i (Giove, Saturno, Urano, Nettuno), esiste una versione ad hoc di questo modello secondo la quale essi avrebbero conservato anche gran parte del contenuto originario della nebulosa protoplanetaria. Il modello ritenuto migliore prevede per i pianeti esterni un nucleo roccioso relativamente piccolo (da 12 a 18 masse terrestri) circondato da un involucro gassoso la cui composizione, in particolare per quanto riguarda Giove, rispecchia la composizione solare dal punto di vista del rapporto H/He. L'evoluzione finale del Sistema solare è strettamente collegata all'evoluzione del Sole stesso.
L'astronomia osservativa e teorica ha a disposizione molti dati su stelle simili al Sole nella nostra galassia in vari stadi della loro evoluzione. Questo ci permette di prevedere con buona approssimazione che tra circa 5 miliardi di anni il combustibile che ora tiene acceso il Sole finirà e la stella si trasformerà in una gigante rossa, con un raggio anche 100 volte maggiore dell'attuale; ciò comporterà la distruzione di Mercurio e forse anche di Venere e della Terra, vaporizzati all'interno della stella. Lo stadio di gigante rossa durerà circa 100 milioni di anni, durante i quali il Sole produrrà energia per contrastare la contrazione gravitazionale con una combustione di carburante nucleare sempre meno efficiente. Nel processo, i pianeti rimanenti saranno sottoposti a un vento solare milioni di volte più forte di quello attuale e perderanno nello spazio gran parte delle loro atmosfere. Alla fine le forze gravitazionali avranno la meglio e il Sole si contrarrà in una nana bianca, destinata lentamente a raffreddarsi e circondata dai resti gelidi dei pianeti sopravvissuti allo stadio di gigante rossa. In tali circostanze, nessuna delle forme di vita note potrà più svilupparsi ed è probabile che nessuna traccia di vita passata possa sopravvivere, eccetto forse i satelliti artificiali in orbite profonde che saranno l'unica testimonianza di una forma di vita intelligente mai esistita intorno al Sole.
Le scoperte effettuate nel campo della planetologia sono la conseguenza dei risultati sia scientifici sia tecnologici ottenuti nella fase pionieristica dell'esplorazione spaziale ‒ racchiusa in vent'anni di storia, dal 4 ottobre 1957 al 5 settembre 1977, vale a dire dal lancio del primo Sputnik all'ultimo lancio di un Voyager ‒ seguita da alcune missioni nel decennio successivo, in particolare le missioni Galileo e Giotto, che costituiscono una vera e propria pietra miliare nel processo di conoscenza del Sistema solare. Per cercare di effettuare un'analisi sistematica possiamo suddividere le diverse missioni spaziali in funzione del loro obiettivo: corpi minori del Sistema solare (asteroidi, comete), pianeti interni e pianeti esterni.
I risultati sulla cometa di Halley ottenuti dalla 'ESA (European space agency) nel 1986 (le immagini inviate dalla sonda ci mostrano la cometa di Halley come un solido di forma irregolare, lungo circa 14 km, con alcuni crateri visibili sulla sua superficie) spinsero i ricercatori a occuparsi in modo più sistematico della composizione e della natura di altri corpi minori, gli asteroidi. È diventato di particolare interesse per le teorie sull'origine del Sistema solare capire se quelli che oggi vengono chiamati asteroidi non siano altro che resti di nuclei cometari dopo che tutto il materiale volatile è scomparso, sublimato sotto l'azione del Sole, oppure se si tratti di condriti, i frammenti di roccia più antichi che si conoscano e probabilmente campioni di materia dei primordi. Per rispondere a questo interrogativo, il 17 febbraio 1996 venne lanciata dalla NASA la missione NEAR (Near earth asteroid rendez-vous), con l'obiettivo principale di cominciare a conoscere la natura e l'origine dei cosiddetti NEO (Near earth objects), ossia oggetti le cui orbite attraversano quella della Terra; essi sono così denominati per distinguerli da altri oggetti che orbitano invece nella fascia compresa tra Marte e Giove. I NEO sono di particolare interesse sia perché hanno orbite che potrebbero potenzialmente presentare un rischio d'impatto con la Terra, sia in quanto la loro natura può fornire informazioni sulla formazione dei pianeti interni. La sonda NEAR è atterrata su Eros (il più grande dei NEO) il 12 febbraio 2001 ed è stata la prima sonda a entrare in contatto con la superficie di un asteroide. Eros è un asteroide di classe S, di composizione rocciosa.
