PLATONE
Filosofo greco (428/427-348/347 a.C.), il cui influsso fu fondamentale nel corso del Medioevo.Se appare arduo tentare di unificare gli sviluppi della filosofia medievale sotto titoli o capitoli generali, si può tuttavia azzardare che il platonismo medievale tanto nel suo primo proporsi quanto nella sua più tarda rinascita nel sec. 12° perseguì due scopi fondamentali: quello, più universale, della conciliazione di ragione e fede (che implica anche la conciliazione tra disegno divino e ordine naturale) e quello, più specifico, ma pur sempre dipendente dal primo, della dimostrazione dell'accordo tra P. e Aristotele. Tuttavia, la finalità che ogni filosofo medievale si propose, con maggiore o minore consapevolezza, nel momento in cui guardò a P. è forse ancora superiore e di portata incalcolabile per la storia dell'umanità: difendere e salvare l'ideale della cultura classica eleggendolo a fondamento della cultura cristiana, considerando quest'ultima come la naturale prosecuzione della prima.Su questo sfondo problematico, si possono individuare tre 'soglie' della diffusione medievale del platonismo: Anicio Manlio Severino Boezio (480 ca.-524), che deve essere considerato sia per la sua opera originale sia per quella di traduttore; la speculazione di Giovanni Scoto Eriugena (sec. 9°); infine, l'ampia influenza esercitata dalla scuola di Chartres nel 12° secolo. Ma, prima di esaminare questi episodi nel dettaglio, occorre definire il ruolo del platonismo nel Medioevo e dunque, in primo luogo, rispondere alla questione preliminare sulla reale consistenza di un 'platonismo' medievale. La risposta assume un senso molto preciso: non esiste propriamente un 'P. medievale'; nel senso che non esiste un'esplicita riflessione del Medioevo su P. come figura distinta della tradizione antica. Esiste, piuttosto, una continua riflessione su questa tradizione nella quale P. viene riconosciuto come l'autore in grado di operare la saldatura con la tradizione cristiana. Ciò significa innanzitutto che il riferimento dei filosofi medievali non va in primo luogo a P. direttamente, ma a quegli autori della Tarda Antichità (Origene, s. Agostino, s. Girolamo, lo pseudo-Dionigi l'Areopagita, ecc.) che proprio di P. avevano fatto la premessa per costruire la continuità tra la 'grandezza' della civiltà antica e la 'verità' della nuova civiltà cristiana. Ciò che il Medioevo trovò in P. è dunque assai di più - specie, questione non secondaria, in termini quantitativi, ossia nel riferimento a testi attribuiti a P. e risalenti in realtà alla tradizione post e neoplatonica - di quanto avrebbe potuto mai trovare nel P. 'storico'. Anche questo è un aspetto di quel "polimorfismo dell'influenza platonica" rilevato nel pensiero medievale: "Platone stesso non è da nessuna parte, ma il platonismo è ovunque; diciamo piuttosto: ovunque ci sono dei platonismi" (Gilson, 1922, trad. it. p. 324). In conseguenza, Gilson individua cinque vie di diffusione del platonismo medievale: la più consistente, per il numero di autori che comprende e per la forza dell'influenza esercitata, è quella che si sviluppò dallo pseudo-Dionigi l'Areopagita (fine sec. 5°) e da Massimo il Confessore (580-662) e che, grazie alla traduzione del Corpus Dionysianum affidata da Carlo il Calvo (875-877) a Giovanni Scoto Eriugena, fu all'origine del platonismo di quest'ultimo e della conseguente rinascita platonica dell'età carolingia (Bréhier, 1937, trad. it. p. 60ss.; Klibansky, 1939, p. 25); di qui, questa corrente riaffiorò in seguito prepotentemente nel platonismo della scuola di Chartres, a cominciare da Bernardo di Chartres (m. nel 1130 ca.). Gli altri 'platonismi' medievali sono riconducibili all'influenza diretta di s. Agostino (354-430), che è particolarmente evidente nell'opera di s. Anselmo d'Aosta (1033/1034-1109); a quella di Boezio, che condizionò l'opera di Gilberto Porretano (1080 ca.