Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le ricerche storiche e filologiche condotte dagli umanisti per tutto il XV secolo consentono il fiorire di studi improntati alle maggiori correnti e figure del pensiero antico. Non più unico pensatore (il filosofo), Aristotele è posto accanto agli altri grandi filosofi dell’età classica ed ellenistica, e soprattutto viene messo a confronto con Platone. In un primo tempo questo confronto mira a stabilire chi, fra il discepolo e il maestro, sia stato più grande e si sia maggiormente avvicinato alla verità, ma dalla fine del Quattrocento, grazie a Ficino e a Pico della Mirandola, prevale un’interpretazione “concordista” secondo la quale le loro divergenze sarebbero state più di metodo e di linguaggio che di contenuto.
Dipinta da Raffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano fra il 1508 e il 1511, la Scuola di Atene documenta in modo straordinariamente efficace come le ricerche storiche e filologiche condotte dagli umanisti per tutto il XV secolo avessero consentito di riscoprire le maggiori correnti e figure del pensiero antico. Ricollocato accanto ai presocratici, ai sofisti, ai grandi filosofi e scienziati dell’età classica ed ellenistica, Aristotele, da secoli chiamato il filosofo, manteneva un ruolo di primo piano, ma era ritornato a essere uno dei numerosi filosofi dell’Antichità. Resta il fatto che, se nel capolavoro di Raffaello riconosciamo Pitagora ed Eraclito (aggiunto in un secondo tempo e raffigurato col volto di Michelangelo), Socrate, Tolomeo, Diogene il Cinico e forse Plotino, centro prospettico dell’intera composizione sono Platone e Aristotele, circondati dai loro numerosi discepoli: il primo ha sottobraccio il Timeo e punta l’indice della mano destra verso il cielo; il secondo tiene l’Etica nella mano sinistra, mentre la destra è aperta, col palmo rivolto verso terra.
Si è molto discusso sulla scelta di questi libri e sul significato simbolico dei gesti di Platone e Aristotele, di cui alcuni hanno sottolineato l’opposizione, altri, più correttamente, la complementarietà. In effetti, se tutti gli affreschi della Stanza della segnatura rivelano un’ispirazione profondamente neoplatonica, nella Scuola di Atene l’influsso, particolarmente evidente, di Marsilio Ficino e di Giovanni Pico della Mirandola porta ad assumere una precisa concezione della filosofia: essa non viene identificata col pensiero di Aristotele, ma nemmeno con quello del solo Platone, bensì in una sintesi delle dottrine di Platone e di Aristotele, considerate le due espressioni più elevate della razionalità umana, distinte ma conciliabili. In questo modo Raffaello registra l’indiscutibile centralità che il tema del confronto (o comparatio) fra questi due filosofi aveva assunto nel corso del Quattrocento. Già discusso nella cultura medievale, questo tema diventa di grande attualità in seguito all’intervento di Giorgio Gemistio Pletone, uno dei dotti bizantini che, nel 1438-1439, partecipa al concilio di Ferrara-Firenze per l’unione fra la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente.
Immobilizzato a Firenze da una malattia, Gemistio Pletone stende in greco un sommario dei punti in cui Aristotele si distingueva da Platone. Egli non si accontenta di sostenere, in conformità a una consolidata tradizione bizantina, che il maestro fu metafisico più grande del discepolo, ma sferra un violento attacco contro l’intera filosofia peripatetica, soffermandosi in particolare su alcune centrali dottrine morali (il giusto mezzo), cosmologiche (l’eternità del mondo, la distinzione fra causalità celeste e terrestre) e teologiche (la negazione dell’attività creatrice di Dio).
L’opuscolo, che suscita polemiche nel mondo bizantino, è oggetto di un vivace dibattito nel circolo degli emigrati Greci raccoltisi a Roma intorno al cardinale Giovanni Bessarione, ma non sembra lasciare traccia fra gli autori latini per un buon ventennio e, sorprendentemente, viene dato alle stampe solo un secolo dopo (1540 e 1541), sotto il titolo di De differentiis Platonis et Aristotelis, insieme a una parafrasi latina. È perciò grazie alla risposta di Giorgio da Trebisonda che la controversia sul “primato” di Platone o di Aristotele assume risonanza universale. L’immagine di Platone come uomo profondamente immorale, creatore di una filosofia irrimediabilmente anticristiana, delineata nella Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis, del 1458, provoca infatti la replica di Bessarione, che nel 1459 stende la prima versione (greca) dell’ In calumniatorem Platonis: testo di capitale importanza, cui egli continua a lavorare per un decennio fino a dargli, grazie all’assistenza di Teodoro Gaza e di Niccolò Perotti, la forma dell’ editio princeps greco-latina del 1469.