Più ambiziosa, la missione giapponese Hayabusa (falco) è riuscita ad atterrare sull'asteroide Itokawa allo scopo di prelevare un campione e riportarlo a terra, anche se non tutto è andato bene e non è sicuro che riesca a portare a termine il suo compito. Le foto ravvicinate dell'asteroide Itokawa mostrano una grande varietà di morfologia superficiale: è cosparso di grossi massi, tenuti legati da una gravità debolissima. Inoltre Itokawa mostra parti nude, non cosparse di regolite come la superficie della Luna e degli altri asteroidi di tipo S.
Si ha ragione di ritenere che la fonte primaria dei frammenti rocciosi chiamati condriti (costituiti da una matrice rocciosa indifferenziata, primordiale, con al suo interno delle condrule, piccole sfere di materiale primordiale formatesi per fusione nelle prime fasi della formazione del Sistema solare) che raggiungono il nostro pianeta sotto forma di meteoriti siano proprio gli asteroidi di classe S.
Lo studio dei corpi minori del Sistema solare è continuato con la missione Stardust del programma Discovery, che ha incontrato la cometa Wild 2 all'inizio del 2004. La Stardust ha intrappolato in un gel più leggero dell'aria parte del gas e della polvere della chioma, riuscendo a riportarlo a terra nel deserto dello Utah il 15 gennaio 2006. L'analisi dei campioni di polvere cometaria ha finora rivelato che la cometa Wild 2 contiene olivina, un composto di ferro e magnesio, oltre a minerali ricchi di calcio formati in ambienti ad alta temperatura ben diversi dal gelido e inerte ambiente cometario. La cometa 9P/Tempel 1 è stata l'obiettivo della missione Deep Impact, avviata nel 2005. Il 4 luglio 2005 dalla sonda è stato lanciato un proiettile di rame sulla superficie del nucleo, con lo scopo di studiare il materiale espulso nell'impatto (detriti di ghiaccio e materia primordiale). Anche Deep Impact ha riservato delle sorprese. Oltre a un gran polverone, sollevato dall'impatto e reso visibile grazie all'illuminazione solare, è stato possibile evidenziare la presenza di ghiaccio su appena lo 0,5% della superficie della cometa. Troppo poco per spiegare le imponenti chiome di vapor d'acqua delle comete che devono avere origine da ghiaccio più profondo. Mentre resta sicuramente vero che le comete sono palle di ghiaccio sporco, nel caso di Tempel 1 la superficie non è costituita da ghiaccio.
Sul fronte europeo, Rosetta costituisce una missione dell'ESA considerata di importanza fondamentale. Lanciata il 2 marzo 2004, incontrerà dopo un viaggio di dieci anni la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Giunta nei pressi della cometa, rilascerà una sonda (denominata Philae) che, dopo essere atterrata sul nucleo, eseguirà delle analisi geochimiche in situ, prelevando anche campioni del suolo a profondità variabili sino a 230 mm. Per quanto riguarda lo studio degli asteroidi, nell'ambito del programma Discovery della NASA la missione Dawn (il lancio è previsto per settembre 2007) ha l'obiettivo di approfondire le nostre conoscenze sull'origine del Sistema solare con lo studio degli asteroidi Cerere (nel 2015) e Vesta (nel 2011). La questione principale a cui si propone di rispondere Dawn riguarda il ruolo della presenza di acqua nel determinare l'evoluzione di un pianeta. Cerere e Vesta sono due asteroidi ideali per questo tipo di indagine in quanto sono due dei protopianeti più grandi, la cui crescita si è interrotta a causa della presenza di Giove.
Marte e Venere, i pianeti più vicini alla Terra, sono stati oggetto di importanti missioni scientifiche. Il 4 maggio 1989 venne lanciata dalla NASA la missione Magellan, che dall'agosto del 1990 all'ottobre del 1994 ha eseguito una mappatura di circa il 98% della superficie venusiana. Venere ha dimensioni simili a quelle della Terra, non mostra segni di tettonica a placche e per l'85% della sua superficie è ricoperto da materiale vulcanico. Si è rilevata la presenza di catene montuose, nessuna presenza di acqua in superficie, pochi segni di erosione eolica e una superficie che non mostra più di 500 milioni di anni di età. Quest'ultimo dato rimane ancora da spiegare, insieme alla mancanza di campo magnetico e di cinture di radiazione. Dopo la missione statunitense Magellan, è stata l'Europa a tornare su Venere con la missione Venus Express (VEX), in orbita venusiana dall'11 aprile 2006. Scopo principale della missione è quello di investigare le cause del tremendo effetto serra sul pianeta.
