Plasmi: applicazioni
L’importanza delle applicazioni tecnologiche e scientifiche dei plasmi deriva dalle due caratteristiche fondamentali che li contraddistinguono dalle altre forme di aggregazione della materia: (a) possono avere un’elevata energia specifica, sia sotto forma di energia dei campi elettromagnetici in essi presenti, sia come energia cinetica (energia termica) delle particelle cariche che li compongono; a parità di densità di massa, i plasmi costituiscono il materiale a nostra disposizione che è capace di accumulare e scambiare la maggior quantità di energia in maniera controllata; (b) essendo generalmente lontani dall’equilibrio termodinamico, possono trasferire la loro energia in maniera mirata allo specifico processo cui sono applicati e quindi con maggiore efficienza. Questi due aspetti non soltanto rendono possibili processi applicativi nuovi, ma permettono di sostituire tecnologie preesistenti abbattendo costi e dimensioni delle apparecchiature. Inoltre in molti casi le tecnologie a plasma hanno un minore impatto ambientale.
Non è qui possibile elencare in dettaglio tutte le applicazioni dei plasmi nei diversi campi. Un simile elenco diverrebbe inoltre rapidamente obsoleto, a causa della repentina e sempre più capillare diffusione delle tecnologie basate sui plasmi. Si è cercato tuttavia di individuare alcune tra le principali classi di applicazioni nell’ambito scientifico e tecnologico. In campo industriale, i plasmi trovano impiego in applicazioni di potenza e per l’inattivazione di materiali pericolosi.
Nel settore dell’industria degli acciai e in genere della lavorazione dei metalli, i plasmi vengono utilizzati per produrre la fusione locale del metallo e per tagliarlo mediante archi a plasma, oppure per controllare con maggior precisione la temperatura del metallo e mantenerela più uniforme durante il periodo in cui viene colato. Archi a plasma sono anche utilizzati per la rimozione dall’acciaio fuso di componenti indesiderati, come rame e stagno, o, per esempio, per la produzione di polveri metalliche e di compositi metallo-ceramici. Inoltre, forze di tipo magnetoidrodinamico vengono usate per rimescolare, attraverso l’azione di un campo elettromagnetico rotante, leghe di metalli fusi o semifusi, per esempio leghe di alluminio, in processi a colata continua.
Plasmi con temperature elettroniche dell’ordine di qualche elettronvolt (ma con temperature degli ioni e degli atomi neutri più basse) offrono una tecnica efficiente da un punto di vista energetico per distruggere e rimuovere inquinanti in fase gassosa, per esempio per trattare i prodotti di scarico di motori diesel, di inceneritori, di centrali termoelettriche e così via. Più in generale, i plasmi possono essere utilizzati per decomporre in maniera completa, mediante archi elettrici o torce al plasma, diversi tipi di rifiuti (rifiuti solidi urbani, rifiuti ospedalieri e materiali pericolosi) in assenza di ossigeno, con produzione di gas combustibili e ceneri inerti. Plasmi di bassa temperatura sono usati per sterilizzare prodotti medici. Nell’industria alimentare, inoltre, i plasmi permettono di distruggere spore batteriche con tempi di esposizione tali da rendere possibile la sterilizzazione durante il processo stesso di confezionamento del prodotto. Infine, plasmi contenenti ossigeno sono utilizzati per rimuovere in maniera completa componenti organiche da superfici.