-1154); al ritorno d'interesse, nella tarda età medievale, per il c.d. Liber de causis, che la tradizione attribuiva ad Aristotele, ma che consisteva in realtà in una riformulazione radicale della Elementatio theologica di Proclo (412-485; a riconoscerne l'estraneità al pensiero aristotelico e l'affinità con Proclo sarebbe stato poi s. Tommaso d'Aquino); e infine all'influenza del filosofo persiano Avicenna (Ibn Sīnā, 980-1037), la cui dottrina dell'emanatismo, reinterpretata in senso aristotelico da s. Alberto Magno (m. nel 1280) - maestro di s. Tommaso d'Aquino (1225/1226-1274) -, rivelò più tardi la sua autentica ascendenza platonico-plotiniana nell'opera, per es., di Teodorico di Vriberg (m. dopo il 1310).Lo schema illustrato da Gilson (1922) non viene nella sostanza contraddetto da Klibansky (1939). Quel che induce Klibansky a occuparsi dell'immagine medievale di P. è la necessità, cui si è fatto sopra cenno, di spiegare la rinascita dell'interesse platonico nel Tardo Medioevo e nei primi umanisti dopo la 'frattura' aristotelico-scolastica. Questa rinascita può spiegarsi soltanto sulla premessa di una 'continuità', appunto, della tradizione platonica attraverso il Medioevo. Ma ciò parrebbe implicare la sopravvivenza di una corrente autenticamente platonica accanto a una tradizione neoplatonica che non coincide sempre e pienamente con essa.Per dimostrare l'esistenza di questa continuità, Klibansky (1939, p. 13) individua tre vie attraverso le quali il pensiero platonico si conservò e si trasmise attraverso il Medioevo; si tratta di ambiti caratterizzati tanto dall'elaborazione originale della filosofia platonica quanto dalla trasmissione e traduzione dei dialoghi (Plato Arabus, Plato Byzantinus, Plato Latinus).L'importanza della tradizione araba sta soprattutto nel fatto che essa è la più vicina alle fonti greche, pur ricollegandosi a esse solo indirettamente. Nel 529, infatti, un editto dell'imperatore Giustiniano chiudeva l'Accademia di Atene proibendo l'insegnamento della filosofia pagana, affinché fosse messa fine alla 'follia dei Greci' (Adorno, 19922, p. 414). Gli esponenti della vita culturale ateniese si rifugiarono pertanto presso la corte del re persiano Cosroe I (531-579), che aveva viva simpatia per la filosofia ellenica e si trovava in guerra con Giustiniano. Qui, tuttavia, la filosofia greca si incontra con i reduci della 'scuola di Edessa' di ispirazione nestoriana, chiusa dal vescovo ortodosso nel 489, e con i sostenitori dell'eresia monofisita, che avevano trovato anch'essi accoglienza presso la corte persiana. Quando, tre secoli più tardi, queste diverse correnti confluirono nel programma di rinnovamento culturale sostenuto dalla corte dei califfi di Baghdad, il panorama filosofico che ne risultò fu un contesto sincretistico nel quale un P. già 'cristianizzato' - sia pure nel segno di un cristianesimo eterodosso - si offre come base di un'ulteriore elaborazione teologica nel segno dell'Islam. Sotto il regno del califfo abbaside Ma᾽mūn (813-833), il siriano Yaḥyā ibn al-Biṭrīq tradusse in arabo il Timeo; successivamente, il nestoriano Ḥunayn ibn Isḥāq (808-873) tradusse le Leggi, la Repubblica e il Sofista con il commento di Olimpiodoro e, nuovamente, il Timeo. Nel secolo successivo vennero ritradotte le Leggi e venne riveduta ulteriormente la traduzione del Timeo: segno già, questo, dell'importanza 'teologica' che il Medioevo arabo, come più tardi quello cristiano, riconobbe al dialogo della 'cosmologia' platonica. Altri dialoghi furono, se non tradotti integralmente, almeno tradotti in parte o abbondantemente citati dai dotti arabi; tra questi l'Apologia di Socrate, il Critone e il Fedone. Proprio quest'ultimo, anzi, offre una singolare testimonianza del sincretismo di questa cultura, in cui erano nel frattempo penetrati elementi di provenienza aristotelica, e del modo in cui essa passò nella cultura cristiana. A questo periodo risale infatti la composizione di un dialogo, scritto a imitazione del Fedone, che fu tradotto in persiano, in ebraico e più tardi, per volere di re Manfredi (1258-1266), in latino, con il titolo di Liber de pomo (Klibansky, 1939, p. 14), nel quale un Aristotele morente impartisce le sue ultime volontà ai discepoli.Tra gli altri episodi che determinarono l'importanza del Plato Arabus sono ancora da segnalarsi la circostanza che il teologo bizantino Fozio (810 ca.