Per quanto riguarda l'esplorazione di Marte, tra le missioni andate a buon fine sono da segnalare Mars Global Surveyor (MGS) e Pathfinder della NASA. Il 4 luglio 1997 la sonda Pathfinder è arrivata sulla superficie di Marte e ha rilasciato un piccolo veicolo mobile, denominato Sojourner, che si è aggirato per diversi giorni intorno alla sonda. La missione MGS, attiva dal 1999 alla fine del 2006, ha consentito di ottenere importanti informazioni sulla presenza di acqua liquida sulla superficie di Marte. Nel giugno 2002, Mars Odyssey (lanciata dalla NASA il 7 aprile 2001 e giunta intorno a Marte dopo circa sette mesi) ha rivelato la presenza di acqua: si tratta di ghiaccio a profondità che vanno dai 30 ai 60 cm dalla superficie. La ricerca dell'acqua su Marte è continuata nel 2003 con tre missioni, una delle quali (Mars Express dell'ESA, lanciata in giugno) è in orbita intorno al pianeta rosso. Oltre a fornire immagini tridimensionali della superficie (tra le quali uno splendido lago ghiacciato), lo strumento radar a bordo di Mars Express ha scoperto la presenza di depositi di ghiaccio sotterraneo.
Dal gennaio 2004, la superficie di Marte viene studiata in situ da due rover gemelli (Spirit e Opportuniy), nell'ambito della missione Mars Exploration Rover della NASA. Progettati per lavorare circa 100 giorni, hanno superato i tre anni di attività. Oltre ad aver inviato a terra meravigliosi e numerosissimi panorami marziani, hanno scoperto la presenza di rocce stratificate. Potrebbe trattarsi di un deposito vulcanico ma potrebbe anche essere una stratificazione originata da un deposito d'acqua, necessariamente liquida in questo caso. Un'altra prova che in un passato più o meno lontano l'acqua scorreva liquida su Marte.
L'acqua era probabilmente presente su Marte 3,8 miliardi di anni fa, quando la sua atmosfera era più densa. Ci sono valli e letti di fiumi, e anche evidenze di fenomeni violenti, collegabili al fluire dell'acqua. Ma circa 3,5 miliardi di anni fa il clima cambiò radicalmente: in cento milioni di anni l'atmosfera si è rarefatta e raffreddata, l'acqua è scomparsa e il pianeta si è trasformato in un luogo secco e freddo. Quindi, l'interrogativo principale a cui rispondere è se l'acqua di Marte sia evaporata oppure sia intrappolata sotto la superficie.
Il 10 marzo 2006 è entrata in orbita marziana la missione MRO (Mars Reconnaissance Orbiter), partita il 10 agosto 2005. Sono ora in pianificazione alla NASA le missioni del 2009-2011, che probabilmente ne comprenderanno una in cui saranno riportati a terra campioni del suolo e sottosuolo marziani. Missioni di questo tipo richiedono ingenti investimenti e presentano un notevole grado di complessità, anche per le questioni connesse ai problemi di protezione planetaria. Tale protezione si articola in due sensi: da un lato occorre proteggere il suolo marziano da eventuali contaminazioni terrestri, che potrebbero anche alterare il risultato scientifico dell'investigazione in situ, dall'altro bisogna evitare che la Terra venga inquinata da eventuali microrganismi che potrebbero essere introdotti tramite i campioni. Ovviamente tutto ciò viene fatto soprattutto in preparazione dello sbarco umano sul pianeta, che permetterà di aprire un nuovo, fondamentale capitolo nelle attività spaziali. Infine le visite ai pianeti interni saranno completate da una fondamentale missione dell'ESA verso Mercurio, già nota come Bepi Colombo dal nome del grande scienziato padovano Giuseppe 'Bepi' Colombo, scomparso nel 1984. Questa missione (il cui lancio è previsto nel 2013) dovrebbe consentire, per la prima volta nella storia dell'esplorazione spaziale, di studiare la superficie del pianeta e di analizzare le interazioni con il vento solare che, data la vicinanza di Mercurio alla nostra stella, sicuramente ha avuto e continua ad avere un impatto notevole sulla sua evoluzione. La struttura superficiale di Mercurio dovrebbe riflettere ‒ almeno questa è l'aspettativa scientifica internazionale ‒ la sua evoluzione e le sue caratteristiche principali. Bepi Colombo è probabilmente la missione più articolata mai programmata sino a ora dall'ESA. Si tratta in realtà di due missioni in una, con due sonde che rimarranno in orbita intorno a Mercurio. Verranno eseguite rilevazioni della superficie, osservati asteroidi, misurati campi e particelle e dall'orbita bassa verrà analizzato il suolo. Sempre riguardo a Mercurio, anche la NASA ha pianificato la sua missione d'esplorazione Messenger. Il lancio della sonda è avvenuto il 3 agosto 2004 ed essa prima di entrare nell'orbita di Mercurio effettuerà quattro fly-by, rispettivamente di Venere e Mercurio in modo alternato, sino ad arrivare all'inizio della fase di acquisizione principale nell'aprile 2009; terminerà le sue osservazioni dopo un anno.