La realizzazione di una nuova sorgente di energia basata sulla fusione termonucleare controllata è probabilmente l’applicazione dei plasmi su cui è stata investita la maggior quantità di risorse umane e finanziarie. Lo scopo è quello di sfruttare l’energia che viene liberata quando due nuclei di isotopi dell’idrogeno si fondono per formare un nucleo più pesante. In particolare, un nucleo di deuterio e uno di trizio danno luogo a un nucleo di elio (cioè una particella alfa) con il rilascio aggiuntivo di un neutrone; il deuterio è un isotopo stabile dell’idrogeno e può essere facilmente estratto per elettrolisi dall’acqua, in cui è presente a concentrazioni, rispetto all’idrogeno, di una parte per 6500 circa; il trizio è un radio-isotopo e deve essere prodotto. Questo processo esotermico è analogo a quello che alimenta le stelle, ma i meccanismi fisici coinvolti nei due processi presentano differenze importanti. Queste traggono origine dalla miniaturizzazione resa necessaria nel passaggio dalle dimensioni stellari a quelle di un laboratorio o di un impianto di potenza terrestre e dall’esigenza che la produzione di energia avvenga in maniera controllata. Su scala terrestre, ma in un regime esplosivo, questo processo è già stato realizzato fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso nelle bombe termonucleari.
Affinché i due nuclei reagenti possano fondersi, è necessario che la loro energia sia tale da permettere loro di superare, attraverso il fenomeno quantistico dell’effetto tunnel, la repulsione elettrica dovuta al fatto che sono entrambi carichi positivamente. Questo richiede temperature superiori a cento milioni di gradi e quindi materia allo stato di plasma.
Nel processo è necessario fornire energia al plasma. Si ha produzione netta di energia quando l’energia liberata dalle reazioni di fusione, durante l’intervallo di tempo per cui è possibile mantenere queste condizioni, è più grande dell’energia che deve essere fornita (moltiplicatore di energia), oppure è tale da mantenere il plasma nelle condizioni richieste anche quando non viene più fornita energia dall’esterno (ignizione).
La fusione termonucleare differisce dalla fissione nucleare non solo come processo fisico (ne costituisce in un certo senso il processo inverso, quindi non usa come combustibile i nuclei pesanti, per es., l’uranio, utilizzati per i processi di fissione), ma in particolare per il fatto che la quantità di combustibile che deve essere presente nella camera di reazione per mantenere attive le reazioni termonucleari è molto piccola, dell’ordine delle decine di grammi (un grammo di deuterio reagendo con un grammo e mezzo di trizio produce circa dieci milioni di volte più energia di quanta ne sia prodotta in un processo chimico di combustione, per es. da un grammo di olio combustibile). Ciò esclude la possibilità di un processo incontrollato a catena. Tuttavia, a parità di energia sviluppata, il numero di neutroni prodotti dalla fusione è circa cento volte maggiore che nella fissione. Ciò comporta diversi problemi tecnologici e di attivazione radioattiva delle strutture di un reattore a fusione. Usando materiali a bassa attivazione, per esempio leghe di vanadio invece che di acciaio o sostituendo nell’acciaio componenti come il nichel e il molibdeno con manganese o tungsteno senza degradarne le proprietà termomeccaniche, si può però fare in modo che non vengano prodotti radioisotopi con tempi di decadimento molto lunghi (decine di anni invece che migliaia). Inoltre sono possibili processi di fusione termonucleare che non producono neutroni, o li producono in numero molto limitato, anche se essi richiedono temperature di ignizione più elevate.
Nella fusione termonucleare non è sufficiente riscaldare il plasma, bisogna anche confinarlo. Contenitori materiali non possono essere usati perché, se messi in contatto diretto con il plasma, lo raffreddano immediatamente.
Sono stati adottati due principali schemi di confinamento: quello magnetico e quello inerziale. Nello schema magnetico il plasma è confinato in una struttura a ciambella (detta toro) che ha dimensioni lineari di alcuni metri, e la sua pressione viene controbilanciata dalla forza di strizione magnetica prodotta da un’intensa corrente elettrica (alcuni megaampere). Questa corrente viene indotta lungo la ciambella (cioè in direzione toroidale) nel plasma che funge da secondario di un trasformatore. È inoltre presente un intenso campo magnetico toroidale, di alcuni tesla, prodotto da bobine esterne, che contribuisce alla stabilità della configurazione. In passato sono state proposte e sperimentate differenti forme di confinamento magnetico, come per esempio strutture aperte a specchi magnetici.
