PLATONE e ARISTOTELE
Sono raccolte in questo articolo le notizie, contenute nelle opere dei due filosofi, che interessano la storia delle arti figurative è la terminologia critica. Non si entra nella esposizione sistematica del pensiero di P. e di A. sulle arti, né nella discussione della estetica derivata dal pensiero dei due filosofi, la cui opera viene qui esaminata esclusivamente quale documento storico.
1. Platone e le arti figurative. - Un'accurata schedatura dei testi delle opere di Platone, che riguardano la pittura, la scenografia, la scultura, l'architettura, l'urbanistica, conduce - indipendentemente da quelle che possano essere le conclusioni di Platone intorno all'arte - ad accertare determinate situazioni storiche di quelle arti stesse. Così, sia pure attraverso la polemica platonica, quei testi, se compresi nel loro significato linguistico, nella posizione in cui si trovano nei dialoghi, nell'epoca - anche se approssimativa - in cui furono scritti (essi rispecchiano da un lato una fase dell'evoluzione del pensiero platonico, dall'altro lato una o altra fase raggiunta da una certa arte), assumono, talvolta, non scarso valore di testimonianza e di fonte per la storia dell'arte greca, e per una possibile interpretazione di un certo modo di concepire l'arte - in particolare la pittura - al tempo di Platone (tra il 400 e il 347), anche se Platone, per certi suoi atteggiamenti, soprattutto etico politici, ne ha "condannate" le ragioni storiche.
Nota, fino ad essere stata banalizzata e astoricizzata è la posizione di Platone nei confronti della poesia in genere (musica, epica, lirica, tragedia, commedia). Comunque, va sottolineato che Platone si riferisce sempre non all'Arte, ma all'arte di oggi. E questo è molto importante. E più importante ancora è ch'egli definisce l'arte di oggi come arte mimetica. Ed è questo, in riferimento all'arte, non un termine coniato da Platone, quanto piuttosto un termine divenuto comune per indicare un certo modo d'intendere la rappresentazione artistica, volta, appunto - come risulta proprio dai testi platonici -, alla ricerca di tecniche capaci di creare opere che diano l'apparenza della realtà, in ciò che la realtà appare. È qui che sorge la polemica platonica. E la polemica non è tra poesia e non poesia, tra arte e non arte, ma tra un modo di concepire il tutto (il modo platonico, teso a rintracciare un ordine costituito, trascendente ed eterno, vero, su cui uniformare l'ordine sociale, entro i termini di una determinata lotta politica) e un'altra concezione che s'era venuta delineando attraverso un Anassagora e un Democrito, attraverso un Gorgia e un Protagora e che, se da un lato rispondeva a un modo nuovo d'intendere il rapporto politico, dall'altro impostava il problema della realtà su di un piano sperimentale e concreto, e logico-linguistico. E allora se scientificamente la questione si risolveva non nel cercare ragioni o principi intelligenti (il perché), ma condizioni logiche che permettano di rendersi conto del costituirsi del reale (l'atomismo democriteo, ad esempio), sul piano gnoseologico reali sono, invece, le cose quali appaiono alla coscienza e quali, dunque, vengono espresse linguisticamente, onde vero e falso non sono in sé, ma lo sono nel discorso. La realtà perciò è quale appare nella sua concretezza, nei suoi colori e nelle sue forme. Se, dunque, Platone, nella sua polemica, per il pericolo ch'egli vedeva alla conservazione di uno Stato ordinato su di un ordine trascendente e dato, era portato a scolorire la realtà, fino a determinarla in un cosmo di pure forme, senza colori (cfr. Fedro, 247 c; Epinomide, 981 b) e contenuti, geometrico, si capisce la sua cosiddetta condanna dell'arte mimetica di oggi, che, appunto, allontana dal Vero giocando sulle apparenze e sugli affetti. Ma si capisce anche il significato di quel termine mimèsi, indicante un "realismo" che doveva non poco dispiacere ai conservatori dell'epoca.
Se, com'è chiaro, per i suoi fini, Platone vedeva il massimo pericolo nella poesia del suo tempo, in tutto il suo complesso (epica, lirica, ma particolarmente tragedia e commedia), è altrettanto chiaro perché Platone, dopo la poesia, vedesse di malocchio, più di ogni altra arte, la pittura e non tanto la pittura arcaica (colori che riempiono disegni) quanto la pittura, diciamo così, moderna, che con l'impasto dei colori, con la perdita della geometricità del disegno, con la prospettiva, dà l'illusione di riprodurre (mimèsi) la realtà come essa appare. E che tale fosse la "pittura moderna" è documentato, attraverso la polemica, dallo stesso Platone, come risulta dall'analisi (Bianchi Bandinelli) di un noto passo del Sofista, parallelo, anche se posteriore, al celebre testo del X libro della Repubblica ove, parlando dei pittori, si dice ch'essi sono degli illusionisti.
a) Pittura e scenografia. - Nel testo della Repubblica, prima di venire a dimostrare i pericoli della poesia, Platone, per chiarire in che consista l'arte mimetica, prende ad esempio l'arte del pittore. Il pittore non solo è l'artigiano capace di raffigurare tutte le cose, producendo quindi parvenze di parvenze (le stesse cose che noi diciamo reali non sono che copie delle essenze), ma soprattutto è capace mediante certe tecniche (la prospettiva, σκιαγραϕία: cfr. Repubblica, 602 d, i; anche 365 c, 523 b, 583 b, 586 b) d'ingannare chi guarda l'opera sua.
"Quale fine si propone la pittura (ἡ γραϕιχή)? Tende a imitare (μιμήσασϑαι) quello che è l'essere quale veramente è, o quella che ne è l'apparenza così appunto come appare? È dunque imitazione (μίμησις) di un'apparenza (ϕαντασματος) o della verità (ἀληϑείας) ? - Di un'apparenza (ϕαντάσματος)! ... E così, diciamo, un pittore ci dipingerà un calzolaio, un falegname, un qualsivoglia altro operaio, senza conoscere affatto quella che è l'arte di ciascuno: eppure se il pittore è bravo, dipinto un falegname e mostrandolo da lontano (πρόρρωϑεν ἐπιδευκνύς), potrebbe ingannare fanciulli e ignoranti, facendo creder loro che sia un falegname davvero (Rep., 598 a-c). .... La pittura in prospettiva (ἡ σκιαγραϕία), puntando sulla affettività (πάϑημα) della nostra natura, usa tutte le sue arti ciarlatanesche (γοητεία)" (Rep., 602 d).
Sia pur negando valore a tale tipo di pittura, Platone ne documenta intanto l'esistenza a lui contemporanea (la Repubblica fu composta tra il 380 e il 370 circa).
Nel Sofista (composto tra il 360 e il 350) Platone, per giungere a dire che il Sofista è un illusionista (τῶν ϑαυματοποιῶν τις εἶς: 235 b, s), trae l'esempio dal pittore (il cui ingegno, nella Repubblica, 596 d, era stato definito ϑαυμαστός: πάνυ ϑαυμαστόν λέγεις σοϕιστήν), ricalcando, almeno in parte, le pagine della Repubblica.
"Chi dice d'essere capace di produrre tutte le cose con un'arte sola (μιᾷ τέχνῃ), sappiamo bene che non fabbricherà altro che delle imitazioni e degli omonimi della realtà (μιμήματα καὶ ὁμώνυμα τῶν ὄντων), mediante la tecnica del disegno (τῇ γραϕικῇ τέχνῃ) e mostrando da lontano i suoi disegni (πόρρωϑεν τὰ γεγραμμένα ἐπιδεικνύς) ai più innocenti tra i giovani fanciulli, darà loro l'illusione che sa creare la realtà vera di tutto ciò ch'egli desidera fare" (Sof., 234 b).
Sia nella Repubblica che nel Sofista, Platone è, dunque, in polemica con un certo tipo di pittura. Ma ciò che più importa, storicamente, è che Platone, tentando una definizione precisa della mimèsi, distingue tra una mimèsi icastica (εἰκαστική) e una mimèsi fantastica (ϕανταστική), e che mentre approva l'una (l'icastica), perché risponde al suo ideale, nega l'altra (la fantastica) perché, appunto, rappresenta per vero ciò che non è altro che apparenza, mediante nuove tecniche. E non sembra senza interesse che già nella Repubblica quel tipo di pittura fosse stata detta fantastica.
La icastica è l'arte che riproduce esattamente il vero (non ciò che appare reale):
"Questa si trova specialmente quando uno realizza una imitazione rappresentando il suo modello in modo da mantenerne le esatte proporzioni in lunghezza, larghezza e profondità, e, oltre a ciò, fornisce anche i colori che convengono a ciascun particolare. Ma come? Forse che non cercano di fare ciò tutti coloro che imitano qualcosa? Direi che non lo facciano almeno tutti quelli che prendono a modellare (πλάττειν) o dipingere (γράϕειν) qualche cosa di grande. Se riproducessero la reale proporzione di queste cose belle, sai che le parti superiori ci apparirebbero troppo piccole e le parti inferiori troppo grandi, poiché vediamo le une da vicino e le altre da lontano. Certo... oggi (νῦν) gli artefici, dicendo addio alla verità, non le proporzioni effettive, ma quelle che sembrano essere belle elaborano nelle loro immagini" (Sofista, 235 d, 236 a); (cfr. anche Protagora, 356 c).
E allora, mentre l'arte che riproduce il vero è detta icastica, fantastica è detta l'arte che esegue non una riproduzione, ma una parvenza (ϕάντασμα). E tale, appunto, è l'arte di oggi (νῦν). Platone, dunque, distingue nettamente due tipi di arte pittorica, l'icastica e la fantastica, rispondenti a due concezioni diverse, tradizionale l'una (icastica), nuova l'altra (fantastica). Non solo, ma la fantastica si realizza in quanto usa una nuova tecnica, cioè la prospettiva (σκιαγραϕία). Già questo era detto nella Repubblica, solo che nella Repubblica si trattava di figure singole. Qua, nel Sofista, per meglio giungere alla definizione della mimetica fantastica, usata dagli artefici di oggi, Platone si riferisce a quanti modellano o dipingono qualche cosa di grande e, appunto per ciò, non riproducono la reale proporzione delle cose belle, dei modelli, ma usano tecniche che, ingannando, danno l'apparenza del reale, soprattutto quando sono guardate dal punto di vista migliore (ἐκ καλοῦ ϑέαν: 236 b, 4). E che si tratti di prospettiva è confermato anche da un passo delle Leggi (663 c), in cui si sostiene che il giusto e l'ingiusto possono essere falsati dalla prospettiva (σκιαγραϕία), a seconda cioè del punto di vista da cui vengon considerati. A cosa allora allude Platone nel passo del Sofista in questione? Evidentemente, com'è stato oramai accertato (Bianchi Bandinelli), alle scene teatrali. Le scene teatrali sono grandi, vi è un alto e un basso (236 a, i), sono insieme opera di plastica (modellare, πλάττειν) e di pittura (dipingere, γράϕειν), dove chi guarda deve porsi dal punto di vista migliore. A tal proposito, anzi, non va dimenticato che Platone, sempre per le stesse ragioni, è in polemica serrata contro il teatro in genere, e basti, qui, ricordare quel testo della Repubblica ove si dice: "Gli amanti degli spettacoli e dei suoni si dilettano delle belle voci, dei bei colori, delle belle forme e di tutte le opere belle: ma non sanno tuttavia vedere ed amare la natura del bello in sé" (476 b).
E poi non va dimenticato che lo stesso termine "mimèsi" deriva da μιμεῖσϑαι, rappresentare mediante il mimo, la danza, ed è termine legato, dunque, al teatro (coragico e tragico) dionisiaco. Non solo, ma che si tratti di prospettiva scenica è confermato da una pagina del più antico Fedone, che assume ora un preciso significato, e rivela come le grandi pitture sceniche si possano far risalire al 390 circa.
"Non si ha virtù vera se non è accompagnata dal sapere, ci siano o non ci siano piaceri e paure e tutte le altre passioni di questo genere. E quando codeste passioni non siano accompagnate dal sapere e barattate tra di loro, badiamo che allora cotale virtù non sia come uno scenario dipinto (μὴ σκιαγραϕια τις ῇ), virtù veramente da schiavi, senza nulla di saldo né di reale" (Fedone, 69 b).
E non senza interesse, sembra, proprio per la questione del punto di vista migliore, riferentesi, più che a statue da collocare in alto, agli scenarî, il seguente testo del Teeteto, composto tra la Repubblica e il Sofista: "Se non che, caro Teeteto, ora che mi sono avvicinato un po' di più a quel che stiamo dicendo, come chi si avvicina a uno scenario dipinto (σκιαγραϕία), non ne capisco più niente del tutto; mentre finché ne stavo discosto, qualcosa mi pareva pure che si dicesse" (Teeteto, 208 e).