La rivoluzione sul fronte dei pianeti esterni negli ultimi anni è dovuta alla della NASA (lanciata nel 1989), il cui obiettivo è stato l'esplorazione di Giove e dei suoi satelliti galileiani: Io, Europa, Callisto e Ganimede. Galileo ha incontrato gli asteroidi Gaspra e Ida, sino ad arrivare vicino a Giove, dove ha rilasciato una sonda che è penetrata nell'atmosfera. Un passaggio ravvicinato di Galileo ha riguardato Amalthea e ha consentito di effettuare un'altra importante scoperta: la bassa densità di Amalthea rivela che questa luna di Giove è piena di 'buchi'. La sua densità è infatti vicina a quella del ghiaccio d'acqua, ma non ci sono evidenze che questa sia la sua composizione. Potrebbe trattarsi di un aggregato di parecchi pezzi, tenuti insieme dalla forza di gravità: quando i diversi elementi non combaciano perfettamente l'uno con l'altro, rimangono spazi vuoti. Amalthea non aveva al momento della sua formazione massa sufficiente per diventare un corpo solido e sferico, come le altre quattro lune più grandi di Giove. Uno dei modelli più accreditati per la formazione delle lune di Giove suggerisce che quelle più vicine al pianeta sarebbero costituite da materiale più denso di quelle più esterne. Questo implicherebbe che il giovane Giove, una sorta di versione più debole del giovane Sole, avrebbe emesso tanto calore da impedire alle lune più vicine di incorporare il materiale a più bassa densità. I quattro satelliti galileiani darebbero ragione a questa teoria, tanto più che Io, il più denso, è anche il più interno; tuttavia, esso orbita a una distanza pari a circa due volte quella di Amalthea, la cui bassa densità resta dunque un mistero.
Galileo ci ha fatto scoprire che Giove ha un anello, costituito da grani di polvere provenienti dai quattro satelliti maggiori e da nubi di ammoniaca solida. E, soprattutto, ci ha offerto lo spettacolo dei suoi quattro satelliti: Io è al momento considerato l'oggetto più attivo del Sistema solare, con un numero elevato di vulcani, alcuni dei quali più caldi di quelli terrestri, che eruttano lava composta da silicati ricchi di magnesio; Callisto sembra avere un oceano molto al di sotto della superficie, che appare ricoperta di crateri (la presenza di un oceano è suggerita dal fatto che il satellite presenta un forte campo magnetico, che potrebbe essere generato dall'interazione tra la distesa di acqua salata e il campo magnetico di Giove); Ganimede, il più grande satellite del Sistema solare, ha un campo magnetico e due calotte polari; infine Europa, sul quale sono presenti grandi zattere di ghiaccio, sotto le quali quasi sicuramente si trova un oceano di acqua. Su Europa non ci sono crateri, la morfologia del ghiaccio cambia (il che costituirebbe la conferma della presenza di acqua in movimento sotto il ghiaccio) ed è stata rilevata la presenza di una sottile atmosfera di ossigeno. Proprio per non correre il rischio di inquinare Europa, nel settembre 2003 Galileo ha finito la sua missione autodistruggendosi nell'atmosfera di Giove. Nel luglio 2004 è giunta su Saturno la missione NASA/ESA/ASI (Agenzia spaziale italiana) denominata Cassini-Huygens, che ha subito iniziato a fornire informazioni sulla struttura e composizione dell'atmosfera di Saturno, sui suoi anelli, sui suoi satelliti ghiacciati, sui suoi parametri fisici e chimici. Il 14 gennaio 2005 la sonda Huygens è scesa su Titano, la luna più grande di Saturno, raccogliendo informazioni importanti su questo satellite che presenta un'atmosfera e una superficie particolarmente interessanti per i processi chimico-fisici in corso. L'esame delle immagini e l'analisi dei dati raccolti durante la discesa hanno evidenziato la presenza sulla superficie di Titano di un complesso sistema di canali e canyon di drenaggio, interpretati come il risultato dello scorrimento di metano liquido.