Nello schema inerziale una pallina di combustibile di dimensioni millimetriche viene compressa a densità molto superiori rispetto a quelle di un solido (per raggiungere le condizioni di ignizione bisogna riuscire a ottenere compressioni corrispondenti a migliaia di volte la densità solida) dalla pressione prodotta dalla forza di reazione dovuta all’espulsione degli strati esterni della pallina stessa riscaldati da radiazione elettromagnetica di grandissima intensità (o, in alcuni esperimenti, da ioni). L’irraggiamento della pallina può essere diretto o indiretto. Nel primo caso fasci laser distribuiti simmetricamente vengono focalizzati direttamente sulla pallina; nel secondo i fasci irraggiano la superficie interna di una capsula costituita da un materiale a elevato numero atomico (per es., oro) e la pallina interna è compressa per effetto dei raggi X prodotti dalla capsula. In entrambi i casi il plasma è confinato solo per il tempo che la pallina impiega a implodere, valutato nell’ordine di alcuni nanosecondi (10−9 s), raggiungendo le condizioni di densità e temperatura richieste, prima di riespandersi. In alcuni schemi, che vanno sotto il nome di ignizione veloce, i processi di compressione e di riscaldamento sono separati.
Sia nello schema magnetico sia in quello inerziale, l’energia prodotta viene estratta con un processo di scambio termico da una camicia esterna in cui i neutroni prodotti depositano la loro energia (conversione diretta in energia elettrica è possibile nel caso in cui tutti i prodotti delle reazioni di fusione siano particelle cariche). In nessuno di questi due schemi di confinamento gli esperimenti sono giunti a realizzare le condizioni di ignizione. Al momento attuale sono previsti esperimenti, sia a confinamento magnetico sia a confinamento inerziale, che hanno come scopo il raggiungimento delle condizioni di ignizione. Da tempo, molti dei principali esperimenti di fusione, in particolare quelli a confinamento magnetico, sono condotti a livello internazionale, per esempio in Europa attraverso la Comunità Europea dell’energia atomica (Euratom). Nel caso della fusione inerziale, più vicina sotto certi aspetti alla fisica delle esplosioni termonucleari, parte dei finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo provengono, nei Paesi che possiedono armi termonucleari, da fonti militari attraverso programmi volti al mantenimento delle competenze necessarie per la gestione dei depositi delle armi stesse.
Il raggiungimento delle condizioni di ignizione è un passo indispensabile per dimostrare la realizzabilità scientifica della fusione termonucleare come sorgente di energia a uso civile. In seguito sarà tuttavia necessario affrontare e risolvere problemi tecnologici addizionali non direttamente legati al comportamento del plasma ma, per esempio, al comportamento delle strutture di confinamento e di scambio del calore e, nel caso della fusione inerziale, al tasso di ripetizione degli impulsi laser usati per la compressione delle palline di combustibile e all’efficienza energetica del laser. Nonostante siano stati effettuati degli studi preliminari, non sembra per ora possibile valutare con precisione la competitività economica della fusione termonucleare rispetto ad altre sorgenti di energia, mentre appare evidente la sua competitività sul piano politico (per es., per la diffusa disponibilità del combustibile) e ambientale (assenza di gas serra, sicurezza di funzionamento e assenza di scorie radioattive con tempi lunghi di decadimento).
Un aspetto completamente diverso delle applicazioni dei plasmi nell’ambito della produzione di energia è costituito dai generatori magnetoidrodinamici per la conversione diretta dell’energia termica e cinetica in energia elettrica. In questi generatori un flusso di plasma è immerso in un campo magnetico perpendicolare al flusso stesso. A causa della forza di Lorentz, il cui verso dipende dal segno della carica, ioni ed elettroni vengono separati. Si forma quindi un campo elettrico trasversale al flusso del plasma, che tende a controbilanciare la forza magnetica. Questo campo elettrico dà luogo a una differenza di potenziale tra gli elettrodi posti alle pareti del condotto ove fluisce il plasma, che può essere sfruttata per generare potenza elettrica. Un generatore magnetoidrodinamico è stato utilizzato a partire dalla seconda metà degli anni Settanta per lo studio della conduttività elettrica, e quindi della struttura geologica, della crosta terrestre nella parte settentrionale dello scudo baltico.