Per quale veicolo dovette avvenire il passaggio dalla prospettiva limitata ai singoli corpi, quale vigeva già attorno al 460, alla prospettiva "assonometrica" d'attorno al 350? Dovremo convincerci che il veicolo fu la scenografia. Questo fatto, oramai acquisito dagli studî", ci dà la vera chiave per interpretare le parole di Platone. Al suo tempo la pittura non era ancora giunta a una rappresentazione così estesa del mondo visivo, specialmente per quanto riguarda il paesaggio, quale è presupposto dai testi platonici: quelle rappresentazioni di figure e di paesaggi di grandi proporzioni, che ingannano l'occhio dello spettatore ingenuo che le guarda da lontano, non possono essere che scenografie; sono esse e non le megalografie nel significato tardo-ellenistico, "le cose grandi" che, se potessero esser viste da un punto di vista diverso da quello per il quale sono state approntate, rivelerebbero la irrealtà della loro apparenza. E skiagraphia è stato dimostrato termine strettamente connesso con la tecnica teatrale. Vitruvio (vii, praef. 10-11) dice chiaramente che Agatharchos (tra il 470 e il 450 a. C.) dipinse per Eschilo delle scene con effetti prospettici, e che da queste Anassagora, e poi Democrito, trassero lo spunto per la teoria ottico-matematica della prospettiva. E che le prime scene fossero dei fondali dipinti scorrevoli su antenne, è sostenuto con persuasivi argomenti dai più recenti studî sul teatro antico" (Bianchi Bandinelli). Non solo, ma è oramai accertato che del tempo del Sofista è il frammento di ceramica che si trova presso l'Università di Würzburg, rappresentante una perfetta fronte scenica in esatta prospettiva, assonometria architettonica, con, in più, figure più piccole e più grandi a seconda della loro distanza (cfr. H. Bulle, Eme Skenographie, in 94. Ben. Winckelmannspr., 1934; Bianchi Bandinelli). Risulta così che nel secolo che va da Agatharchos alla morte di Platone la pittura ebbe un progressivo diversificarsi in un passaggio dalla, diciamo, mimèsi icastica alla fantastica, in una progressiva "laicizzazione", dovuta a tutto un modo d'intendere che ebbe le sue origini sulla linea che va da un Anassagora, a un Democrito, a un Epicuro (in netto contrasto con la visione platonica di un mondo teocraticamente scandentesi in ben fissi gradi), in un intreccio di ritrovati tecnici e di teorie scientifiche che si vennero influenzando reciprocamente, cangiando una certa visione del mondo. Si pensi così al passaggio dalla geometria piana alla stereometria, avvenuto proprio al tempo di Platone, e di cui vi è indizio nella Repubblica, in cui la stereometria è appena nota, e nel Teeteto e poi nel Timeo e nelle Leggi in cui la stereometria è sempre più conosciuta e discussa; si pensi alle conseguenti discussioni sulle proiezioni, sulle leggi ottiche, sulle rifrazioni degli specchi, trattate da Platone nel Timeo, ove per altra via si ritorna alla questione della prospettiva e degli inganni ottici, ed infine alle generazioni coniche di Menechmos, del tempo di Platone.
Chiarita in tal modo la polemica platonica, particolarmente nei confronti della pittura prospettica e della scenografia, della mimèsi fantastica (l'arte di oggi), restano da vedere tutti gli altri testi relativi alla pittura, intesa sempre come artigianato - e si badi che il greco non ha se non il termine tèchne per indicare tutte le arti figurativo-plastiche - testi in cui Platone si riferisce alla pittura per esemplificazione, ma che servono da un lato a mostrare la propensione di Platone per l'icastica, o meglio per quella pittura che - simbolico-arcaica - rappresenti, imiti le cose quali sono, nelle loro esatte proporzioni (una pittura geometrica che riempia di colori non impastati, ma quali sono in natura, le parti), sì che ne vengan fuori delle ideografie; dall'altro lato, a mostrare, ancora attraverso la polemica, quali fossero certe tecniche usate dai pittori del tempo e certi termini divenuti ormai tecnici nell'ambiente dell'artigianato pittorico.
Sembra così importante ricordare che se nel Protagora (312 c-d), dialogo abbastanza giovanile, Platone afferma che la sapienza propria dei pittori consiste nel rappresentare immagini (ove va sottolineato che il termine usato è εἰκών e non ϕάντασμα), nel Gorgia, del tempo circa del Protagora, loda i pittori - come tutti gli altri artigiani - perché "sanno con ordine disporre le parti del proprio lavoro, cercando che ogni parte si adatti e si armonizzi con l'altra, finché il tutto risulti come un'opera bella per l'ordine e la proporzione" (Gorgia, 503 e-5o4 b).
Qui non vi è ombra di polemica, ma la constatazione di un tipo di pittura, quella che "dipinge figure le quali somigliano perfettamente agli oggetti da ritrarre" (Repubblica, 377 e). Evidentemente Platone non si riferisce qui alla fantastica, ma all'icastica, e particolarmente, diremmo, alla pittura ornamentale, nel senso della coloritura di parti di oggetti e di statue - colori accanto a colori - sì che per Platone ne risulti un tutto armonico e misurato, specchio, o immagine, di quello che è l'ordine e il ritmo del tutto nella sua essenza. Nel Filebo, una delle opere tarde di Platone, in cui il motivo della misura e del tutto inteso in ordini geometrici e matematici, è giunto al suo massimo svolgimento, abbiamo un'affermazione significativa: "Voglio ora indicare come bellezza delle figure non ciò che intenderebbero i più, non voglio parlare cioè degli esseri viventi o di certe pitture che li raffigurano, ma... mi riferisco a qualche cosa che è retto, a qualche cosa che è circolare, e alle loro composizioni che si realizzano col compasso, superfici e solidi, e quanto si fa con la stecca e con la squadra... Queste figure, infatti, io non le dico belle [e si ricordi il significato morale del termine bello nel linguaggio platonico] come le altre in relazione a qualche cosa, ma sono belle in sé, per la loro natura, secondo se stesse e la loro bellezza non vien mai meno... E così ci sono colori belli di questo tipo ..." (Filebo, 51 c-d).
Nell'ideale platonico gli stessi colori debbono essere essenziali, puri (cfr. Cratilo, 434 a-b), non mescolati, donde, appunto, il suo propendere per la pittura a colori piani, e per la coloritura di parti di oggetti che mantengono le loro effettive proporzioni, che era, da parte di Platone, per certe sue ragioni, un rimaner legato a quel tipo di pittura (nel suo originario significato di γραϕική, cioè disegno) tipica delle antiche civiltà orientali e di quella greca fino all'inizio del V sec. (non è una questione di puro gusto, in effetto, il richiamo platonico al tipo di pittura e di arte in genere, propria dell'Egitto, ove nulla, esclama Platone, è da secoli mutato: cfr. Leggi, 656 d-e).
"La vera terra, chi la guardi dall'alto, ha l'aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi, iridescente, e come intarsiata di diversi colori; e di codesti colori perfino quelli che adoperano i pittori qui da noi sono immagini appena. E tutta quanta la terra lassù è colorata di colori siffatti, e assai più rilucenti e puri di questi di qui: parte infatti è porporina... parte ha lo splendore dell'oro, parte, tutta quella che è bianca, è più bianca del gesso e della neve; e così dico di tutti gli altri colori che la colorano nel rimanente..." (Fedone, 110 b-c: si confrontino anche i colori del fuso della necessità, descritti nel x della Repubblica, 6115 d ss.).
Il testo del Fedone è inserito in un mito, in cui si dà una rappresentazione, appunto mitica, corposa, dell'ordine e della bellezza (misura) cosmiche. Il testo del Filebo (della piena maturità) giunge al massimo dell'astrazione, della geometrizzazione di quella misura. Tra l'uno e l'altro testo, mentre da un lato ci si serve, per esemplificazione, di dati tratti dalla pittura artigianale volta all'ornamentazione, che rappresenti quell'ordine e quella misura; dall'altro lato, prendendo spunto dalla pittura prospettica e scenografica, che si faceva avanti negli anni che vanno dal Fedone al Filebo, s'intensifica sempre più la polemica contro la pittura "illusionistica" e "sofistica".
"I discorsi ben costruiti (εὐλογία), l'armonia (εὐαρμοστία), il decoro (εὐσχημοσύνη) e l'euritmia (εὐρυϑμία) sbocciano dalla semplicità dell'anima, non quella che, per così dire, da stoltezza, che è, chiamiamo dabbenaggine, ma da quella disposizione di un carattere che si è davvero formato bene e moralmente... E di queste qualità è piena anche la pittura (γραϕική) e ogni opera [si sottolinei che il testo ha δημιουργία] del genere, l'arte tessile e quella dell'ornato (ὑϕαντικὴ καὶ ποικιλία)" (Rep., 400-401 a).
L'accostamento della pittura alla ὑϕαντική e alla ποικιλία, rivela esattamente a quale tipo di pittura pensasse qui Platone, sì come quest'altro passo della Repubblica (529 e) in cui si parla di fregi dipinti nei soffitti (529 a), che possono avviare allo studio della geometria.
"I ricami del cielo debbono servirci a mo' d'esempio (τῇ περὶ τὸν οὐρανὸν ποικιλίᾳ παραδείγμασι χρηστέον...) per intendere quelli del mondo intelligibile sì come uno che si trovasse dinanzi a magnifici disegni dipinti da Dedalo o da qualche altro artefice o pittore (ὑπὸ Δαιδάλου ἤ τινος ἄλλου δεμιουργοῦ ἢ γραϕέως διαϕερόντως γεγραμμένοις διαγράμμασιν). Se un esperto in geometria vedesse quei disegni direbbe che sono eseguiti a perfezione, ma troverebbe ridicolo studiarli seriamente per cogliere in essi quella che è la verità intorno all'eguaglianza, al doppio, o intorno a qualsivoglia altra proporzione" (Rep., 529 e).
Sempre entro quest'àmbito di una pittura ideografica e simbolica, che sia copia dei paradigmi delle cose, visibili con l'occhio della mente - ed è evidente, nell'esemplificazione, l'appello alla pittura simbolico-arcaica - prende la sua giusta luce il seguente testo:
"Ti sembra forse che ci sia una qualche differenza fra chi è cieco e chi non ha nessuna conoscenza della realtà, nella sua essenza, che non ha nell'anima nessun paradigma chiaro, né sa guardare, come fanno i pittori, la suprema verità (εἰς τὸ ἀληϑέστατον ἀποβλέποντες), sempre a quella attenti...? (Rep., 484 c). E se non si conosce ciò che veramente è, come si potrà distinguere quello che è fatto bene da quello che non lo è ?... Come mai si potrà sapere, se si ignora in che consiste ciascuno dei corpi che vengono imitati in queste rappresentazioni .... Si potrà mai conoscere, ad esempio, se le proporzioni del corpo e la dislocazione delle singole parti sono state rispettate, se quelle corrispondono all'oggetto rappresentato e se sono stati mantenuti i loro reciproci rapporti entro il dovuto ordine - e lo stesso si ripeta per i colori e per lo schema - oppure se tutto questo non è stato eseguito che approssimativamente ?... Se sapessimo invece che la figura dipinta o modellata è un uomo, di cui l'arte ha rispettato tutte le sue parti, come i suoi colori e contorni ? Chi sapesse questo non riuscirebbe per forza a scoprire senza fatica se bella è l'opera o se in qualche modo abbia un qualche difetto?" (Leggi, 668 d -669 a; cfr. anche Crizia, 107 b-c).
E così per questa parte relativa alla pittura riferentesi alla pittura geometrica e per accostamenti di colori, simile in questo ai tessuti a colori e ai ricami, o alla coloritura di parti di oggetti artificiali che sembrino reali, senza illudere sulla loro essenza, sembra utile ricordare il testo di Platone sulle statue dipinte:
"Se mentre si dipinge una statua (a ἀνδρίαντα γράϕοντας) si avvicina un tale e ci rimprovera di non dare i più bei colori alle parti più belle del corpo, avendo noi dipinto gli occhi, che son davvero la parte più bella, non in rosso ma in nero, saremmo, io credo, nel nostro diritto se ci giustificassimo rispondendogli: O sorprendente uomo, non credere che si debban dipingere occhi sì belli che più non sembrino occhi, né così di altre parti; guarda piuttosto se, dando ad ogni parte quel che le è proprio, rendiamo bello tutto l'insieme (τὸ ὅλον καλὸν ποιοῦμεν)" (Rep., 420 c-d).
Se le citazioni ora riportate chiariscono ciò che Platone avrebbe voluto dalla pittura - coerentemente con tutto il suo atteggiamento - e rivelano che le esemplificazioni sono riprese dalla pittura tradizionale - coloritura di parti di templi, di statue, di rilievi, di oggetti, di disegni geometrici ornanti pareti e soffitti, di quadretti votivi: per questi ultimi cfr. Leggi, 956 a-b - vi è tutta un'altra serie di testi che si trovano proprio là dove Platone scarta il tipo di pittura illusionistica, che testimoniano di certe tecniche e di un linguaggio proprio dei pittori.
Accanto al termine skiagraphèma (cfr. Teeteto, 208 e) e al termine skiagraphia (cfr. Crizia, 107 c; Fedone, 69 b; Leggi, 663 c; Parmenide, 165 c; Repubblica, 365 c, 523 b, 583 b, 586 b, 602 d), indicante la prospettiva (dal suo originario significato di pittura ad ombra), sembra interessante che nelle Leggi (lasciate incompiute da Platone, perché còlto dalla morte, 347), si dicano termini proprî del linguaggio pittorico, i termini intensificare (χραίνειν) e schiarire (ἀποχραίνειν).
"Sai che il lavoro dei pittori, nel ritrarre una qualsivoglia figura, sembra non aver mai fine; sembra anzi che per rendere ogni figura più compiuta, senza paura lavorino a intensificare o a schiarire (χραίνειν ἤ ἀποχραίνειν) i colori o comunque i figli dei pittori chiamino tali operazioni tecniche - tanto da non giungere mai al punto in cui i loro dipinti non possan più nulla guadagnare in bellezza ed espressione (καλλίω τε καί ϕανερώτερα)" (Leggi, 769 a-b).