Il 19 gennaio 2006 è stata lanciata New Horizon, la sonda NASA dedicata allo studio di Plutone che raggiungerà il 14 luglio 2015. Sarà la prima visita a un corpo celeste che ha avuto sempre difficoltà a farsi classificare come un pianeta e che, nell'agosto del 2006, è stato ufficialmente declassato dall'International astronomical union (IAU) a nanopianeta insieme a Cerere (nella fascia degli asteroidi) ed Eris. Quest'ultimo è fino a ora il più grande degli oggetti transnettuniani scoperti nella fascia di Kuiper, una regione periferica del Sistema solare dove sono localizzati corpi celesti costituiti dal materiale rimasto dopo la formazione del Sistema solare. La nuova classificazione di Plutone è basata sulla convinzione che anch'esso provenga dalla fascia di Kuiper e in effetti esso è uno strano oggetto celeste. Ha una luna, Caronte, di dimensioni poco inferiori alle sue, oltre a due nuovisatelliti ‒ scoperti nelle immagini del telescopio spaziale Hubble ‒ chiamati Nix e Hydra, figure mitologiche con le iniziali di New Horizon. Tra le sue caratteristiche più interessanti è la possibile presenza di una specie di sottilissima atmosfera, forse variabile con la posizione del sistema lungo la sua lunghissima orbita eccentrica intorno al Sole. Plutone presenta una discreta quantità di molecole contenenti idrogeno, ossigeno e carbonio, precursori di forme di vita. Data la sua bassa gravità, questo materiale sarebbe scomparso se il pianeta fosse stato più vicino al Sole. La sua distanza dalla nostra stella, invece, avrebbe mantenuto questo materiale sulla superficie e la sua analisi potrebbe portare a interessanti scoperte sia sulla formazione e sulle origini del Sistema solare, sia sulla presenza di eventuali forme di vita.
È difficile dare una definizione generale di 'vita', ma possiamo adottare almeno a livello operativo quella biochimica, secondo la quale essa è il prodotto dell'interazione tra due gruppi di sostanze biochimiche (acidi nucleici e le basi), fino a creare complessità sempre maggiori come la capacità di riprodursi. Questi building blocks biochimici sono presenti senza dubbio sulla Terra e sono a loro volta combinazioni di elementi della tavola periodica, dall'idrogeno all'uranio, di complessità e peso crescenti. Questi elementi, sintetizzati dal Sole e dalle altre stelle, sono presenti più o meno con le stesse abbondanze relative in tutto l'Universo. In un esperimento del 1953 Stanley Miller dimostrò che per produrre amminoacidi era possibile partire da un , cioè da un'atmosfera simile a quella terrestre primordiale, sottoponendolo a stimoli energetici come scariche elettriche e fulmini. In questo tipo di esperimenti in laboratorio, però, si formano amminoacidi che sono in egual misura di forma destrorsa o sinistrorsa, mentre gli organismi viventi possiedono solo amminoacidi sinistrorsi: il meccanismo di Miller non è quindi sufficiente per spiegare la nascita della vita.