-893 ca.) scrisse la sua preziosa Bibliotheca (oggi in gran parte perduta) mentre si trovava come ambasciatore presso la corte del califfo e mentre Ḥunayn era ancora in vita (il che fa pensare che le notizie da lui raccolte fossero proprio di provenienza araba) e inoltre, nel sec. 9°, la traduzione della sinopsi dei dialoghi platonici realizzata da Galeno (comprendente Cratilo, Sofista, Politico, Parmenide, Eutidemo, Repubblica, Timeo e Leggi) e la traduzione del commento al Timeo di Plutarco. L'importanza di questa tradizione sta nel fatto che, oltre a testimoniare in generale una conoscenza dell'opera platonica molto più vasta di quella che l'Occidente cristiano poteva vantare all'epoca, essa dimostra di disporre di commenti che risalgono a uno sviluppo del pensiero platonico anteriore allo stesso neoplatonismo, "meno speculativi e più aderenti al testo" (Klibansky, 1939, p. 15). Ciò è di particolare significato proprio per il Timeo, ispirandosi al quale gli scienziati arabi costruirono le loro teorie fisiche e cosmologiche, mentre i filosofi si mostrarono fin dall'inizio più sensibili all'interpretazione neoplatonica. Per iniziativa di questi ultimi divennero accessibili molti dei commenti di Proclo ai dialoghi platonici e numerose parti delle opere di Porfirio (sec. 4°). Ma a testimoniare, ancora una volta, il carattere sincretistico di questa tradizione, va ricordata la rielaborazione araba di due testi fondamentali del neoplatonismo: la c.d. Theologia Aristotelis, falsamente attribuita allo Stagirita, in realtà corrispondente ai libri IV-VI delle Enneadi di Plotino (205-270), e il già ricordato Liber de causis, che in arabo assunse il titolo di Kītāb al-īḍāḥ fī᾽l-khayr al-maḥḍ (Libro sulla natura del bene). Lo spirito neoplatonico di queste opere è riconoscibile nel pensiero di al-Kindī (m. nell'873 ca.), che del resto aveva riveduto personalmente la traduzione della Theologia Aristotelis. Inoltre, in generale, di ispirazione neoplatonica dev'essere considerata la riflessione di al-Fārābī (m. nel 950), che ruota attorno a due motivi neoplatonici cardinali: la dimostrazione del fondamentale accordo tra P. e Aristotele - che aveva motivato anche il tentativo di Boezio, tornando come motivo ricorrente in tutto il platonismo cristiano - e lo sforzo di presentare la filosofia platonica in un ordine sistematico di cui i singoli dialoghi non sono che articolazioni. Il richiamo continuo a una corrente 'genuinamente' platonica venne eclissato, nel mondo arabo, soltanto più tardi con Avicenna, quando la sua dottrina di un mondo increato, eternamente emanantesi da Dio nell'ordine dell'Intelligenza Prima e delle cause minori, sostituì a P. il riferimento diretto a Plotino (Klibansky, 1939, pp. 16-17).Seguendo la via delle conquiste degli eserciti musulmani, il neoplatonismo arabo giunse a influenzare il pensiero ebraico, com'è evidente in Isacco Giudeo (m. nel 955 ca.) - che cercò anch'egli di conciliare P. e Aristotele tentando di armonizzarne le diverse definizioni dell'anima (Bréhier, 1937, trad. it. pp. 115-116) - e, soprattutto, nell'ebreo ispanico Mosè Maimonide (1135-1204) e nel suo simbolismo della luce come fonte della conoscenza.Anche la storia della tradizione bizantina ebbe inizio con l'editto di Giustiniano del 529. Dopo la stipulazione del trattato di pace (532) tra il re persiano Cosroe I e l'imperatore bizantino, che prevedeva un esplicito impegno a non perseguitare i filosofi, essi, tra cui Damascio e Simplicio, poterono fare ritorno in patria; della loro attività successiva non restano tuttavia tracce apprezzabili (Adorno, 19922). Di fatto, il Plato Byzantinus appare assai più condizionato dal neoplatonismo di quanto non lo fosse il Plato Arabus. Il periodo che seguì il ritorno in patria dei 'platonici', mentre vide questi ultimi impegnati prevalentemente in opere di compilazione, conobbe infatti la trasformazione del neoplatonismo - in specie di Proclo - nei modi della speculazione teologica cristiana. Questa trasformazione si compì negli scritti dello pseudo-Dionigi l'Areopagita, e fu rivelata perfino nella scelta pseudonimica del loro ignoto autore. Il redattore del Corpus Dionysianum, infatti, elesse a proprio nome fittizio il nome del greco che avrebbe seguito s. Paolo dopo il discorso dell'Areopago (Adorno, 19922, p. 415). La profonda integrazione tra neoplatonismo e visione cristiana presente negli scritti del Corpus, o piuttosto la traduzione in chiave neoplatonica del cristianesimo, ha indotto più di un autore a parlare di una "completa 'ellenizzazione' del cristianesimo", nonché a