E qui oltre i due termini tecnici, indicanti per altra via l'abbandono della coloritura di parti disegnate, ponendo colori accanto a colori, va ricordata la tecnica dell'impasto dei colori, come chiaramente risulta da un testo del Cratilo in cui si dice: "Quando i pittori vogliono ritrarre alcunché, talvolta applicano il solo color di porpora, talaltra qualsiasi altro, e ci sono casi in cui ne mescolano insieme parecchi (ἔστι δὲ ὅτε πολλα συγκεράσαντες...)" (4 Cratilo, 24 d-e; cfr. anche Rep., 501 b: la discussione che, invece, si ha sui colori nel Timeo, 68 a-b, può servire per sapere come si componessero i colori al tempo di Platone).
D'altra parte nel testo delle Leggi sopra citato è da sottolineare quel figli dei pittori, ché sta ad indicare, ancora una volta, come la pittura greca fosse essenzialmente artigianesca - nel senso più alto della parola, sia pur con firme di grandi pittori, ben lungi tuttavia dal nostro concetto di creatività, che è sempre una distorsione quando lo si vuole applicare alla storia dell'arte antica - e che sta, ad esempio in medicina, alle scuole mediche, ai "figli di Asklepios"; e così è da tener presente che nel seguito del discorso Platone per dimostrare che in campo legislativo le leggi, una volta dettate, debbono via via esser modificate nel tempo perché si perfezionino e rispondano sempre più a ciò per cui furono emanate, prende esempio dai pittori e dai discepoli dei pittori, che restaurano e perfezionano l'opera del maestro: "Se un pittore, essendo mortale, non lasciasse un successore (διάδοχος) che restaurasse il dipinto dalle ingiurie del tempo, e che avesse inoltre la capacità di perfezionarlo aggiungendoci ciò ch'egli stesso ha lasciato incompiuto per incapacità tecnica (ὑπὸ τῆς ἀσϑενείας τῆς ἑαυτοῦ πρὸς τῆν τέχνην), non assicurerebbe a questa sua faticata opera che una molto breve durata" (Leggi, 769 b-c).
Vi è qui un accenno a un metodo di lavoro, di bottega e di scuola, che può essere indicativo di una continua ricerca di tecniche nuove e di un trasformarsi e rifarsi delle stesse pitture, proprio per questo - a parte il tempo e i deterioramenti - andate perdute.
Nel Cratilo, uno dei dialoghi più tormentati di Platone - composto tra la Repubblica e il gruppo di opere che va dal Teeteto al Filebo -, in cui è impostato il problema del linguaggio e messo in discussione se il discorso possa ripercorrere le strutture della realtà e se i nomi si adeguino o meno agli oggetti di cui essi dovrebbero essere imitazione (se siano ϕύσει o νόμῳ), più che la polemica è chiaro il dubbio in cui venne a trovarsi Platone di fronte ai divieti logico-linguistici messi in chiaro da uomini come Antistene, Euclide di Mègara, Eubulide, la portata delle cui conclusioni non solo poneva in crisi lo sforzo platonico di discorrere di un ordine ontologico, ma portava a una visione del mondo e dei rapporti umani, sul piano della linea segnata da un Gorgia, da un Protagora, da un Prodico e dalla corrente fisica e antiteologica, esattamente opposta a quella voluta da Platone. Platone, preoccupato di salvare le essenze, e sempre quelle presupponendo - extrapolando in ciò da come, in effetto, era stato posto il problema dai logico-dialettici - giunge alla conclusione che v'è una sperequazione tra l'oggetto significato e il significante, e che la giustezza del nome non la si può cogliere se prima non si conosce la essenza di cui il nome dovrebbe essere immagine (Cratilo, 438-439). A parte la contraddizione e il circolo vizioso di tale conclusione, ciò che ora interessa è il nome e conseguentemente il discorso posti come immagini deformanti e l'analogia tra nomi e discorsi da un lato che dovrebbero essere immagini delle essenze e, dall'altro lato, suoni e colori, immagini del suono, della figura e del colore delle cose (Cratilo, 423 d-424 a). Così per giungere a chiarire che il discorso è un abile saper comporre insieme gli elementi fonici, le sillabe, e quindi i nomi e i verbi e infine le proposizioni in un tutt'uno plastico e dialettico, Platone ricorre, per esempio, all'arte pittorica che, distinguendo i colori, li sa poi impastare insieme, realizzando un'opera che ha l'apparenza di ciò che si vuol ritrarre (Cratilo, 424 d-e, 431 c):
"siccome lì la figura con l'arte pittorica, qui la proposizione con l'arte del denominare e del dire, o comunque si voglia chiamare (425 a)... Se di nuovo assomigliamo i primi nomi a dipinti, può darsi che, come nei dipinti, talvolta s'impieghino tutti i colori e i tratti, talvolta non tutti" (Cratilo, 431 c).
Ora, l'analogia tra il discorso e la pittura (qui non a caso accostata all'arte di comporre suoni: Cratilo, 423 d), per cui la pittura è una specie di discorso, se da un lato è stata suggerita a Platone dal fatto che tanto il discorso quanto la raffigurazione pittorica sono deformanti le essenze (e ciò rientra nel discorso di sopra), dall'altro lato è stata suggerita dal fatto che già al tempo di Platone - e sono frasi cristallizzate, dunque oramai tradizionali - la pittura, come la musica, è intesa come un linguaggio, onde reciprocamente termini musicali si usano per la pittura e termini pittorici per la musica.
"E così diremo che anche il poeta, in un certo qual modo, colorisce ciascun'arte con i suoi colori (Rep., 6o1 a), il ritmo e l'armonia (Rep., 398 d). Se descrivendo un canto è giusto dire che è ben ritmato, se descrivendo un gesto che è ben misurato, dell'uno e dell'altro non è giusto dire che è ben colorito, secondo l'espressione inventata dai maestri dei cori" (Leggi, 655 a).
Ancora: vi è nel Cratilo (430 a-e) un accenno al ritratto pittorico. È un accenno appena, ma tale che chiaramente rivela l'esistenza, almeno al tempo del Cratilo (del 360 circa), del ritratto realistico, fisionomico, frutto evidentemente non della corrente icastica e ideografico-geometrica, ma della corrente nuova, la corrente fantastica e prospettica, che chiaramente s'innesta entro i termini dell'atteggiamento culturale contro cui, si è veduto, combatteva Platone. Non solo, ma se di ritratto si può già parlare in scultura, in scultura però il ritratto aveva assunto, com'è noto, il carattere della "tipizzazione", mentre in questo accenno del Cratilo sembra che, almeno in pittura, si possa parlare di ritratti individuali, e non tanto di ritratti di grandi personaggi "tipizzati", come era nella scultura, quanto proprio di ritratti di una o di altra persona (v. ritratto).
Ammesso, dunque, leggiamo nel Cratilo, che "il nome sia imitazione dell'oggetto" (430 a 7-8) e che "anche le pitture, pur se in altro senso, siano imitazione di certi oggetti" (430 a 10), e che giusti siano il nome e la figura che corrispondono all'oggetto rappresentato, mentre se nome e figura non somigliano all'oggetto, essi sono ingiusti e falsi (430 b-d), all'obbiezione che "il non attribuir giusto, accada, sì, nei dipinti, ma non già nei nomi" (430 d 8), si risponde:
"In che l'una cosa differisce dall'altra? Non è forse possibile andare incontro a un uomo e dirgli: Questo è il tuo ritratto (τουτί ἔστι σὸν γράμμα), mostrandogli a caso la sua immagine o quella di una donna? E con mostrare (δείξαι) voglio dire: porre sotto il senso della vista!... E che? Forse non anche, andando di nuovo incontro allo stesso uomo, dirgli: Questo è il tuo nome? Anche il nome è, mi pare, una imitazione come la pittura..." (430 e).
Si potrebbe dire che anche qui si tratta del tipo uomo o del tipo donna, solo che al principio del Cratilo, discorrendo dei nomi propri di persona - e non si dimentichi che nomi e pitture sono stati assomigliati - ci si domandava: "Per tutti gli uomini, quel nome con cui chiamiamo ciascuno, questo è per ciascuno il suo nome?" (383 b). Non solo, ma che Platone pensasse proprio al ritratto individuale e fisionomico è chiaramente testimoniato dalla seguente affermazione: "Forse che, per esempio, Cratilo e l'immagine (εἰκών) di Cratilo, queste due cose distinte, se un dio non solo riproducesse, come fanno i pittori, il tuo (σόν) colorito (χρῶμα) e la figura (σχῆμα) ma anche tutta la tua interiorità (τὰ ἐντὸς πάντα)" (432 b); dove è evidente che si tratta di ritratti di singoli. A tal proposito, anzi, bisogna ricordare che quando Platone parla delle statue le chiama andriàntes (cfr. Rep., 361 d, 420 c, 514 e; Eutidemo, 299 c), mentre, qui, parlando del ritratto pittorico lo dice eikòn. La questione può essere assai interessante quando si pensi che Pausania ha talvolta indicato con andriàs una statua in quanto pura rappresentazione e con eikòn una statua che fosse ritratto fisionomico di una certa persona e che Plinio afferma che mentre a tutti i vincitori ad Olimpia era dedicata una statua, a coloro che avevano vinto tre volte si dedicavano statue che ritraevano la fisionomia del tre volte olimpionico: eorum vero qui ter ibi superavissent ex membris ipsorum similitudine expressa, quas ‛iconicas, vocant " (Plin., Nat. hist., xxxiv, 16; ma anche xxxv, 57).
Non è, infine, possibile, in questa rassegna di testi platonici riguardanti la pittura, tacere un testo del Timeo ove si accenna alle pitture a fuoco o a encausto, e un testo dell'Epinomide ove si parla di pitture fatte con materie secche e umide. "Con grande, infantile gioia, si ascoltavano allora quelle cose, e poiché il vecchio me le insegnava così generosamente, e io non mi stancavo di interrogarlo, ecco perché mi sono rimaste così impresse, quali incancellabili pitture fatte a fuoco (εγκαύματα)" (Timeo, 26 c: cfr. Plin., Nat. hist., xxxv, 149).
"Nell'attività mimetica rientrano le arti della parola, la Musa tutta, tutte quelle arti di cui è madre la pittura, ove molte e varie figure vengono eseguite con materie umide e secche (ὑγροῖς καὶ ξηροῖς)" (Epinomide, 975 d).
Per concludere sulla pittura è utile ricordare anche un testo dell'Eutifrone (dialogo giovanile), in cui abbiamo testimonianza dei contenuti narrativi usati dai pittori:
"E dunque credi tu che veramente tra gli dèi ci siano guerre e inimicizie terribili, e battaglie e altre discordie molte di questo genere, quali i poeti ci raccontano, e i nostri bravi pittori ci raffigurano nei templi, e di cui è tutto istoriato anche il peplo che nelle grandi Panatenèe si porta in processione all'Acropoli? (Eutirone, 6 b-c) (... ὑπὸ τῶν ἀγαϑῶν γραϕέων τὰ τε ἄλλα ἱερὰ ἡμῖν καταπεποίκιλται, καὶ δὴ καὶ τοῖς μεγάλοις Παναϑηναίοις ὁ πέπλος μεστὸς τῶν τοιούτων ποικιλμάτων ἀνάγεται εἰς τὴν ἀκρόπολιν).
Quattro soli sono i pittori citati direttamente da Platone: Polignoto, figlio di Aglaophon (Ione, 533 a; Gorgia,448 b); Aristophon, fratello di Polignoto (Gorgia, 448 b); e Zeusi (Gorgia, 453 c-d; Protagora, 318 b-c). Sono citazioni appena:
"se Gorgia esercitasse l'arte di Aristophon, figlio di Aglaophon o del fratello di quello, come dovremmo chiamarlo..... Pittore (Gorgia); La pittura non è tutta un'arte? - Sì - Ma non ci sono e ci sono stati anche molti pittori buoni e cattivi? - Certo! - Ebbene, hai mai conosciuto qualcuno che sia capace di spiegarti quali tra le opere di Polignoto figlio di Aglaophon siano belle e quali no? e incapace di farlo per gli altri pittori? (Ione);Se ti avessi domandato, che specie di pittore è Zeusi, e tu mi avessi risposto: È un pittore di figure, giustamente, no?, io replicherei domandando che specie di figure Zeusi dipinge..., perché vi son altri pittori che dipingono altre specie di pitture... (Gorgia)".