Da quando, nel 1937, la radioastronomia identificò la prima molecola organica nello spazio interstellare (il radicale CH, seguito nel 1940 dal cianogeno CN) sono state trovate circa duecento specie molecolari organiche di complessità crescente fino agli amminoacidi e agli zuccheri. Nello stesso periodo di tempo è stato possibile studiare in grande dettaglio l'accrezione di polvere interplanetaria e interstellare sulla Terra. Ora sappiamo che ogni giorno cadono sulla Terra circa 30 tonnellate di materiale organico, soprattutto ‒ ma non solo ‒ di origine cometaria. In questo materiale, come nei meteoriti, sono state identificate ben 70 specie di amminoacidi, tra i quali almeno 8 dei 20 necessari per costituire le proteine. Inoltre, per la maggior parte questi amminoacidi sono sinistrorsi, proprio come quelli dei quali siamo fatti noi. Che la vita provenga dalle stelle? Di sicuro, grazie alla nucleosintesi. Che essa sia nata sulla Terra grazie alle comete o alla polvere interstellare? Forse, anzi è probabile, se crediamo ai significativi indizi riportati. La prova finale verrà dall'analisi in situ delle comete e, forse prima, da evidenze di vita su un altro pianeta. Nel Sistema solare, Marte si presenta come il candidato di gran lunga migliore per la ricerca di vita extraterrestre, presente e passata, anche se ci si attendono importanti risultati riguardanti materiale prebiotico anche dall'esplorazione di Titano e di Europa. Non c'è dubbio che su Marte scorresse l'acqua e l'atmosfera per qualche tempo sia stata abbastanza densa da permettere a questa grande quantità d'acqua di restare liquida, almeno in parte. Il componente principale di tale atmosfera era, come del resto è oggi, CO2. Grazie all'effetto serra sulla radiazione solare, una pressione al suolo da 1 a 5 bar di CO2 sarebbe stata sufficiente, appunto, a mantenere liquida l'acqua superficiale. Insieme al CO2 era presente una significativa quantità di N2 (fino a 10÷300 mbar), anch'esso, come il CO2, trasportato su Marte (e sugli altri pianeti interni, Terra compresa) da qualche meccanismo interplanetario. I due componenti, CO2 e N2, sono, insieme all'acqua, fondamentali per il ciclo prebiotico. Il problema non ancora risolto è come si possa mantenere sul pianeta un'atmosfera abbastanza densa (che permetta la permanenza dell'acqua) per un tempo sufficientemente lungo, per esempio un miliardo di anni. A contrastare le perdite atmosferiche, dovute per esempio all'assorbimento di CO2 per formazione di carbonati nelle rocce, potrebbero essere stati impatti cometari e altri fattori. La prova dello sviluppo della vita su Marte potrebbe venire da ritrovamenti fossili, sia individuali, sia in strutture macroscopiche informi, sia ‒ ancora più in generale ‒ con evidenza di materiale organico di origine biologica. Le strutture fossili potrebbero essere stromatoliti, simili a quelli terrestri, dovuti all'accumularsi di strati fossili depositati da microrganismi in bacini lacustri. Più in generale, come sulla Terra, la firma dei processi biologici si può ricercare in una variazione, piccola ma significativa (2%) nei rapporti isotopici del carbonio (12C/13C).
Bell 2006: Bell, Jim, Postcards from Mars, New York-London, Dutton, 2006.
Bignami 2001: Bignami, Giovanni F., La storia nello spazio, Milano, Mursia, 2001.
Bignami 2006: Bignami, Giovanni F., L'esplorazione dello spazio: alla scoperta del sistema solare, Bologna, Il Mulino, 2006.
Braccesi 2000: Braccesi, Alessandro - Caprara, Giovanni - Hack, Margherita, Alla scoperta del sistema solare, Milano, Mondadori, 2000.
Calder 1992: Calder, Nigel, Giotto to the comets, London, Presswork, 1992.
Caprara 2001: Sistema solare, a cura di Giovanni Caprara, Milano, Mondadori, 2001.
Godwin 2000: Mars: the NASA mission reports, edited by Robert Godwin, Toronto, Apogee Books, 2000.
Hartmann 2003: Hartmann, William K., Mysteries of Mars, "Sky and telescope", 106, 2003, pp. 36-43.
Lovett 2006: Lovett, Laura - Horvath, Joan - Cuzzi, Jeff,Saturn: a new view, New York, Abrams, 2006.
Sagan, Druyan 1997: Sagan, Carl - Druyan, Ann, Comet, 2. ed., London, Headline, 1997 (1. ed.: 1985).
Sheehan 2003: Sheehan, William, Mars fever, "Mercury", 32, 2003, pp. 30-37.
Von Braun 1952: von Braun, Wernher, Das Marsprojekt: Studie einer interplanetarischen Expedition, Berlin, Weltraumfahrt, 1952.