Coniugando la sua notevole preparazione storico-filologica con una singolare faziosità, Giorgio da Trebisonda accumula un’impressionante congerie di argomenti, di diseguale valore, a favore di tre tesi principali: Aristotele deve essere considerato il più grande benefattore dell’umanità in ambito filosofico, mentre Platone è stato un pensatore loquace, vacuo e incoerente, il cui contributo scientifico può considerarsi nullo; diversamente da quanto aveva preteso Gemistio Pletone, Aristotele (che avrebbe presentito persino il dogma della Trinità) è assai più vicino al cristianesimo dell’empio Platone, la cui teologia costituirebbe un temibile impasto di superstizioni pagane; al contrario del virtuoso Aristotele, Platone, inoltre, era un “vecchio libidinosissimo”, dedito all’omosessualità e all’ubriachezza, privo di amor di patria, egocentrico e megalomane.
Un attacco di simile violenza travolge i facili tentativi di conciliazione elaborati dai primi umanisti che, rifacendosi a un’antica tradizione ellenistica, islamica e medievale, avevano spesso sostenuto la conciliabilità delle filosofie dei due massimi pensatori greci, affermando che fra di loro non vi erano insanabili contrasti dottrinali ma solo differenze di terminologia e di metodo. Diviene perciò indispensabile riformulare il programma “concordista” in termini più credibili. È quanto Bessarione si propone di fare con l’In calumniatorem Platonis, opera che mira a difendere Platone dalle accuse che Giorgio da Trebisonda gli aveva rivolto, senza per questo schierarsi apertamente contro Aristotele. Malgrado le sue dichiarate simpatie platoniche, Bessarione ostenta perciò una certa equidistanza: se esalta la teoria politica delineata nella Repubblica, ne critica la concezione del matrimonio come inadatta agli uomini comuni, alle cui esigenze riconosce essere più rispondente il pensiero aristotelico; e se rifiuta seccamente ogni pretesa di “santificare” lo Stagirita, non pretende però di “battezzare” Platone, ma ammette che entrambi avevano sostenuto talune dottrine contrarie alla fede cristiana. Nondimeno, essendo consapevole tanto dei diffusi sospetti contro Platone quanto del fatto che da due secoli nelle università di tutta Europa l’insegnamento filosofico si basava sugli scritti di Aristotele, ritenuti superiori per chiarezza e ordine espositivo, Bessarione si premura di mostrare che le ragioni abitualmente addotte per giustificare questa preferenza sono inconsistenti, perché originate da un’incomprensione delle intenzioni che avevano ispirato i Dialoghi la cui forma enigmatica, il cui uso di miti e immagini poetiche nascevano non dalla scarsa preparazione logica dell’autore o da un suo presunto disprezzo per il rigore scientifico, bensì dalla sublime altezza metafisica del suo discorso, che non poteva né doveva esser espresso in termini comprensibili a tutti.
Fautore dell’accordo fra Platone e Aristotele (anche a prezzo di pesanti forzature esegetiche, come l’attribuzione a quest’ultimo della dottrina della preesistenza delle anime), Bessarione non concepisce dunque tale accordo in termini di parità, ma afferma la preminenza del primo, in quanto scaturigine di un itinerario speculativo che il secondo si sarebbe limitato a “metodizzare” e divulgare. “Storicizzando” l’oscurità dei Dialoghi e facendone le fonti di una riposta verità che gli scritti aristotelici avrebbero, in parte, svelato, Bessarione riprende quindi a sua volta il topos secondo cui i dissensi fra i due massimi filosofi greci sono più verbali che reali: ma il suo Aristotele si riduce, secondo uno schema concettuale tipicamente platonico, a un’ombra, un riflesso, una copia terrena e imperfetta del “divino” Platone.
Al di là di alcune eccezioni, la strategia interpretativa messa a punto dal Bessarione ha ottima accoglienza e viene riproposta, con sfumature differenti, da numerosi filosofi del Quattrocento. Se Giovanni Pico della Mirandola, apostolo della “pace filosofica”, ribadisce l’idea di una convergenza totale (“nel significato e nella sostanza”, anche se non “nelle parole”) fra Platone e Aristotele, altri intendono la loro concordia come complementarietà. In questa prospettiva, apertamente sostenuta da Marsilio Ficino e sviluppata da Egidio da Viterbo, a Platone viene riconosciuta una netta supremazia in ambito metafisico e teologico, mentre Aristotele resta la massima autorità in logica e nella filosofia naturale: la conciliazione, quindi, è resa possibile dalla netta demarcazione degli ambiti di ricerca, dei livelli di discorso, dei metodi. La tematica delle differenze e del confronto (comparatio) fra Platone e Aristotele, così come impostata alla metà del Quattrocento da Gemistio Pletone, da Giorgio da Trebisonda e dal Bessarione, viene perciò ritradotta da Pico e Ficino nei termini della concordia. Sarà proprio quest’approccio, che chiaramente guida anche Raffaello in quella “storia illustrata della filosofia antica” che è la Scuola di Atene, a risultare alla lunga vincente. Basta infatti scorrere i titoli dei numerosi trattati cinquecenteschi dedicati ad approfondire la questione dei rapporti fra Platone e Aristotele per constatare la costante insistenza sui motivi della “conciliazione”, del “consenso”, della “sinfonia” fra le loro filosofie.