Infine, nella generazione di impulsi di correnti di grande intensità i plasmi sono utilizzati per realizzare interruttori di corrente ultrarapidi (plasma opening switch) in circuiti anche ad altissima potenza (superiore al gigawatt) e in presenza di tensioni elevate (dell’ordine dei megavolt). In questi interruttori si sfrutta la capacità di un plasma di sostenere correnti anche estremamente elevate che evolvono su tempi molto rapidi (per es., nonosecondi) e si interrompono aprendo quindi il circuito con tempi di risposta molto brevi.
Un plasma può sostenere campi elettrici molto più intensi di quelli che si possono raggiungere in un acceleratore convenzionale di particelle, in cui i campi acceleranti sono limitati in ultima analisi dalla formazione di archi elettrici alle pareti. Nei plasmi, campi elettrici ultraintensi sono resi possibili dal fatto che gli elettroni del plasma possono spostarsi rispetto agli ioni sotto l’azione di forze esterne, generando così un campo di tipo elettrostatico.
Le forze esterne più intense (per unità di volume) che si è in grado di esercitare in laboratorio sugli elettroni di un plasma sono prodotte dall’azione di impulsi laser estremamente brevi, ma di grandissima intensità. Facendo uso di questi impulsi, si possono raggiungere campi elettrici che superano il teravolt per metro (1012 volt per metro) e che variano su distanze dell’ordine delle decine di micrometri.
Campi elettrici di simile intensità possono accelerare particelle cariche fino a energie molto elevate su lunghezze molto più piccole di quelle richieste dagli acceleratori convenzionali (per es., energie dell’ordine delle centinaia di MeV su lunghezze di accelerazione di alcuni millimetri). Le potenziali applicazioni di questo meccanismo avanzato di accelerazione sono oggetto di studio in ambiti che vanno dalla fisica delle alte energie alla cura di patologie mediche, per esempio per trattamenti terapeutici in oncologia con fasci di protoni.
Il principale schema di accelerazione adottato per la produzione di fasci di elettroni consiste nell’eccitare in un plasma di grande ampiezza. Queste onde possono essere eccitate in maniera risonante usando due impulsi laser di frequenze opportune oppure, più comunemente, in maniera impulsiva usando un singolo impulso ultrabreve di grande intensità. Per il successo di questo schema di accelerazione è indispensabile poter controllare la struttura spaziale e temporale delle onde di Langmuir prodotte per far sì che i fasci accelerati dai campi elettrici di queste onde abbiano le proprietà fisiche (qualità del fascio) richieste. Gli schemi considerati per l’accelerazione di ioni, e in particolare di protoni, si basano invece su un meccanismo di rettificazione, mediato dagli elettroni, dei campi elettromagnetici di un impulso laser in un plasma. In questo meccanismo l’impulso laser genera una forte separazione di carica, espellendo parte degli elettroni da un sottile foglio di plasma. Questa separazione di carica dà luogo a un campo elettrico che accelera gli ioni a spese dell’energia che l’impulso laser ha ceduto agli elettroni.
Una caratteristica molto importante dell’uso dei plasmi per accelerare particelle è la prospettiva di poter ottenere una notevole riduzione delle dimensioni delle strutture richieste. Come già sottolineato, questa riduzione di scala è una caratteristica molto importante delle tecnologie di plasma e promette di esercitare, per esempio nel caso delle applicazioni mediche, un notevole impatto in termini di disponibiltà di servizi sul territorio.
In presenza di campi elettrici e magnetici meno intensi, l’accelerazione di particelle cariche in un plasma viene utilizzata per la propulsione di satelliti.
In questa applicazione si sfrutta il fatto che si possono fornire agli ioni di un plasma velocità molto maggiori di quelle fornite dai processi chimici di combustione (valori tipici sono 2÷5 km/s per processi chimici, e 10÷30 km/s in un plasma). Questo permette di ottenere, a parità di spinta, un risparmio significativo di propellente.