Più interessante, storicamente, è la citazione di Zeusi nel Protagora (318 b-c), ove si dice che se andassimo da Zeusi di Eraclea progrediremmo nella pittura, da Zeusi, "un giovane venuto da poco da noi" (ad Atene): sappiamo che Platone finge che l'azione del Protagora si sia svolta nel 431 circa. Zeusi, dunque, avrebbe dovuto cominciare ad operare in Atene verso il 432. Negli Acarnesi, che sono del 425, Aristofane parla dell'Eros di Zeusi. Certo è da notare che tutti e tre i pittori, sono citati in dialoghi ove Platone presenta l'atteggiamento e la problematica proprî dei Sofisti.
b) Scultura. - Meno interessanti dei testi relativi alla pittura, appaiono i testi platonici - molti di meno - relativi alla scultura in genere ed alla statuaria. Anche della scultura si parla in quanto serve di esemplificazione: e per dimostrare che tutte le arti sono imitative e dovute a tecniche artigianali (cfr., in particolare, Gorgia, 450 c-d; Alcibiade II "calzolai, muratori, statuari sono tutti artefici, ciascuno esperto in una sua arte": 140 c), e come esemplificazione di arte ornamentale (cfr., ad esempio, Ippia Maggiore, 298 a: belle sono le statue, come i ricami e le pitture, in quanto dilettano gli occhi), o di opere di bottega ad uso comune o sacrale (ricordiamo i celebri sileni del Convito, 215 b, "esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artefici raffigurano con in mano zampogne e flauti, e che, poi, aperti in due, fan vedere che nell'interno contengono immagini di dèi". - Lungo le rive dell'Ilisso vi è un luogo consacrato ad Achebo, protettore dei fiumi, ed alle Ninfe, ed Achebo e le ninfe sono rappresentati da statuette: Fedro, 230 b; in campagna vi sono statuette opera di pastori: Filebo, 38 d). In effetto non si ha mai, di fronte alla scultura, un atteggiamento polemico come di fronte alla pittura. Eppure proprio questo minore interesse, il tono uniforme con cui si tratta la scultura, può servire d'avvio - sia pur ipoteticamente - ad osservare che la scultura, rispetto alla pittura "moderna", avesse mantenuto - ancora al tempo di Platone - una maggiore canonizzazione, tipizzazione, stilizzazione, anche nel ritratto che, sembra, riproducesse, più tipi ideali che non individuali persone. La questione diventa interessante - e Platone in questo senso, anche se indirettamente, è fonte - quando si pensi che per la pittura Platone ha potuto parlare di ritratto fisionomico (e ricordo che il termine usato è eikòn), di prospettiva, di illusionismo, mentre tace di tutto ciò allorché tratta di scultura. A parte che Platone poteva avere più simpatia per la scultura perché più vera, perché mantiene le esatte proporzioni (si ricordi l'accusa alla pittura fantastica nel Sofista), grandi o piccole che fossero le opere di scultura, se la scultura, al suo tempo, fosse stata meno vera e più viva, più realistica, Platone, nella sua polemica, avrebbe preso esempio dalla scultura sì come ha fatto dalla pittura. Gli studi più recenti hanno assodato che nel campo della statuaria "il concetto vagheggiato dall'artista greco arcaico... non era il vero ma il vivo (Dedalo, secondo la testimonianza di Diodoro, iv, 76, faceva statue "tali che apparivano come se fossero dotate di spirito vitale ...". Esse infatti vedevano e camminavano e, insomma, possedevano una piena funzionalità organica, tanto che questi manufatti apparivano esseri viventi). Eppure noi sappiamo che, tipologicamente, la statua dedalica era uno xòanon, cioè immagine rigida, del tutto statica e geometricizzata. Ma chiunque abbia avuto contatto con opere d'arte greca, sa quanto più immediatamente vive e carnose appaiano, per esempio, le statue arcaicamente rigide dell'Acropoli, che non lo Hermes di Olimpia o il Poseidon di Milo, pur tanto più "naturalistiche" e fedeli alla verità anatomica. È noto che per la prima volta troviamo nei ragionamenti senofontei di Socrate con Kleiton (sia o non sia questo un diminutivo del nome di Policleto) il rimprovero che le statue siano soltanto formalmente belle e perfette, ma che manchi loro l'anima e l'espressione (Mem., iii, Io, 6). È il vero che si contrappone al vivo, è il desiderio intellettualistico, pratico e non poetico, di trovare nell'opera d'arte una oggettivazione più precisa" (Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze 1950 2, pp 6869). Orbene, com'è noto, la testimonianza platonica su Dedalo sembra coincidere con quella di Diodoro ("Le tue definizioni [mobili e viventi, non vere] rassomigliano molto alle figure di quel mio antico progenitore [parla Socrate, figlio di uno scultore] che fu Dedalo": Eutifone, ii, b; - "E tu ti meravigli, ragionando in questo modo, se i tuoi ragionamenti non stanno fermi, e anzi se ne vanno a spasso... e dici che sono io il Dedalo...": Eutifrone, 15 b; - "Non hai badato alle statue di Dedalo: anche quelle, se qualcuno non le lega scappano via...": Menone, 97 d-e; cfr. anche Ione, 533 a); ma vi è poi un'affermazione estremamente significativa nell'Ippia Maggiore, che, chiaramente, dimostra il passaggio tra una scultura arcaica viva e la nuova scultura:
"Ah! sì capisco... come hanno progredito le altre arti, e di fronte agli artisti di oggi gli antichi valgono ben poco, così bisogna dire che anche l'arte di voi sofisti segna un progresso... E così, o Ippia, se ora Biante ci tornasse vivo dinanzi, sarebbe, rispetto a voi, oggetto di riso, come anche di Dedalo dicono gli scultori che, se facesse oggi quelle opere per le quali divenne famoso, si farebbe addirittura canzonare" (281 e-282 a).
E così non sembra un caso che la critica che Platone muove alla pittura è di fare figure che appaiono viventi, ma che sono morte, cioè non vere, ché la verità si coglie attraverso il discorso.
"Le creature della pittura si ergono come esseri viventi, ma se chiedi loro qualcosa serbano solennemente un assoluto silenzio..." (Fedro, 275 d).
Sono, questi, testi assai interessanti storicamente, perché - posti accanto a quelli sulla pittura -, se da un lato mostrano che insieme alla pittura di tipo geometrico-cromatico, decorativo e icastico già prima della metà del IV sec., esisteva un tipo di pittura realistico, vivo, plasticoprospettico, il ritratto fisionomico, dall'altro lato rivelano che, invece, nel campo della scultura e della statuaria, alla scultura viva, arcaica, si era sostituita una scultura intellettuale, vera, formale, non realistica, rispondente a misure e proporzioni, stereometrica, e non prospettica, caratterizzante ideali, le cui parti - quando si tratti di statue - anche se colorate (vedi sopra) - avevano un significato cromatico, non coloristico. Vi è anzi, a tal proposito un notevole testo dell'Ippia Maggiore, in cui, discutendo della bellezza, cercando di definire ciò che fa belle le cose, si citano, per esempio, le statue di Fidia e, in particolare, l'Atena criselefantina del Partenone, che è bella, si sottintende, non in quanto sia d'avorio o d'oro o di pietra, ma in quanto ciascun materiale è posto là dove è bene che sia, secondo misura, ché bello non è né l'avorio né l'oro né la pietra ("egli non fece d'oro né gli occhi né il resto del viso, né i piedi né le mani..., ma d'avorio..., e fece di pietra il centro degli occhi...": 290 b): bella è la forma, specchio dell'armonia del tutto. Nell'Ippia Maggiore tutto ciò è appena adombrato, ma sarà questo, nello svolgersi del pensiero platonico, il concetto di bello coincidente con bene e con vero (cfr. Filebo, 64 c). E che belle fossero per Platone le statue di Fidia, egli chiaramente lo afferma nel Menone:
"Io so di un uomo, Protagora, il quale dalla sua sapienza ha ricavato e messo insieme più ricchezze di Fidia, che pure ha fatto opere bellissime, e ne ha fatte più di dieci altri statuari" (91 d).
E, così, non è forse un caso che Fidia sia una volta citato insieme a Policleto (Protagora, 311 c); che Platone pensasse alle statue, come imitazione compiuta dell'oggetto da ritrarre - sì che apparisse vero, nel senso in cui Senofonte lo fa dire a Socrate nel suo colloquio con Kleiton (Mem., iii, 10, 6)-, è testimoniato dalla frase - evidentemente tratta dal linguaggio comune -, più volte usata da Platone, per indicare che si è saputo descrivere esattamente il carattere di qualcuno: "Hai scolpito e rifinito quest'uomo come se fosse una statua" (Rep., 361 d-c. Cfr. anche Rep., 540 c; Politico, 311 c).
Altre testimonianze sulla scultura non si hanno in Platone, se non un accenno agli scultori Epeios di Panopeo e Theodoros di Samo (Ione, 533 a), a una "colossale statua di Delfi" (Eutidemo, 299 b), a un immaginario cavallo fuso in bronzo e vuoto dentro (Rep., 359 d-e), forse a una statua rappresentante un Glauco marino (Rep., 611 c-d), e ad arcaiche statue di Atena in armi (Crizia, 110 b). Un accenno vi è, infine, allo scultore Leochares, nella XIII lettera, che, però, è senza dubbio apocrifa (cfr. G. Pasquali, Le lettere di Platone, Firenze 1938, p. 197 ss.). Ad ogni modo sappiamo che la lettera si finge scritta da Platone al tiranno Dionisio Il di Siracusa nel 366 circa. Vi si fa dire a Platone che un certo Leptines porterà a Dionisio un Apollo fatto fare da Leochares:
"è opera di un giovane e bravo artista, il cui nome è Leochares. Costui aveva presso di sé anche un'altra opera che mi parve molto graziosa (ἔργον πάνυ κομψόν): l'ho comperata volendone fare un dono a tua moglie" (XIII lettera, 361 a).
Che Leochares, il quale lavorò con Skopas al Mausoleo di Alicarnasso, di cui è stato celebrato un Apollo (Paus., i, 3, 3), che fu messo al pari dei più grandi artisti (cfr. Plin., Nat. hist., xxxiv, 50, 79), nel 366, in cui si finge scritta la lettera, fosse all'inizio della carriera, sembra un fatto accertato (cfr. Lippold, in Pauly-Wissowa, xii, 1939).
c) Architettura. - Ciò che particolarmente risulta fin dai primi dialoghi platonici, in cui si fa cenno all'arte del costruire, è che l'architettura, rispetto alle altre arti, richiede una particolare competenza: non certo il consiglio di un politico richiederà l'assemblea se si vorrà costruire una casa, ché su "questo un costruttore darebbe miglior consiglio del suo" (Alcibiade, i, 107 a); - "E se ci occupassimo di affari pubblici e ci consigliassimo tra noi di occuparci di costruzioni, anzi, delle più grandi costruzioni di mura, di arsenali, di templi, non dovremmo prima di tutto indagare e badare se conosciamo o no l'arte, l'architettura?" (Gorgia, 514 a-b); "Io vedo che quando gli Ateniesi si raccolgono in assemblea per prendere una qualche decisione per la città, se si tratti di edifici da costruire, mandano a chiamare gli architetti per sentirne il parere" (Protagora, 319 b).
Nei dialoghi più tardi - dal Clitofonte alla Repubblica al Politico al Filebo Platone viene precisando in che consista quella competenza, tanto da sostenere che l'architetto più che un artigiano è uno scienziato, in quanto costruisce opere per le quali è necessaria la scienza del calcolo e della misura, onde la sua opera è "bella" per l'ordine e la proporzione (cfr. già Gorgia, 504 a, e anche Carmide, 165 e).
Sotto questo profilo assume singolare significato il termine usato nella Repubblica per indicare la qualità dell'attività architettonica. Nella Repubblica, cioè, Platone non chiama tèchne l'arte del costruire, ma scienza (επιστήμη).
"C'è una scienza, scienza per sè (επιστήμη αὐτή), che è scienza del conoscibile in quanto conoscibile, oppure di ciò di cui bisogna considerare soggetto la scienza; vi è poi la scienza particolare e qualificata, di un particolare e qualificato oggetto. Quando, ad esempio, ebbe origine la scienza di fabbricare le case, non si distinse dalle altre scienze al punto da esser chiamata architettura (οἰκοδομική)?... E non avvenne questo perché era una scienza determinata, come nessun'altra?... E non divenne una scienza determinata, perché scienza di un determinato oggetto? E così le altre arti (τέχναι) e scienze (ἐπιστῆμαι)" (Rep., 438 c-d; cfr. anche Clitofonte, 409 b).
Nel Politico, poi, Platone afferma che l'architetto "partecipa della scienza conoscitiva" (260 a i), in quanto "le cognizioni proprie dell'architetto sono il calcolo e la misura, che rientrano appunto nelle arti speculative" (259 e), e che l'architetto non è un artefice manuale, in quanto mediante la sua scienza comanda gli esecutori materiali dell'opera (259 e-260 a). Nel Filebo, infine, Platone giunge a dire che l'architettura è la più perfetta delle scienze applicabili. È, anzi, qui importante la distinzione che Platone pone tra le altre arti e l'architettura.
"Bisogna distinguere nelle arti manuali (ἐν ταῖς χεροτεχνικαῖς), quelle fra loro che di più appartengono alla scienza e quelle che vi appartengono di meno... Per esempio, se uno separasse in qualche modo in tutte le arti l'arte dell'aritmetica, l'arte del misurare, del pesare, quello che resterebbe di ciascuna arte sarebbe cosa di poco conto... Resterebbe almeno dopo di ciò l'arte di far congetture, di esercitare i sensi con un certo uso e con l'esperienza adoperando le capacità proprie dell'indovinare, capacità che i molti chiamano arte se siano rafforzate con l'esercizio e con la fatica... E la musica, prima di tutto, è piena di queste cose, direi, in quanto armonizza le consonanze non con la misura, ma concettualmente con l'esercizio... [e così avviene per la medicina, per l'agricoltura, per l'arte del pilota e della guerra...]. Quanto all'arte del costruire (τεκτονική), che fa uso di molte misure e strumenti, io credo che proprio questo fatto che ad essa fornisce molta precisione (πολλή ἀκριβεία) la fa essere più tecnica della maggior parte delle scienze (τεχνικωτέραν τῶν πολλῶν ἐπιστημῶν...) Nella costruzione delle navi, delle case e in molte altre specie della lavorazione del legno essa usa, infatti, io credo, del regolo, del compasso di filo e di legno, del filo a piombo, e di una certa morsa adattata per raddrizzare i pezzi di legno..." (Filebo, 55 d-56 e).
