Platina, Bartolomeo Sacchi, detto il
Umanista, nato nel 1421 a Piadena (odierna provincia di Cremona), da cui il soprannome P., e morto a Roma nel 1481. Fu in gioventù precettore dei figli di Ludovico Gonzaga a Mantova; passato a Firenze e infine a Roma, gravitò attorno alla curia pontificia per buona parte della vita.
Appare probabile che la conoscenza delle vicende personali – oltre che degli scritti – di P. abbia suscitato in M. un non trascurabile interesse. P. era scrittore politico (si pensi al De principe e al De optimo cive, ma anche alle opere di storiografia ecclesiastica; la sua autorevolezza come fonte storica fu, per es., apprezzata da Bartolomeo Fonzio) e, al tempo stesso, aveva vissuto un rapporto travagliato e controverso con il potere pontificio: dapprima ‘ribelle’ legato all’Accademia Pomponiana e accusato di congiura negli anni di Paolo II (1464-71), quando aveva provato l’esperienza del carcere; poi – nel tempo di Sisto IV (salito al soglio pontificio nel 1471) – rientrato nelle grazie del papa regnante e insignito di onorificenze di non poco conto. Senza difficoltà M. poté avere conoscenza diretta del trattato De principe, che ebbe circolazione manoscritta tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento (l’editio princeps è del 1608), così come delle altre sue opere, a partire dalle Vitae pontificum.
L’incipit del trattato di P. sul principe – dove preliminarmente si sottolinea la necessità che chi fonda e governa uno Stato sia unicus nel suo agire, se si vuole che l’azione sia efficace – suggerisce un accostamento non solo ovviamente e genericamente con il Principe, ma anche con il cruciale cap. ix del libro I dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, dove M. spiega appunto che la fondazione (o rifondazione) dello Stato deve avvenire per opera di uno solo: quel principe potrà avere la lungimiranza di limitare il proprio potere (come fece Romolo delegando una porzione delle proprie prerogative al senato), oppure dovrà farsi da parte; ma l’avvio di uno Stato, spiega M., è per necessità monarchico. Segue, nell’esordio del De principe di P., un impegnativo ragionamento dedicato alla religione del principe. Anche qui si può ipotizzare un riuso critico del modello da parte di M.: per quest’ultimo il principe si deve preoccupare di «apparire» religioso, prima ancora che di «essere» tale. E l’importanza sociale del fenomeno religioso è perfettamente chiara a M., il quale infatti insiste su questo punto variamente, tra l’altro proprio nel libro I dei Discorsi, là dove riflette sul noto aneddoto relativo a Numa Pompilio (Livio I 19), il re che doveva considerarsi l’autentico fondatore di Roma in ragione del fatto che – simulando il diretto contatto con una divinità ‘istitutrice’ – aveva avuto l’intelligenza di stabilire le leggi e i riti sacri e di garantire così la coesione della società per secoli. Orbene, quell’aneddoto aveva animato da Petrarca in poi, per es. attraverso Poggio Bracciolini, l’analisi politica umanistica. P., per l’appunto, parla di Numa nelle pagine iniziali del De principe: l’umanista non si spinge a teorizzare la necessità di simulare la fede religiosa, ma – oltre a citare Numa come esempio positivo – associa la controversa categoria del mendacium all’efficacia dell’azione politica anche in ambito sacro.
P., con il suo De principe, può insomma considerarsi uno dei «molti» che avevano immaginato, scrive M. nel cap. xv del Principe, principati e repubbliche prima di lui. Complessivamente l’impostazione ‘tradizionale’ del trattato di P. si prestava a una rilettura polemica da parte del Segretario fiorentino. La distinzione tra principe e tiranno, che anima le pagine iniziali del trattato di P., rientra senza dubbio nel novero delle classificazioni sgradite a Machiavelli. Si può comunque cogliere una certa subalternità polemica – se è lecito dir così – da parte del Segretario fiorentino nei confronti di opere come il De principe: M. dà talora l’impressione di costruire il proprio progetto in contrapposizione a quanto teorizzato dagli umanisti. Perciò i punti di contatto, anche dal punto di vista strutturale, non mancano: si pensi alla sezione dedicata al tema quales sint amici principum («quali siano gli amici del principe»), che parrebbe riecheggiare in M. nella celebre espressione «resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di uno principe o co’ sudditi o co’ li amici» (Principe xv 1). L’impostazione pedagogica di P. e il suo ordine espositivo – informato e completo, anche se non sempre intelligente, come ha notato Giacomo Ferraù (1992) – erano poi particolarmente ‘comodi’ per un uomo politico colto, come M., le cui letture di prima mano furono probabilmente più selettive e meno pazienti di quelle di un cultore quattrocentesco di studia humanitatis. A questo proposito non è fuori luogo ricordare che il De principe di P. si fonda largamente sull’autorità del De officiis di Cicerone: e proprio il rovesciamento consapevole del De officiis è il fulcro del realismo machiavelliano (ricordo le note immagini della volpe e del leone, che M. riprende appunto da Cicerone – più probabilmente che dalla vita plutarchea di Lisandro; e non si deve escludere la memoria di Dante Inferno XXVII 74-75 – ribaltandone completamente il significato).