Esistono diversi tipi di propulsori a plasma, distinti per le caratteristiche dei campi applicati e del regime di plasma di funzionamento. Le potenze fornite a questi motori devono essere generate da una sorgente esterna al processo di accelerazione, diversamente da quanto avviene per i propulsori chimici, e le missioni attualmente in fase di realizzazione sfruttano prevalentemente l’energia ottenuta da pannelli solari. I regimi di potenza tipici di queste tecnologie variano da 1 a 100 kilowatt. Questo limita l’applicazione dei motori a plasma alle manovre basate su spinte basse e continue per lunghi periodi di tempo: operazioni di controllo orbitale e d’assetto di satelliti, anche per puntamenti molto precisi, oppure operazioni di trasferimento interplanetario di sonde scientifiche. In queste applicazioni l’utilizzo di motori al plasma consente di aumentare la parte riservata al carico utile e riduce le dimensioni e i costi della missione.
Come indicato all’inizio, la densità specifica di energia di un plasma è generalmente molto elevata e questo, insieme al fatto che i plasmi sono composti da particelle cariche libere di muoversi, fa sì che essi siano intrinsecamente sorgenti di radiazioni elettromagnetiche intense. Quindi, come per le applicazioni già descritte, i plasmi permettono a parità di potenza di realizzare sorgenti molto compatte. Inoltre, l’assenza di equilibrio termodinamico (in molti casi i plasmi sono otticamente sottili alla radiazione elettromagnetica che essi stessi emettono) fa sì che l’irraggiamento di un plasma, a differenza per esempio di quello di una lampadina a incandescenza, non sia in generale descrivibile come irraggiamento di corpo nero e abbia quindi caratteristiche fisiche che possono essere ottimizzate per diverse specifiche applicazioni.
Le sorgenti di radiazione elettromagnetica a plasma variano da quelle tradizionali nell’ultravioletto nei plasmi debolmente ionizzati (per es., nelle lampade fluorescenti, le cosiddette lampade al neon, e ora nei pixel degli schermi a plasma), alle sorgenti di potenza di microonde, fino a quelle più innovative utilizzate per produrre armoniche della radiazione elettromagnetica esterna che incide su un plasma. Nella generazione di armoniche si sfruttano le proprietà di non linearità della risposta della materia ai campi elettromagnetici.
In questo processo, che è caratteristico dell’ottica non lineare e che avviene in presenza di radiazione molto intensa, parte della potenza incidente non viene reirraggiata dal mezzo alla stessa frequenza della radiazione di arrivo, ma a frequenza doppia, tripla, fino ad armoniche di ordine molto elevato in alcuni regimi. Ciò permette di realizzare sorgenti di radiazione elettromagnetica in intervalli di frequenze in cui non sono disponibili altri tipi di sorgenti. La produzione di armoniche è inoltre caratteristica dei plasmi relativistici, cioè dei plasmi in cui l’energia degli elettroni è dell’ordine o più grande della loro energia di massa. Inoltre i plasmi permettono la produzione di radiazione coerente ad alta frequenza con il laser a elettroni liberi (FEL, Free electron laser). Il principio di funzionamento di un FEL coinvolge la fisica degli acceleratori, ma può giovarsi dell’elevato numero di elettroni per pacchetto che possono essere accelerati in un plasma. Diversamente, radiazione coerente può essere ottenuta con processi di emissione stimolata, per esempio realizzando laser a raggi X a scariche elettriche in plasmi all’interno di capillari riempiti di un gas nobile (argon) o in canali scavati in un plasma da un impulso laser ultraintenso. La possibilità di riscaldare gli elettroni di un plasma con impulsi laser ultrabrevi, ma di grandissima intensità, ha reso inoltre possibile la realizzazione di sorgenti impulsate di raggi X molli (incoerenti) in cui la durata dell’impulso può scendere ben sotto il picosecondo (10−12 s). L’impulso di raggi X è prodotto dalla radiazione di bremmsstrahlung (radiazione di frenamento) emessa dagli elettroni del plasma precedentemente riscaldati dall’impulso laser opportunamente focalizzato su un bersaglio. La durata degli impulsi di raggi X è determinata dal tempo di raffreddamento degli elettroni a causa del processo stesso di irraggiamento.