Non solo da Platone, ma da tutta la letteratura antica appare chiaro che l'opera architettonica non è considerata nella sua singolarità, ma in un complesso di opere, cioè in una relazione costituente la Città (πόλις).
Sotto questo aspetto si capisce perché, relativamente a ciascuna opera di architettura, veduta soprattutto come opera tecnico-scientifica, sì come la costruzione di una nave o di un ponte, le testimonianze di Platone, dal momento ch'egli non accenna mai direttamente alle varie tecniche di costruzione, abbiano uno scarso interesse storico. Lo hanno invece quelle pagine in cui Platone delinea lo schema strutturale di una Città, non solo perché per altra via illuminano la concezione etico-politica di Platone, ma anche perché nell'opposizione di una concezione urbanistica ad altra concezione urbanistica si ha chiara l'opposta visione architettonica corrispondente a una situazione culturale, storicamente precisa, nutrita di tecniche, commerciale, liberantesi da schemi teologici, di un mondo che ha la consapevolezza che la città è costruzione dell'uomo, dei suoi traffici e del suo lavoro che è stata la concezione ionica (non a caso, anche se ad Ippodamo si deve molto meno di quello che sembrava un tempo, Ippodamo è di Mileto). E non a caso nella descrizione che Platone fa della mitica città di Atlante (contrapposta alla misurata città arcaica di Atene: Crizia), città ricca di traffici, marittima, militaresca (Crizia, 117 c-d, 119 a ss.), lussuosa nei suoi palazzi e nel suo tempio ("il tempio di Posidone lungo uno stadio, largo due pletri, proporzionato nell'altezza, aveva nel suo aspetto un che di barbarico. Era all'esterno tutto rivestito di argento, ma non gli alti pinnacoli del tetto, che erano d'oro. Nell'interno il soffitto appariva tutto di avorio, ovunque variegato d'oro, d'argento e di oricalco; di oricalco guarnirono anche il resto: muri, colonne, pavimento. Vi posero statue d'oro: il dio, in piedi sul suo carro, auriga a sei cavalli alati, sì alto che col capo toccava il soffitto e tutto intorno, a cerchio, cento Nereidi... cavalcanti delfini. E inoltre v'erano infinite altre statue, ordinate da privati..." (Crizia, 116 d-e), i cui porti richiamano le tre darsene del Pireo (Crizia, 113 c-115 c), si è voluto vedere (cfr. Rivaud, Notice all'edizione del Crizia, "Belles Lettres", Parigi 1925), un ricordo preciso della ricostruzione del Pireo da parte di Ippodamo di Mileto (v.), ma anche, ad un tempo, una critica alla concezione politica e urbanistica di Ippodamo, per il fatto che quella città "barbarica" e non platonicamente greca, è, secondo Platone, decaduta ed è poi stata distrutta, perché in essa, per le sue ricchezze, per il prevalere dell'elemento marittimo e commerciale, è venuto meno l'elemento divino, peccando i suoi cittadini di höbris, di tracotanza. D'altra parte l'insistere di Platone sulla necessità che il luogo dove deve sorgere una città sia lontano dal mare, non adatto ai grandi traffici (cfr. Leggi, 704 a-707 d) e commerci, se ancora una volta chiarisce l'atteggiamento politico di Platone, mette anche di fronte a una questione urbanistica evidentemente dibattuta e cioè alla consapevolezza dell'importanza che ha nella fondazione di una città il luogo, il paesaggio, la coltivazione e la produzione, che sono i dati formali perché l'architettura sia considerata come fatto sociale e politico, comunque poi si risolva il problema, a seconda delle concezioni, frutto di situazioni politico-economiche o di polemiche nei confronti di quelle situazioni stesse, com'è il caso di Platone, che, ad esempio, prospetta ancora l'agorà e l'acropoli come centro religioso-politico, piuttosto che come centro politico commerciale anche se, appunto, attraverso Platone risulta ormai che tale è l'agorà (cfr. Crizia, descrizione dell'arcaica e mitica acropoli di Atene, 112 a ss.; e per l'agorà, in particolare, Rep., 425 d; Teeteto, 173 c; Politico, 209 e; cfr. anche R. Martin, Recherches sur l'Agora grecque, Parigi 1951).
"Sembra ora opportuno [a parte la mistica e astrologica divisione in 12 della città e del territorio; cfr. Leggi, 745 b ss.] che la nuova e non ancora abitata città si curi di tutto il complesso architettonico ed in particolare delle mura e dei templi... I templi siano edificati tutt'intorno all'agorà, e la città tutta quanta venga costruita a cerchio su luoghi elevati, per sicurezza e pulizia. Presso i templi s'innalzino gli edifici adibiti ai magistrati e i tribunali, ove appunto, come in luoghi più che sacri, vengano pronunciate e ricevute le sentenze, da un lato perché qui si tratteranno sacre cause, dall'altro perché qui gli dèi avranno le loro dimore, e fra queste sorgeranno i tribunali ove si giudicheranno gli omicidi e tutti quei delitti che meritano la pena capitale. Quanto alle mura... io sono d'accordo con Sparta: lasciarle distese al suolo a dormire senza mai elevarle... ‛di bronzo e di ferro debbono essere le mura piuttosto che di terra...,. Comunque, se davvero gli uomini hanno bisogno di mura, sin dall'inizio è bene gettare le fondamenta delle case private, in modo che tutta la città costituisca come un sol muro, disponendo le case senza soluzione di continuità su di un unico fronte stradale, sì da offrire compatta difesa. E poi non sarebbe spiacevole (ἀνδής) alla vista una Città che avesse l'aspetto di una sola casa; e poiché si renderebbe così più facile la custodia, questa, da tutte le altre, da ogni punto di vista, si differenzierebbe per la sua sicurezza..." (Leggi, 778 b-d, 779 a-b).
Altri dati storicamente significativi non sembra si possano ricavare dagli scritti platonici, anche se, per amor di compiutezza, può essere utile indicare gli accenni "alle mura, all'arsenale di Atene e alla sistemazione dei porti, tutte opere che dobbiamo al consiglio di Temistocle e di Pericle, non a quello dei competenti" (Gorgia, 455 a) - ov'è, forse, una battuta contro Ippodamo -; alle lunghe mura ("salendo dal Pireo lungo la parte esterna del muro a settentrione essendosi accorto che v'erano dei morti distesi presso il luogo delle esecuzioni capitali": Rep., 439 e; cfr. anche Liside, 203 a; Fedro, 227 a); alla pista coperta e alle colonne del Liceo (Eutidemo, 273 a, 303 a-b); all'antica città egiziana di Sais (Timeo, 21 a) e di Tebe di Egitto (Fedro, 274 d); al quartiere del Cinosarge (Assioco, 364 a); alla forma delle tombe (Leggi, 947 e).
Testi relativi alla pittura e alla scenografia : Eutifrone, 6 b-c; Ione, 532c; Ippia Maggiore, 298 a; Protagora, 312 c, 356 c; Gorgia, 450 c-d, 503 e-504 a; Fedone, 69 b, 110 b, 110 c-e; Repubblica, 373 a, 377 e, 400 e-401 a, 420 c-d, 484 c, 501 b, 529 a, 529e, 596b-598c, 605 a, 601 a, 616 d ss.; Fedro, 248 e, 275 d; Cratilo, 423 d-425 a, 429 a, 430 e, 431 c, 432 b, 434 a-b; Teeteto, 208 e; Sofista, 234 b, 235 d-236 a, 239 d, 266 b-d; Filebo, 39 b-c, 51 c-d, 65 a; Timeo, 19 b-c, 26 c; Crizia, 107 b-c; Leggi, 655 a-b, 663 b-c, 667 c-d, 668 b-669 a, 769 a-b, 956 a-b; Epinomide, 975 d. - Pittori citati: Aglaophon (Gorgia, 448 b; Ione, 533 a); Aristophon (Gorgia, 448 b), Polignoto (Gorgia, 448 b; Ione, 533 a); Zeusi (Protagora, 318 b-c; Gorgia, 453 c-d).
Testi relativi alla scultura e alla statuaria: Alcibiade Il, 140 c; Ippia Maggiore, 298 a; Gonvito, 215 a-b, 221 d-e; Repubblica, 359 d-e, 361 d-e, 400 e-401 a, 420c-d, 540 c, 6o5 a, 611 cd; Fedro, 230 b; Eutidemo, 299 b; Sofista, 239 d; Filebo, 38 d; Timeo, 50 e; Crizia, 110 b, 116 a-117 e. - Scultori citati: Dedalo (Eutifrone, ii b-d, 15 b; Ione, 533 a; Ippia Maggiore, 282 a; Menone, 97 d); Epeios (Ione, 533 a); Fidia (Protagora, 311 c; Ippia Maggiore, 290 a; Menone, 91 d), Leochares (XIII lettera, 361 a); Policleto (Protagora, 311 c); Theodoros di Samo (Ione, 533 a).
Testi relativi all'architettura e all'urbanistica: Alcibiade I, 107 a-b; Carmide, 165 e; Protagora, 319 b; Gorgia, 455 d-e, 503 e, 514 a ss.; Clitofonte, 409 b; Repubblica, 400 e-401 a, 438 c 55., 439 e; Fedro, 227 a, 274 d; Eutidemo, 273 a, 303 a-b; Politico, 259-260; Filebo, 56 b-e; Timeo, 21 e; Crizia, 112 a-117 e; Leggi, 745 b 55., 763 d, 778 b ss., 947 d-e; Assioco, 364 a. Per i lavori su cera e impronte di sigilli cfr. Teeteto, 191 c-d.
Bibl.: P. M. Schuhl, Platon et l'art de son temps (Arts plastiques), Parigi 1933; H. J. M. Broos, Plato's beschouwing van kunst en schoonheid, Leida 1948; R. Bianchi Bandinelli, Storicità dell'arte classica, Firenze 19502; R. Martin, Recherches sur l'Agora grecque, Parigi 1951; B. Shweitzer, Platon und die bildende Kunst der Griechen, Tubinga 1953; R. Bianchi Bandinelli, Osservazioni storico-artistiche a un passo del "Sofista" platonico,in studi in onore di U. E. Paoli, Firenze 1956, pp. 81-95 (ristamp. in Archeologia e Cultura, Milano 1961); R. Martin, L'Urbanisme dans la Grèce antique, Parigi 1956; B. Schweitzer, Plato und die Kunst seiner Zeit, Tubinga 1958.
(F. Adorno)
2. Aristotele. - In un celebre testo dell'Etica Nicomachea (vi, 3-8), Aristotele sostiene che la ‛scienza, è apodittica e ha un suo preciso contenuto che consiste in ciò che non può accadere se non come accade, "non può essere diversamente da quello che è" (vi, 3, 1139 b 21); che la ‛intelligenza, è l'atto con cui l'intelletto (νοῦς), coglie i primi principî di tutte le scienze; che la ‛sapienza, è capacità di dedurre dai principi e giudicarne la verità. Scienza, intelligenza e sapienza, costituiscono, dunque, un tutt'uno e sono volte a determinare le condizioni adialettiche (indiscutibili) che permettono di pensare la realtà, condizioni da cui, d'altra parte, si viene snodando il discorso verace, su cui si scandisce lo stesso ordine del reale.
Il discorso scientifico non implica, perciò, né azione né costruzione, ma contemplazione. Aristotele tuttavia - a parte le molte contraddizioni e i molti problemi che suscitano molti dei suoi testi -, accanto all'attività teoretica, volta al necessario, a ciò che non può essere altro da come è, pone che vi sia un'attività della ragione volta al possibile, a ciò che può essere diversamente da ciò che è, per cui, in tal caso, la ragione, tenendo presenti i dati del mondo possibile (il mondo degli uomini), può determinarsi uno scopo, un fine che non è dato, ma ch'essa, conoscendo appunto quei dati, realizza, e che si risolve nel suo stesso realizzarsi. Tale è la ragione pratica. Ora, entro i termini del possibile, la razionalità, sottolinea Aristotele, può essere pratica o poietica. "Di ciò che può essere diversamente da ciò che è, altro è l'oggetto della pòiesis, altro quello della pràxis" (Etica Nic., vi, 4,. 1140 a 2). L'oggetto della azione (pratica) si risolve nell'azione stessa (per esempio le istituzioni civili, i rapporti umani, il mondo etico in una parola, cessano allorché cessa la realizzazione di quei fini); la ragione, invece, che pur usando un materiale che è, avendone conoscenza, realizza un oggetto che non è, in quanto volta al possibile, è poietica perché, sapendo usare i dati, avendone esperienza (tecnica) fa (ποιεῖ) un oggetto che assume una realtà per sé (una casa per esempio, qualsivoglia artefatto, assume una realtà per sé) - "Poiché l'architettura (o οἰκοδομική) è un'arte, in quanto è una disposizione poietica accompagnata da ragione e non v'e nessuna arte (tèchne) che non sia una disposizione poietica accompagnata da ragione, né alcuna siffatta disposizione che non sia arte, saran dunque la stessa cosa l'arte e la disposizione poietica accompagnata da ragione verace. Ogni arte riguarda la produzione (γένεσις), e il cercare con la tecnica e la conoscenza (καὶ τὸ τεχνόξειν καὶ ϑεωρεῖν) come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio e m chi fa e non in ciò che è fatto: l'arte non riguarda le cose che sono o cbe si producono necessariamente, né per natura..." (Etica Nic., vi, 4, 1140 a 7 segg.).