Ciò che sicuramente distanzia M. da P. è la critica nei confronti del potere, pressoché assente nell’umanista di Piadena, il quale, anzi, polemizzava apertamente con gli autori che avevano – per usare l’espressione che sarà di Erasmo – «baccheggiato» contro la vita dei principi: tra costoro, in primo luogo, Leon Battista Alberti e il detestato Poggio Bracciolini. Di quest’ultimo P. cita il De infelicitate principum, e tuttavia ostenta distacco da quello scritto così audace e polemico nei confronti del potere, simulando di non ricordare neppure il nome dell’autore (al quale, con civetteria, fa riferimento adoperando l’espressione nescio quis). La dura polemica nei confronti del potere, che animò in particolare gli anni centrali del Quattrocento e che negli scritti albertiani e poggiani si può cogliere con chiarezza, non dispiacque invece a M., che poteva in quelle pagine così disincantate trovare non un ideale (per lui inconcepibile) rifugio nella vita privata, bensì l’analisi viva (e dolente) dei vizi legati al potere. Tutto questo era, al contrario, da P. respinto, in una logica cortigiana tradizionale, che sostanzialmente si fondava sull’elogio puro e semplice del buon principe (P. semmai ammette la critica nei confronti di un potente ostile per ragioni personali, come nel caso di Paolo II). Sarà appunto su questo versante che prenderà corpo la novità del realismo machiavelliano. In M. comporta, però, l’elogio aprioristico dell’uomo di potere, bensì il rovesciamento in positivo delle critiche che la tradizione aveva rinfacciato ai principi. M. realizzerà ciò istituendo la distinzione di fatto tra l’azione politica, che può richiedere di esercitare apparenti vizi, e l’azione privata, in cui la virtù assume tratti diversi che nell’esercizio del potere. Virtù politica significherà in effetti, per M., efficacia: per P. la «virtù» era ancora, per il principe non meno che per l’uomo comune, l’ideale ciceroniano del comportamento integro e irreprensibile. Ciò non significa che il principe immaginato da P. (e in genere il principe descritto nella trattatistica umanistica) fosse del tutto avulso dalla realtà: occorre sgombrare il campo dall’equivoco – indotto dalle note parole machiavelliane sui principi che non si trovano «in vero essere» – che sovente porta a pensare che gli umanisti non parlassero di temi concreti. Le pagine di P. sull’edilizia urbana e sul paesaggio agrario testimoniano, al contrario, la presenza di temi vivi nel trattato, che non è quindi una semplice riproduzione antiquaria di formule antiche.
Un discorso simile può farsi anche per Erasmo, se solo ci si sposta oltre la fatidica data del 1494, che opportunamente è stata indicata come lo spartiacque che ha infranto i sogni umanistici e neoplatonici e che ha appunto reso necessario il richiamo machiavelliano alla verità effettuale (Ferraù 1992): Erasmo, negli anni di M., a sua volta ragionerà non solo di vizi del tiranno e di virtù del principe, ma pure di legislazione, opere pubbliche, tassazione. La misura del realismo machiavelliano, rispetto a P. e agli umanisti, si coglie felicemente a proposito dell’arte militare, dove l’equilibrio virtuoso e ‘antico’ immaginato da P. (la guerra, una volta vinta, deve cessare, affinché i vincitori non appaiano feroci; la cavalleria rimane il corpo militare più nobile) stride con le conclusioni di M., che immagina guerre miranti ad annientare completamente il nemico e che appare impegnato a progettare un corpo di fanteria italiano all’altezza delle temute fanterie contemporanee.
Bibliografia: Liber de vita Christi ac omnium pontificum (aa. 1-1474), a cura di G. Gaida, RIS, t. 3, parte prima, Città di Castello 1913-1932; De optimo cive, a cura di F. Battaglia, Bologna 1942 (pubblicato, con introduzione, assieme al trattato Della vita civile di Matteo Palmieri); De principe, a cura di G. Ferraù, Palermo 1979; De falso et vero bono, a cura di M.G. Blasio, Roma 1999.
Per gli studi critici si vedano: E. Motta, Bartolomeo Platina e papa Paolo II, «Archivio della Società romana di storia patria», 1884, 7, pp. 555-59; P. Scarcia Piacentini, Ricerche sugli antichi inventari della Biblioteca Vaticana. I codici di lavoro di Sisto IV, in Un pontificato ed una città: Sisto IV (1471-1484), Atti del Convegno, Roma 3-7 dicembre 1984, a cura di M. Miglio, Roma 1986, pp. 115-78; Bartolomeo Sacchi il Platina (Piadena 1421 - Roma 1481), Atti del Convegno internazionale di studi per il V centenario, Cremona 14-15 novembre 1981, a cura di A. Campana, P. Medioli Masotti, Padova 1986; G. Ferraù, Per la cultura umanistica di Machiavelli. I principati felici, «Studi umanistici», 1992, 3, pp. 149-64; M.G. Blasio, Interpretazioni storiche e filtri autobiografici nella «Vita Ioannis Milini» di Bartolomeo Platina, in Le due Rome del Quattrocento. Melozzo, Antoniazzo e la cultura artistica del ’400 romano, Atti del Convegno internazionale di studi, Roma 21-24 febbraio 1996, a cura di S. Rossi, S. Valeri, Roma 1997, pp. 1728; G. Lombardi, Sisto IV, in Enciclopedia dei papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 2000, ad vocem; A. Modigliani, Paolo II, in Enciclopedia dei papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 2000, ad vocem; N. Rubinstein, Studies in Italian history in the Middle Ages and the Renaissance, 1° vol., Political thought and the language of politics: art and politics, ed. G. Ciappelli, Roma 2004; F. Bausi, Nello scrittoio del Fonzio, in Id., Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano. Jacopo Bracciolini, Bartolomeo Fonzio, Francesco da Castiglione, Roma 2011, pp. 329-66.