Queste sorgenti sono caratterizzate da un’elevatissima potenza di picco e da un’ottima risoluzione spaziale. Sono quindi importanti per una vasta gamma di applicazioni, che vanno dalla litografia e , alle applicazioni mediche e, per raggi X con frequenza compresa nella cosiddetta finestra dell’acqua (corrispondente a lunghezze d’onda intorno a 4 nm, cioè alla regione spettrale compresa tra i confini di assorbimento del carbonio e dell’ossigeno), alle applicazioni biologiche con immagini ad alto contrasto.
La risoluzione temporale di queste sorgenti non è eguagliata da altri tipi di sorgenti intense di radiazione elettromagnetica X e, per impulsi con durata intorno al centinaio di femtosecondi (1 fs = 10−15 s), diviene dell’ordine del tempo caratteristico dei moti vibrazionali delle molecole. Questo permette di ottenere informazioni sull’evoluzione nel tempo della struttura molecolare durante una reazione chimica, con tecniche stroboscopiche (femtochimica).
Infine due possibili applicazioni dei plasmi per la realizzazione di sorgenti di radiazione con proprietà assolutamente nuove sono basate su processi fisici che solo molto di recente sono stati oggetto di studio e che sono ai limiti della presente tecnologia. Questi processi coinvolgono l’interazione di impulsi laser ultrabrevi e ultraintensi con uno strato di plasma di densità tale da riflettere la radiazione incidente. Le rapide deformazioni della struttura spaziale che lo strato di plasma subisce sotto la spinta dell’impulso laser possono portare a uno sventagliamento della luce riflessa sotto forma di impulsi ancora più brevi dell’impulso incidente, dell’ordine dell’attosecondo (10−18 s).
Analogamente, fogli di elettroni nel plasma prodotti dal rompersi di onde di Langmuir di grande ampiezza possono agire da specchi relativistici e riflettere la radiazione di un impulso laser incidente su di essi, innalzandone la frequenza. Se di grande ampiezza, le onde di Langmuir prodotte da un impulso laser nel plasma possono rompersi come si rompono le onde del mare producendo schizzi di elettroni accelerati dall’onda a velocità prossime a quella della luce. La frequenza dell’onda riflessa è determinata dalla legge di Einstein per la riflessione su uno specchio in moto ω′=ω[(1+v/c)/(1−v/c)], dove v è la velocità con cui lo specchio si avvicina, c la velocità della luce, ω la frequenza dell’impulso incidente e ω′ quella dell’impulso riflesso. Questo meccanismo di innalzamento della frequenza di un impulso di radiazione elettromagnetica in un plasma è talvolta chiamato acceleratore di fotoni.
Questo è probabilmente il campo più diversificato delle applicazioni dei plasmi e quindi più difficile da presentare in maniera sintetica; è inoltre un campo che accomuna la chimica e la fisica dei plasmi. Plasmi chimicamente reattivi sono in generale prodotti da una scarica elettrica in un gas, usando dispositivi con varie configurazioni degli elettrodi. La reattività chimica del plasma può essere regolata mutando le proprietà dei gas reagenti oppure i parametri dei campi applicati (intensità, frequenza, configurazione spaziale degli elettrodi).
Schematizzando, si può dire che i processi di natura chimica sfruttano il fatto che le reazioni chimiche che avvengono nei plasmi non completamente ionizzati si sviluppano in condizioni di non equilibrio termodinamico.