Accanto a questi testi, particolarmente interessante è il iii libro della Retorica, in cui Aristotele nettamente distingue lo stile oratorio dallo stile proprio della poesia. È una sottile distinzione, che ribadisce la distinzione tra discorso scientifico, che ha una sua espressione e un suo linguaggio, e discorso della convinzione umana, che si fonda su altre ragioni e di cui altra è l'espressione, altro il linguaggio. In seno alla stessa arte del dire, si rivela il peso dato da Aristotele alla parola o ai nessi delle parole, ch'essendo lo stesso pensiero, parole e nessi di parole, architettura di discorso, scelta di termini e di accenti, costituiscono una o altra convinzione, una o altra possibile ‛verità'; e poiché i discorsi retorici hanno un loro campo ben determinato, l'ambito politico-sociale (ecclesia, tribunali, orazioni pubbliche), altrettanto delimitata è, volta a volta, la ‛verità ‛ e la ragione di quei discorsi, per cui la scelta dei termini, dei nessi, l'ordine grammaticale e sintattico deve rispondere a quel tipo di verità e di ragionamento. E se chiaro è il discorso cioè ragionevole e, per ciò stesso, convincente, chiara n'è l'espressione, chiaro il linguaggio ossia le parole e la sintassi. E allora, sempre entro l'arte del dire, diversa è la ‛verità' da esprimere mediante parole e ritmi, diverso sarà lo stile e diversa quindi la scelta delle parole e dello stesso nesso delle parole.
Una cosa è lo stile oratorio, altra lo stile poetico, ché l'uno e l'altro, pur usando parole e pur essendo le parole (voci, suoni, ritmi) imitazioni (Retorica, iii, i), l'oratoria imita (cioè esprime) un mondo e certe ragioni, la poetica imita (cioè esprime e ‛fa') un altro tipo di mondo. Entro questi termini, da questa distinzione tra arte del dire come capacità di costituire un ordine che scaturisce dalla medesima forza in atto del discorso, avente le sue ragioni e in se stesso la propria realizzazione (onde la retorica è pur sempre pratica) e arte del dire, invece, come capacità di realizzare un certo mondo a parte, un prodotto che assume una sua realtà, per sé (questo il significato dato da Aristotele a pòiesis), e non più solo nel suo esplicarsi, imitazione di una certa verità umana, assumono significato, nel complesso del pensiero aristotelico non solo il celebre frammento sull'arte poetica, ma anche le esemplificazioni che Aristotele trae dalle arti figurative e plastiche.
Pur rimanendo sul piano dell'arte del dire, la poetica si distingue, dunque, dalla retorica, ché diverso è l'oggetto di studio. Una cosa, sottolinea Aristotele, è il discorso politico-sociale, che si esaurisce e si risolve nella stessa azione; altra cosa il discorso poetico, che è, appunto, tale in quanto fa (poteo) un mondo (di parole, di ritmi, di voci, di segni di colori, di forme) che resta a sé.
Posto che ogni opera poietica è mimèsi, imitazione, Aristotele distingue (Poetica, 1447 a, 18 ss.) tra le imitazioni che avvengono mediante il colore e la forma χρώμασι καὶ σχήμασι (arti plastiche e figurative), quelle che si realizzano mediante la voce (suoni, parole: poesia in tutte le sue forme, musica) e i movimenti (danze). Ma se, in effetto, da un lato - almeno nella Poetica quale noi leggiamo - la discussione di Aristotele si restringe al mondo imitativo espresso da suoni, ritmi e parole, e, in particolare, alla tragedia, con qualche accenno alla epopea e alla commedia - che, sembra, doveva venir trattata nel ii libro della Poetica ; dall'altro lato, sia il termine poesia sia il termine mimèsi, accolti dalla terminologia corrente, assumono - anche se non dichiaratamente - fin dalle prime pagine della Poetica un più ampio significato, tale da divenire il criterio formale onde un'opera possa dirsi poetica.
Ciò si vede bene rileggendo la celebre affermazione che un'opera poetica non è tale perché in versi, ma perché mimetica: "tanto che, per esempio, se uno dà fuori in versi, qualche trattato di medicina o di scienza naturale, costui per abitudine lo chiamano poeta: ma in realtà non c'è niente di comune tra Omero ed Empedocle a eccezione del verso; e perciò quello sarebbe giusto chiamarlo poeta, questo invece non poeta, ma fisiologo" (Poetica, 1447 b, 15 ss.). E, appena sopra, chiarendo quali siano i mezzi della mimèsi (mutando i quali muta la specie di poesia), sostenendo che anche i danzatori, pur usando il solo ritmo, compiono opera poetica, aveva affermato che questo avviene perché l'opera di costoro, mediante certi gesti e movimenti, riesce a "rappresentare caratteri (ἤϑη) emozioni (πάϑη) e azioni (πράξεις)" (1447 a, 25 ss.). Sembra così esplicitamente detto cosa Aristotele intenda per imitazione - e si badi che nella Retorica, ιιι, ι, 1404 a, 21, si legge: "i nomi sono imitazioni ..."; e nel De interpretatione, 16 a, 3 ss.: "i suoni nella voce sono simboli (σύμβολα) delle affezioni (παϑημάτων) che hanno luogo nell'anima e le lettere scritte sono simboli dei suoni delle voci" -: cioè l'opera poetica è tale qualora sia la realizzazione di un mondo che assume una realtà per sé (poietico), imitazione - mediante parole o suoni o ritmi - di ‛verità morali' (caratteri, emozioni, azioni), che, accadute o non accadute, in quanto rappresentazioni verosimili di ‛verità' umane, sono universali.
Senza venire ora a discutere la poetica di Aristotele o come sia possibile, nella visione che Aristotele ha della realtà nel suo complesso, una ragione pratica e una ragione poetica, basta qui sottolineare che, di fatto, Aristotele distingue un discorso scientifico (avente le sue regole e le sue condizioni), un discorso pratico (avente anche esso le sue regole e le sue condizioni, e nel cui studio consiste da un lato l'etica e la politica, dall'altro lato la retorica, che è sempre politica) e un discorso poietico, che realizza oggetti per sé, che in quanto espressione (imitazione) di un fine che è in chi crea (uomo razionale e ragionevole) ha da realizzarsi - in uno o altro modo, in una o altra invenzione - formalmente secondo misura. Si tratta, sia pure per altra via, di quel tal giusto mezzo (Etica Nic., ii) che non è un mezzo matematico, ma che si realizza volta per volta, in un saggio ordinamento, in una saggia simmetria, che, se ragionevolmente si attua nel costituirsi degli stessi rapporti umani, è giusto mezzo e giustizia (etica, ragion pratica), se, invece, ragionevolmente si attua nella creazione di un oggetto che assume realtà per sé, con un suo ordine, una sua misura, è poietès, ed è bellezza: Le forme principali del bello sono l'ordine, la simmetria, la limitazione (Metaf., xiii, 3, 1878 b i; anche Politica, 1284 b). I buoni artefici operano guardando a questo mezzo..., per cui siamo soliti dire delle buone opere che non c'è nulla da togliere, né da aggiungere, ché l'eccesso e il difetto rovinano la perfezione, mentre la medietà la salva (Etica Nic., ii, 6, 1107 b, 89-13). Il bello, essere animato o altro oggetto, in quanto costituito di parti, non solo deve presentare in codeste parti un certo suo ordine, ma anche, ed entro determinati limiti, una sua grandezza" (Poetica, 1450 b, 34); (cfr. anche Politica, 1320 b, 35 ss.).
Bellezza pratica e bellezza poietica vengono così a coincidere, onde la bellezza poietica, non data una volta per tutte, ma che può realizzarsi in modi diversi, a seconda del fine che è nel poietés diviene, in quanto attuata, oggetto di contemplazione, contemplazione di una certa ‛verità', che suscita un certo ‛piacere', e che può liberare dal disordine, in cui consiste il mondo passionale, terapeuticamente purgando e restaurando ordine e misura (kàtharsis) (cfr. Politica, viii, 1340 a; per la catarsi tragica cfr. Poetica, 1449 b, 27).
"Quelle stesse cose che non possiamo guardare senza disgusto, se, invece, le contempliamo nelle loro riproduzioni (eikòna), soprattutto se riprodotte secondo una loro più intima esattezza, ci recano diletto: come per esempio le forme degli animali più spregevoli e dei cadaveri (Poetica, 1448 b, 10 ss.). - Osservando un'immagine (eikòn), non ci compiacciamo per nessun altro motivo che per la forma (morphé) stessa (Politica, viii, 5, 1340 a, 25). - Sì come ci compiacciamo per tutto ciò che rientra nella mimèsi, come la pittura, la scultura, la poesia, in una parola per tutto ciò che è ben imitato, anche se l'oggetto imitato non è affatto piacevole, perché non è il contenuto che causa il piacere, ma la ragionevolezza mediante cui si costituisce l'oggetto imitato, onde si apprende qualcosa (Retorica, i, 1371 b, 5 ss.) .... Piaceri della vista sono i colori, le figure le pitture (Etica Nic., iii, 10, 1118 a, 4)... Prendiamo piacere a contemplare le riproduzioni (eikòna) degli esseri inferiori e naturali, perché consideriamo a un tempo il talento dell'artista, pittore o scultore..." (De part. anim., 645 a, 13 ss.).
a) Pittura. - Sembra chiaro come di qui derivi, di fronte alle arti figurative, proprio in quanto imitazioni di realtà, trasfigurate in realtà per sé stanti, quali dovrebbero essere e non sono, in discorsi poetici aventi una loro ‛verità', l'atteggiamento diverso e opposto assunto da Aristotele nei confronti della pittura e della scultura, da quello ch'era l'atteggiamento di Platone, e come Aristotele non solo non condanni l'arte imitativa - ché non si tratta per l'arte d'imitare o meno la verità in sé, bensì di dar luogo a una ‛verità' poetica - ma, prendendo esempî dalle arti del tempo, ne tenti di comprendere le ragioni per cui quelle opere sono poietiche. Entro questi termini ed entro questo tipo di ragionamento vanno assunti gli esempî riportati da Aristotele relativamente alla pittura, alla scultura, all'architettura, che rivelano in più casi, lo stato di fatto storico, delle arti figurative nella seconda metà del IV secolo.
Se Platone, nelle Leggi (769 a-b), parlando delle tecniche usate dai pittori (in particolare del chiaroscuro, delle sfumature, che realizzano opere che ingannano sul vero) aveva condannato chi si occupava di tali tecniche, Aristotele, invece, nell'viii libro della Politica, che pur è ancora scritto sotto la suggestione di Platone, sostiene che accanto alle "consuete materie di insegnamento, lettere, ginnastica, musica", ne va aggiunta un'altra, che già alcuni, di fatto, aggiungono, il disegno (Politica, viii, 3, 1337 b 24-25). Secondo Plinio (Nat. hist., xxxv, 77), il disegno cominciò a far parte delle materie d'insegnamento, proprie dell'educazione liberale, per l'influenza del pittore Pamphilos, maestro di Apelle, che ne sostenne l'uso. La più antica testimonianza dell'uso del disegno, in funzione educativa, è questa di Aristotele, che lo pone tra le materie d'insegnamento, non tanto per la sua utilità immediata, quanto perché "la pittura affina nel contemplare la bellezza dei corpi" (i 338 b 2), e "permette un retto giudizio delle opere degli artisti" (τὰ τῶν τεχνιτῶν ἔεγα: 1338 a 18). Se ancora al tempo di Platone, lo studio del disegno era dato solo ai ‛figli' dei pittori, a coloro che avrebbero fatto per mestiere il pittore, l'introduzione del disegno come strumento mediante cui affinare il gusto e intendere l'opera pittorica, dev'essere avvenuta verso i primi anni della seconda metà del IV secolo. Non solo, ma la testimonianza di Aristotele rivela anche la funzione diversa data ormai alla pittura, non più intesa come pura ornamentazione, come applicazione di colori piatti, imitanti, in pure forme geometriche, il ‛vero', come avrebbe voluto Platone, che si richiama alla pittura arcaica, contro la pittura ‛moderna', prospettica e ‛fantastica' (vedi sopra). Di contro al ‛verismo' platonico, il ‛realismo' di Aristotele, mostra l'intenzione nuova della pittura volta ad esprimere, in linguaggio pittorico una ‛verità' pittorica, imitazione della realtà, non tanto della realtà qual'è, ma di una realtà ‛possibile', verisimile. Pòiesis e tecnica così coincidono, in un saper rappresentare, comunque sia - o a colori piatti, o con impasti di colori, o per chiaroscuro, o come si voglia - un qualcosa che realizzi, appunto, un oggetto che abbia un ‛suo' ordine e una ‛sua' misura, qual'è nell'idea del poietès ("Attribuiamo la sapienza nelle arti a coloro che la esercitano nel modo più perfetto. Così chiamiamo Fidia sapiente scultore in pietra, Policleto sapiente statuario, indicando qui col nome di sapienza non altro se non la virtù [eccellenza] della tecnica": Etica Nic., vi, 7, 1141 a, 9 ss.; cfr. anche ibid., i, i, 1094 a, 7; 1097 b, 6; ii, i, 1903 a-b; Metaf., i,. 981 a, 30). Il bello perciò non sta nel contenuto rappresentato, ma nella forma con cui si rappresenta. E che di ciò fossero consapevoli i pittori e gli scultori del tempo di Aristotele, è testimoniato da Aristotele stesso nei suoi molti esempî tratti dall'arte pittorica.