In questi plasmi gli urti con gli elettroni producono direttamente o indirettamente atomi e molecole fortemente reattivi, ionizzati o elettronicamente eccitati, in concentrazioni superiori a quelle che si avrebbero in un plasma all’equilibrio termodinamico alla stessa temperatura. Di conseguenza, possono avere luogo reazioni, anche fortemente endotermiche, non facilmente realizzabili altrimenti.
Possono essere così prodotti vapori molecolari, nanoparticelle o polimeri che si depositano su substrati solidi formando strati sottili con proprietà ottiche, elettriche o chimiche controllabili in modo dipendente dalla composizione, temperatura e densità del plasma. I componenti reattivi del plasma possono anche attaccare chimicamente una superficie solida, modificandola o incidendola selettivamente (etching). Con il plasma si possono per esempio creare gruppi funzionali chimicamente attivi per migliorare le proprietà di adesione di superfici per componenti di apparecchiature mediche. Si possono inoltre modificare le proprietà di bagnabilità di superfici polimeriche o la loro capacità di legarsi a sostanze proteiche (biocompatibilità).
La maggioranza delle applicazioni fisiche si basa sul fatto che le energie degli ioni in un plasma relativamente di bassa temperatura, corrispondenti a energie per particella dell’ordine di alcuni elettronvolt (1 elettronvolt corrisponde a una temperatura di poco più di diecimila gradi), sono tali da poter competere con le energie reticolari dei materiali, permettendo agli ioni di penetrare all’interno della superficie del materiale per alcuni strati atomici o, nel caso di energie più basse, semplicemente di aderire alla sua superficie. Questo processo può essere applicato alla produzione di componenti elettroniche, alla sintesi di nuovi materiali funzionali e alla lavorazione di materiali d’interesse per l’ingegneria. In questi processi lo stato di non equilibrio termodinamico del sistema è essenziale, in quanto, a una temperatura corrispondente alle energie dei singoli elettroni o ioni del plasma che partecipano alle reazione chimiche, il materiale da trattare verrebbe distrutto.
Nel processo dell’incisione a plasma (plasma etching), radicali presenti in un plasma di bassa temperatura vengono adsorbiti e reagiscono con la superficie del materiale formando composti volatili che possono essere aspirati con un sistema da vuoto. L’uso del plasma rende il processo più selettivo in quanto gli ioni energetici presenti bombardano la superficie del materiale in preferenza perpendicolarmente a essa e ne modificano la reattività chimica. L’incisione a plasma permette di rimuovere materia in maniera anisotropa (in particolare senza arrotondare spigoli, ecc.) su distanze inferiori a mezzo micron. In aggiunta richiede un minore uso di composti tossici rispetto alla fotolitografia: l’introduzione delle tecnologie al plasma nelle industrie della Silicon Valley ha infatti contributo al risanamento ambientale della regione.
Nel processo della deposizione a plasma, invece, si sfrutta il fatto che gli elettroni di un plasma con energie di qualche eV possono spezzare molecole relativamente stabili e quindi favorire la deposizione a temperature e pressioni molto minori di quelle che sarebbero richieste, per esempio dal metodo della deposizione chimica (CVD, Chemical vapour deposition). Inoltre, se il plasma è all’interno di un condensatore, gli ioni del plasma sono accelerati dal campo elettrico cui sono sottoposti. Questo fa in modo che la densità della pellicola di materiale depositato sia maggiore che nel caso di deposizione chimica e, in particolare, che la densità e la struttura stessa della pellicola possano essere controllate variando le condizioni del plasma e l’intensità del campo elettrico.
Di recente, la deposizione a plasma si è dimostrata un metodo efficiente e versatile per la produzione di nanostrutture su superfici solide. Questa applicazione sfrutta plasmi a bassa temperatura generati mediante una scarica elettrica, ma anche la tecnica dell’ablazione laser, nella quale il plasma viene generato dall’interazione di un laser ad alta potenza con un materiale solido. Con questa tecnica è stata per esempio prodotta in laboratorio una nuova forma allotropica del carbonio (cioè una struttura molecolare diversa dalla grafite, dal diamante e dal fullerene) detta nanoschiuma.
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