"Ad ogni produzione dell'arte preesiste l'idea creatrice (poietica) che gli è identica, per esempio l'idea creatrice dello scultore preesiste alla statua. Non vi è in tal dominio generazione a caso (αὐτόματον). L'arte è ragione dell'opera, ragione senza materia" (De part. anim., 640 a, 30).
E poiché la ragione è tesa a realizzare proporzione e misura, l'opera poietica è tale in quanto la realtà ch'essa assume si struttura secondo misura e proporzione, che si rivela a chi la contempla.
I colori espressi in numeri proporzionali, sì come gli accordi dei suoni, sono i più piacevoli (porpora, scarlatto e alcuni altri colori analoghi, pochi, ché pochi sono gli accordi). Ma se gli altri colori non sono esprimibili in numeri, tuttavia vi riescono i pittori, che sanno farli apparire gli uni mediante gli altri. I pittori, infatti, passano su di un colore più vivido un altro colore, come quando vogliono fare apparire qualcosa nell'aria o nell'acqua, in un rapporto di colori fra quelli che sono in superficie e quelli che sono sotto" (De sens. et sensib., 440 a, 8 ss.).
"Innanzi tutto il pittore disegna in contorno l'animale che vuole ritrarre: quindi mediante varî colori ricopre la superficie disegnata compiendo l'opera... (De gener. an., 725 a, 28)... La pittura contemperando tra loro le nature dei colori bianchi e dei neri, gialli oro e rossi, compone immagini (eikòna) di cose consone ai modelli" (Arist. Pseudo, De mundo, 396 b 12). (Sull'uso dei colori cfr. anche: De anim. generatione, 725 a 26; De coloribus, 792 b 17; Historia anim., 548 a, 11; Metereol., 372 a ss.).
Il che non vuol dire affatto che le immagini dei pittori debbano essere un calco di ciò che rappresentano, ché la loro ‛verità' sta in loro stesse ("i prodotti dell'arte hanno il loro valore in se stessi, basta ch'essi abbiano una loro determinata costituzione" (Etica Nic., ii, 1105 a, 26-28), cioè nel come riescono a significare, mediante proporzioni di colori e simmetria di forme, affezioni dell'animo, in un retto discorso di immagini. Così, ad esempio, l'errore poetico è interno allo stesso discorso poetico e non si riferisce a ciò che vien rappresentato. "Non può esserci una stessa norma di correttezza per la politica e per la poetica... Entro i limiti della poetica, sono possibili due categorie di errori; gli uni riguardano la poetica direttamente nella sua essenza, gli altri riguardano la poetica solo indirettamente e accidentalmente. Se v'è incapacità nel rappresentare un oggetto quale il poeta voleva rappresentare, allora l'errore è proprio della poeticità; se invece il poeta, dell'oggetto che vuol rappresentare, ha un'idea sbagliata, come chi, per esempio, dipingesse un cavallo nell'atto di spingere innanzi tutte e due le zampe di destra, allora l'errore... non riguarda la poetica in se stessa" (Poetica, 1460 b, 14, 16 ss.).
Teoreticamente l'immagine non è né vera né falsa (essa "è memoria che è come un'impronta o pittura che resta in noi": De mem. et remin., 450 a, 29, 450 b, 16; cfr. anche Anima, iii, 427 e 18 ss.).
L'immagine è ciò che sorge attraverso un'imitazione, ma questo non appartiene alla legge. D'altra parte se l'espressione per via d'immagini non avviene in senso proprio, evidentemente si ha un discorso oscuro.... Se l'espressione definitoria è poi separata dal suo oggetto [cioè dall'immagine presente alla mente, e che si vuol significare], essa somiglia alle opere dei pittori antichi, nelle quali non si riuscirà a riconoscere che cosa fosse ciascuno degli oggetti rappresentati, a meno che qualcuno non vi avesse scritto sopra l'indicazione" (Topici, 140 a, 14 ss.).
Sotto questo aspetto si capisce come Aristotele possa sottolineare che, se teoreticamente la prospettiva (σκιαγραϕια), usata dai pittori ("somigliante allo stile oratorio che conviene nelle assemblee popolari": Retorica, ii, 1414 a, 8), è falsa, nel senso che fa apparire le cose o quali non sono o quali non esistono, essa, tuttavia, ha una sua realtà (Metaf., v, 1024 b, 23). Sembra questa una testimonianza notevole, che non solo indica una ben precisa concezione sulla funzione della pittura, ma anche un approfondito studio delle tecniche che scientificamente realizzano la prospettiva, così come appare anche da un testo della scuola di Aristotele, in cui si dice che un pittore di talento che dipinge qualcosa come se fosse lontana e qualcosa come se fosse vicina (τῷ πόρρῳ τὸ δέ τῷ πλήσιον), riesce a far sì che anche noi che guardiamo, vediamo alcune delle immagini dipinte indietreggiare, altre venire innanzi, pur essendo l'una e l'altra immagine sullo stesso fronte visivo, ἐπιϕάνεια (De audibilibus, 801 a, 33). Falsa, dunque, la prospettiva sul piano del ‛vero' ed essa è vera sul piano della rappresentazione della realtà, e di una realtà poetica, possibile.
"I bei dipinti differiscono dagli esseri reali (Politica, iii, 6, 1281 b, 12). I buoni pittori di ritratti (εἰκουογράϕοι), riproducendo le fattezze peculiari di un individuo, ne disegnano un ritratto che senza venir meno alla somiglianza è tuttavia più bello dell'originale (Poetica, 1454 b, 6). - Il diletto che poniamo a vedere le immagini delle cose deriva appunto da ciò, che, attentamente guardando, ci avviene di scoprire e di riconoscere che cosa ogni immagine rappresenti, come se, per esempio [uno dicesse]: sì è proprio lui! Che se per caso non si sia veduto prima, in natura, l'originale, non sarà certo l'immagine sua in quanto ne sia la fedele imitazione che ci recherà diletto, ma ci diletteranno l'esattezza dell'esecuzione, il colorito o qualche altra causa di simil genere (Poetica, 1448 b, 14 ss.), [qualora sia realizzato un certo prestabilito disegno]. Come il mito è l'elemento primo, l'anima della tragedia, così della pittura lo è il disegno. Se uno riempisse, sia pur dei colori più belli, ma a caso, una superficie, costui non potrebbe dilettare sì come dipingesse in bianco l'immagine (Poetica, 1450 b, i ss.). - Alla vista del disegno (γραϕή) [rappresentante il padre], Teucro scoppiò in pianto..." (Poetica, 1455 a, i).
Sottolineiamo qui che il termine per indicare il ritratto fisionomico, è εἰκών, tanto che gli stessi ritrattisti vengono detti εἰκονογράϕοι. Anche se in Aristotele il termine εἰκών (immagine, rappresentazione), è usato in più accezioni, da questi testi si può rilevare che il termine doveva essere ormai entrato nell'uso corrente per indicare, appunto, il ritratto fisionomico, e che v'erano pittori particolarmente specializzati in simili ritratti (non va dimenticato che Apelle era contemporaneo di Aristotele, e che, anche se indirettamente, Aristotele potrebbe essere una testimonianza su ciò che più tardi si dirà su Apelle ritrattista: vedi voce apelle), giustificando, d'altra parte, l'affermazione di Plinio, secondo cui le statue rappresentanti le fattezze proprie dei vincitori di Olimpia, erano dette icone (Plin., Nat. hist., xxxiv, 16; xxxv, 57).
Ma accanto al ritratto fisionomico, certa è anche l'esistenza di ritratti determinanti un tipo, o meglio rivelanti la tipizzazione di caratteri - ottenuta mediante la fissazione di certi gesti o movimenti (Poetica, 1447 a 28), tanto è vero che come con Aristotele entra in uso il termine iconografo, per intendere il pittore di ritratti fisionomici, così, entra in uso il termine etografo, per intendere il pittore di caratteri. L'uno e l'altro termine son già, nell'uso che ne fa Aristotele, termini cristallizzati, che, dunque, denunciano un uso corrente che rivela delle specializzazioni pittoriche.
"Non tutti i poeti - sottolinea Aristotele - esprimono caratteri: e così, anche tra i pittori, Zeusi, per esempio, si trova di fronte a Polignoto, in questa medesima condizione, ché Polignoto è un valente etografo, mentre la pittura di Zeusi è assolutamente priva di rappresentazioni di carattere (Poetica, 1450 a, 27)... Nell'etografia... bisogna aver sempre di mira ciò che è richiesto dalle leggi del necessario o del verosimile ..." (1454 a, 33).
Il che non vuol dire che accanto al ritratto e alla rappresentazione di caratte4, l'uno e l'altra ottenuti mediante tecniche che costituiscono una certa verità poetica, non possa esistere un terzo tipo di pittura, che rappresenta una realtà che non esiste, una realtà fantastica, anch'essa avente una sua ‛verità'. Ciò secondo Aristotele sarebbe testimoniato dalle pitture di Zeusi: "Se non sembra possibile esistano, per esempio, persone come ne dipingeva Zeusi, tanto meglio, ché il modello deve oltrepassare la realtà" (Poet., 1461 b, 13).
Relativamente ai caratteri, sottolinea Aristotele, gli imitatori rappresentano "persone che agiscono e queste persone non possono essere che nobili o ignobili ...(vi sono uomini migliori di noi, peggiori di noi, e come noi)". Egli prende esempio dalle pitture di Polignoto, di Pauson e di Dionysios, dei quali testimonia che "Polignoto raffigurò esseri migliori, Pauson peggiori, Dionysios simili" (Poetica, 1448 a 5). Sullo stesso carattere della pittura di Polignoto e di Pauson Aristotele aveva insistito anche nell'viii libro della Politica di chiara imitazione platonica - ove discorrendo della educazione, ai fini dell'educazione, condanna il contenuto delle rappresentazioni di Pauson: "occorre che i giovani non contemplino i quadri di Pauson, ma quelli di Polignoto e di qualunque altro pittore o scultore si mostri ispirato all'etica (Politica, viii, 5, 1340 a, 36-39). I magistrati abbiano dunque cura che non si esponga né una statua né una figura che rappresenti azioni oscene, se non nei templi di quegli dèi ai quali la legge fa lecita ogni licenza" (Politica, vii, 15, 1336 b, 15 ss.).
b) Scultura. - Da un punto di vista generale e teorico, cioè relativo alle condizioni per cui una scultura può dirsi poetica, il discorso aristotelico si muove sullo stesso piano di quello intorno alla pittura. Anzi, relativamente alla costruzione di statue, tanto meglio in essa Aristotele vede la poieticità, intesa come capacità di dar realtà ad un oggetto che non è, seguendo la struttura stessa con cui si costituisce l'oggetto naturale attuando una sua misura e proporzione. Causa formale (l'idea che l'artista vuol realizzare), causa materiale (la materia che deve assumere una forma), causa efficiente e causa finale. A tale scopo, e per chiarire le molte accezioni del termine causa, Aristotele prende gli esempî dalla scultura ("causa si dice, ad esempio, il bronzo di una statua ..., una causa si dice anche lo scultore, oppure causa è Policleto, perché, per avventura, lo scultore è Policleto...", Metaf., 1013 a 14 - 1414 a 15; "in conseguenza della pluralità di sensi con cui s'intende causa, avviene che una stessa cosa abbia una pluralità di cause, e non per accidente; ... ad esempio, per la statua, Policleto è una causa, lo statuario un'altra, perché è un accidente per lo statuario essere Policleto, ... il bronzo altra ancora ...; oppure si dirà non che Policleto o lo statuario è causa, ma lo scultore Policleto ...", Fisica, 195 a 6-40; cfr. anche Politica, 1256 a 7).
Senza alcun interesse per un qualche accertamento storico sono gli accenni di Aristotele a statue o a scultori. Si tratta di poche e fuggevoli citazioni: alle mobili statue di Dedalo (Filippo, figlio di Aristofane, in una commedia intitolata Dedalo, "impresse il movimento alla lignea Afrodite, infondendole argento vivo", Anima, i, 406 b, 18; cfr. Politica, i, 4, 1253 b 35); ai tripodi di Efesto (Politica, i, 4, 1253 b, 35); alle statue rappresentanti i tirannicidi Aristogitone ed Armodio (Retorica, i, 9, 1368 a, 18) e a quella rappresentante Mytis (Poetica, 1452 a, 7); alle statue che, Aristotele testimonia, si ergevano in Atene a raffigurare gli eponimi (Costituzione di Atene, 53), insieme a quelle che sull'agorà rappresentavano i personaggi delle singole tribù (Cost. At., 48); all'arte statuaria di Policleto (Fisica, 1395 a-b; Metaf., 1013 b-1014 a; Etica Nic., 1141 a, 10) e di Fidia (Etica Nic., 1141 a, 10). Per Fidia è appena il caso di citare il molto tardo pseudo-aristotelico De mundo, 399 b, 33, ove si ripete il celebre aneddoto di Fidia che preparando "la sua Atena nell'Acropoli avrebbe impresso nel mezzo dello scudo il proprio volto, applicandolo alla statua mediante un invisibile lavoro, per cui se qualcuno lo avesse voluto sottrarre avrebbe dovuto per forza disciogliere e smontare la statua" (cfr. anche De mirabilibus auscult., 846 a, 18). Si ricordi che la statua era composta di tanti pezzi, di ognuno dei quali era calcolabile il valore (cfr. Fidia). Ricordiamo, infine, che una volta Aristotele sembra faccia apparire Pauson come scultore (Metaf., 1050 a 20). Certo il testo è equivoco, ed è più credibile intendere con Ross (Commento all'edizione della Metafisica), piuttosto che con Alessandro (Comm. alla Metaf., 588, 29) che, in effetto, Aristotele si riferisse ad una pittura di Pauson, che probabilmente appariva a tutto tondo ..... è il caso dell'Hermes di Pauson: anche la scienza, come quello, non si saprebbe se è fuori o se è dentro" εἰ γὰρ μὴ οὕτω γίγνεται, ὁ Παύσωνος ἔσται ῾Ερμῆς • ἄδηλος γὰρ καὶ ἡ ἐπιστήμη εἰ ἔσω ἢ ἔξω, ὥσπερ κἀκεῖνος: -κἀκείνω ha il Laurenziano 87, 12).
Il motivo dominante della poetica di Aristotele è che l'opera dell'arte consiste nella costruzione di una realtà che non è in natura, il cui fine è nella mente di chi crea, fine che si realizza mediante un sapiente uso dei materiali dati, sì che di fatto si attui un'opera che compie il suo fine, in un'armonia, simmetria, giusto mezzo di fini, architettonicamente (tanto è vero che anche il realizzarsi in atto della ragione pratica, come armonia di fini è detto da Aristotele virtù architettonica: Etica Nic., i, 1-2; vi, 7, 1141 b, 23; Etica Eudemea, i, 1217 a, 6). Di qui l'importanza data da Aristotele all'architettura, o meglio il perché Aristotele, soprattutto nell'Etica Nicomachea e nella Politica, trae i suoi esempî dall'architettura, sempre, tuttavia, in forma generica, includendo l'architettura entro i termini della poetica, sì che in conclusione dai suoi esempi poco o nulla si ricava per un accertamento storico della situazione dell'architettura al suo tempo. Bastino alcuni esempi:
"Le virtù etiche le acquistiamo mediante l'esercizio, sì come accade nelle arti ..: costruendo case diveniamo architetti ....; dal costruire bene le case si formano i buoni architetti ... (Et. Nic., ii, I, 1103 a-i 103 b). L'architettura è un'arte, in quanto è una disposizione poetica accompagnata da ragione (Et. Nic., vi, 4, 1140 a, 7)... Gli amanti dell'architettura (ϕιλοκοιδόμοι) e delle altre arti, ciascuno progredisce nella propria opera quando prova piacere in essa (Et. Nic., x, 5, 1175 a, 34)... Nell'edilizia uno è l'architetto, altro il costruttore che eseguisce la casa" (Magna Moralia, 1198 a, 36; si cfr. anche Politica, vii, 7, 1328 a, 33; iii, 6, 1282 a, 17; Et. Nic., i, 7, 1097 b 7).
"Ogni movimento, come ad esempio la costruzione di una casa, si svolge nel tempo e in vista di un dato fine ed è perfetto quando abbia compiuto ciò a cui mira o nell'intero suo periodo di tempo o nel momento finale; i movimenti parziali invece nei loro singoli movimenti sono tutti imperfetti e sono diversi dal movimento completo e diversi tra di loro. Ad esempio, la sistemazione delle pietre è cosa diversa dalla scanalatura delle colonne ed entrambe le cose sono diverse dall'intera costruzione del tempio; e la costruzione del tempio è cosa peffetta (in essa non manca nulla per 10 scopo proposto), invece quella del piedistallo e quella del triglifo è imperfetta: entrambe, infatti, sono costruzioni di parti" (Etica Nic., x, 4, 1174 a, 19).
Degli strumenti usati per l'edilizia può essere interessante ricordare il regolo di piombo, usato nell'edilizia di Lesbo, che "si piega alla forma della pietra e non rimane rigido" (Etica Nic., v, 10, 1137 b, 30-31). Purtroppo un solo accenno appena è dedicato da Aristotele alla scenografia (σκηνογραϕία), ch'egli dice risalire a Sofocle (Poetica, 1449 a, 15) e che chiaramente afferma essere un'arte a sé, avente i suoi fini, che non sono, ad esempio, quelli della tragedia, che pur si svolge sulla scena (Poetica, 1450 b, 15-20), il che sembra avere una certa importanza storica.
La costruzione platonica della Città eliminava, alla fine, l'agorà politica; nel vii libro della Politica, il più vicino alla concezione urbanistica di Platone, Aristotele pur delineando una costruzione ideale, mantiene "il senso profondo dell'agorà e tenta di salvare i suoi caratteri primitivi, politici e religiosi" (R. Martin, Reclerches sur l'Agorà grecque, Parigi 1951, p. 306), in una precisa osservazione della realtà storica e della situazione del tempo. Attraverso Aristotele, così, ci rendiamo conto della trasformazione subita, nel corso del IV sec., dall'agorà e dalla struttura urbanistica di una pòlis democratica, ove appunto il pernio della vita si viene spostando dal piano religioso-politico al piano politico-commerciale, frutto della stessa attività degli uomini. Ciò è chiaramente dimostrato dall'esigenza di Aristotele di sdoppiare l'agorà, istituendo un'agorà ἐλενϑέρα, sul modello di quella dei Tessali, libera da ogni mercanzia, riservata ai soli liberi cittadini, centro di discussioni politiche; e un'agorà ἀναγκαία, lontana dalla prima, in un luogo adatto ai traffici ed al commercio, ove si svolgano i baratti, e le operazioni economiche, e dove abbiano sede gli uffici degli agronomi e degli astinomi (Politica, vii, ii, 1331 a-b).
Non a caso Aristotele nel I libro della Politica, certo posteriore al vii e all'viii, terrà in gran conto, studiando le condizioni che permettono il costituirsi dello stato, le necessità economiche. Aristotele da un lato tentava di conservare il vecchio tipo di stato religioso-politico, ma dall'altro lato riconosceva il significato delle nuove esigenze, trasparentemente descrivendo la nuova agorà democratica che ha soppiantato la vecchia. Lo stesso va ripetuto per la descrizione che Aristotele fa delle varie concezioni urbanistiche e topografiche (cfr. tutto il libro vii della Politica) dalle più arcaiche alla più moderna, com'egli stesso chiama la sistemazione di Ippodamo di Mileto (cfr. sulla concezione politica di Ippodamo e sulla sua divisione della città, Politica, ii, 5, 1267 b ss.; v. s. v. ippodamo), fino a giungere ad accantonare come invecchiati certi motivi proprî dell'ideale urbanistico di Platone, come chiaramente risulta dal passo che segue:
"La disposizione delle case si stima più grata e più utile per ogni riguardo, se la città venga divisa secondo il sistema moderno ippodameo e, rispetto alla sicurezza nello stato di guerra, è consigliabile il sistema contrario, quello in pratica presso gli antichi, per il quale la città era inaccessibile ai nemici, e non era facile agli assalitori, quando vi fossero penetrati, il rintracciare le vie. Perciò occorre che la città partecipi dell'uno e dell'altro sistema (e ciò è possibile se il disegno di essa corrisponde alla disposizione delle viti collocate a distanze diseguali e senza direzione di filari): e a questo scopo non si deve dividere tutto simmetricamente, ma solo in certi punti e quartieri. In tal modo infatti si sarà provveduto bene alla sicurezza e all'ordinamento della città. Ma riguardo alle mura, coloro i quali affermano (Platone] che ne debbono fare a meno quelle città che fanno a fidanza sul loro valore, pensano in modo troppo antiquato, pur vedendo battuti coi fatti quei popoli che si resero rei di queste millanterie. Senza dubbio non è bello il cercar la salute nella saldezza delle muraglie verso nemici dello stesso valore e di numero non soverchiante: ma poiché suole accadere che la superiorità numerica degli aggressori sia sproporzionata al valore umano, se la città vuole salvarsi e non patire maltrattamenti ed oltraggi, bisogna pensare che il presidio più sicuro di guerra sta nella saldezza delle mura, soprattutto perché sono stati ora trovati gli strumenti più peffetti pel lancio dei proiettili e per le opere d'assedio [da Ermia di Atarneo]. A dir vero il ritenere inopportuno guarnire di mura la città è lo stesso che cercare un paese ben difeso e toglierne i punti montuosi: sarebbe lo stesso che non difendere con mura le abitazioni private, perché questo renderebbe ignari gli abitatori. Ma si deve ben notare che, cingendo la città di mura, ci si può valere della loro difesa e nello stesso tempo vi si può rinunziare: mentre ciò è impossibile alle città che ne sono sprovviste. Stando le cose in questi termini, bisogna aver cura non solo di cingere le città di mura, ma provvedere anche che queste siano di ornamento alle città, e nello stesso tempo corrispondano alle esigenze guerresche, soprattutto a quelle prodotte da nuovi mezzi d'offesa. Poiché a quel modo che gli aggressori debbono escogitare i mezzi per poter soverchiare, così pure i difensori hanno fatto alcune invenzioni, ma occorre ancora che altre ne trovino ed escogitino. Infatti fin dall'antichità si vede che non si assalgono le città che sono in buono stato di difesa.
Ma poiché occorre che la popolazione dei cittadini sia divisa in brigate per i sissizi, e le mura siano interrotte da stazioni presidiarie e torri collocate in luoghi opportuni, è ovvio che queste stazioni di guardia siano usate per alcuni sissizi. Questi criteri, dunque, potrebbero presiedere a tali disposizioni di carattere militare" (Politica, vii, 10, 1330 b -1331 a, trad. Costanzi).
Testi relativi alla pittura e alla scenografia: Topici 140 a 21; De mem. et remin., 450 a 29, 450 b 16; De gener. anim., 725 a 26, 743 b ss.; Hist. anim., 548 a ii; De part. anim., 645 a 13 ss.; Meteorol., 349 b i, 372 a i ss.; De sensu et sensibili, 440 a 8 ss.; De anima, iii, 427 b 18 ss.; Metaf., 1024 b 23; Magna Moralia, 1190 a 31; Etica Nicomachea, iii, 10, 1118 a 4; X, 118o b 34, 1181 a 23; Politica, iii, 1281 b 13, 1284 b 8, vii, 1336 b 15, viii, 1337 b-1338 a, 1340 a 39 ss., 1341 a 35; Poetica, 1447 a 20, 1448 a 5, 1448 b 5-10, 1448 b 15, 1449 a 15, 1450 a 25-30, 1450 b i, 1450 b 15-20, 1454 a 33, 1454 b 6 ss., 1455 a i, 1460 b 8, 1460 b 15-20, 1461 b 12; Retorica, i, 1371 b 7, iii, 1414 a 8.
Pittori citati: Dionysios (Poetica, 1448 a 6); Pauson (Politica, 1340 a 36; Poetica, 1448 a 6; Metafisica, 1050 a 20); Polignoto (Politica, 1340 a 37; Poetica, 1448 a 5, 1450 a 27); Zeusi (Poetica, 1461 b 12).
Testi relativi alla scultura e alla statuaria: De part. anim., 640 a 30; Metafisica, 1013 a-1013 b 36, 1014 a 14-15; Fisica, 195 a 6, 195a 33-34 ss.; Etica Nicom., I, 1094 b I, 1097 b 6, vi, 1141 a ss.; Politica, i, 1253 b 7, v, 1256 a 7, 1315 b 20, vii, 1336 b 15; Poetica, 1452 a 7; Retorica, i, 1368 a 18; Costituzione di Atene, 48, 53.
Scultori citati: Dedalo (De anima, I, 406 b 18; Politica, i, 1253 b 35); Policleto (Fisica, 195 a 34-195 b 12; Metaf., 1013 b 35, 1014 a 1-15; Etica Nicom., 1141 a ii); Fidia (Etica Nicom., 1141 a 10).
Testi relativi all'architettura, all'urbanistica, all'ornamentazione delle città : Magna Moralia, 1198 a 36; Etica Eudemea, 1217a 6; Etica Nic., I, 1094 a, 1097 b 7, ii, 1103 a-b, v, 1137 b 30-31,vi, 1140 a-1141 a, x, 1174 a 2, 1175 a; Politica, iii, 1282 a, v, 1313b 21 ss., vi, 1320a, 1321b, vii, 1325 b 23, vii, 1326 b (cap. v ss.), 1328 a (cap. vii), 1330 a (cap. x)1331 b. Per Ippodamo di Mileto si veda Politica, 1267 b, 1331 a. Per una specie di piano regolatore esistente ad Atene cfr.: Costituzione di Atene, 50.
Tra le opere apocrife, andate entro il corpus aristotelico cfr.: De mundo, 396 b 12, 399 b 33-34; De coloribus, 792 b 17; Problemata, 895 b 37, 932 a 31 (pur essendo acqua, differenti sono i colori del mare, dei laghi, dei fiumi, "onde i pittori, non inettamente, sono soliti dipingere pallidi i fiumi, ceruleo il mare, candido il lago"); De audibilibus, 8o1 a 33, 802 a 38; De mirabilibus auscult., 846 a 18].
Bibl.: In mancanza di una bibliografia particolare sull'argomento, rimangono da indicare i due lavori di R. Martin, Recherches sur l'Agora grecque, Parigi 1951; L'Urbanisme dans la Grèce antique, Parigi 1956.
(F. Adorno)