vedere, addirittura, "un dileguarsi del cristianesimo nella filosofia platonica" in ciò che resta invece, nella sostanza, un'adozione soltanto formale delle formule espressive neoplatoniche (Ivánka, 1964, trad. it. pp. 173-176). Malgrado l'evidente dipendenza dell'autore da Proclo e la sua latente ispirazione monofisita - elementi, questi, che avevano portato a dichiarare eretici i libri del Corpus nella condanna pronunciata nel 533 dal vescovo Ipazio di Efeso (Adorno, 19922, p. 415) - la fortuna dello pseudo-Dionigi nel Medioevo fu enorme; fino a potersi dire che esso costituisce la spina dorsale di tutto il platonismo medievale. La stessa prima rinascenza platonica nell'Occidente cristiano presso la corte carolingia trasse origine dal dono, fatto nel 754 da papa Paolo I (757-767) al re Pipino il Breve (751-768), di una copia delle opere dello pseudo-Dionigi (all'epoca ritenuto ancora, nonostante l'antica smentita del vescovo Ipazio, autentico discepolo di s. Paolo); dono reiterato, nell'827, dall'imperatore bizantino Michele II il Balbo (820-829) all'imperatore Ludovico il Pio (814-840; Bréhier, 1937, trad. it. pp. 68-69; Klibansky, 1939, p. 25). Questi testi, nelle traduzioni dell'abate Ilduino di Saint-Denis (814-840) e di Giovanni Scoto Eriugena, furono all'origine della diffusione del platonismo nel periodo centrale del Medioevo e forniscono ancora la base su cui si sviluppò la scuola di Chartres. Il platonismo cristiano d'Occidente rivela dunque, per questa via, una sua prima essenziale dipendenza dal neoplatonismo della tradizione bizantina.Questa via e questa influenza non restano tuttavia le uniche. Dopo che la stessa prima esposizione sistematica della teologia ortodossa aveva trovato espressione nel Fons scientiae di s. Giovanni Damasceno (675 ca.-750 ca.) - Padre della Chiesa, il cui dichiarato aristotelismo non è tuttavia esente da essenziali elementi platonici, desunti dalla mediazione di Massimo il Confessore, quali "l'identità del Bene con la volontà di Dio, il male come non-essere, la definizione dell'anima" (Bréhier 1937, trad. it. p. 49) - il fervore per gli studi platonici rinacque nella cultura bizantina del sec. 11° a opera, soprattutto, di Michele Psello (1018-1078). Grazie a quest'ultimo e alla sua scuola, Bisanzio divenne il centro di una nuova irradiazione del platonismo che si estese anche al mondo latino. Fu probabilmente per iniziativa di monaci bizantini, rifugiatisi nei monasteri dell'Italia meridionale per sfuggire alla persecuzione iconoclasta, che molti testi platonici e neoplatonici furono introdotti e tradotti presso la corte normanna di Sicilia e, di qui, nei monasteri e nei centri culturali inglesi (Klibansky, 1939, pp. 20-21), dove furono all'origine di quel 'platonismo' del pensiero inglese destinato a durare fino al Settecento. In particolare, le opere dei discepoli di Psello - Giovanni Italo, fuggito da Bisanzio per rifugiarsi in Italia, sua terra d'origine, Michele di Efeso ed Eustrazio di Nicea (Bréhier, 1937, trad. it. p. 272) - divennero conosciute in Inghilterra nella traduzione di Roberto Grossatesta (1175-1253). Ma, fatto ancor più notevole, fu l'intellettuale bizantino Giorgio Gemisto (1360-1452), il quale assunse poi il nome di Pletone in ossequio al 'maestro' P., a concepire il progetto di una restaurazione del platonismo ispirata direttamente a P. e a Proclo, fondando nella città greca di Mistrà una scuola filosofico-religiosa. Giunto in Italia nel 1438, in occasione del concilio di Firenze, Gemisto Pletone determinò, sia direttamente sia per opera dei suoi discepoli, lo sviluppo del neoplatonismo rinascimentale in Italia.Rispetto alla tradizione araba e a quella bizantina, l'elemento più vistoso che caratterizzò il platonismo cristiano della Tarda Antichità latina fu il fatto di svilupparsi completamente su una tradizione indiretta, essendo all'epoca ancora scarse le traduzioni delle opere platoniche. Valga, su tutti, l'esempio proprio di s. Agostino, il quale, avendo scarsa conoscenza del greco com'egli stesso dichiara (Conf., I, 14, 23), derivò la sua conoscenza della filosofia platonica dalle citazioni contenute nelle opere degli autori latini, soprattutto in Cicerone, nonché da Plotino e Porfirio, che egli poteva leggere nella traduzione di Caio Mario Vittorino (sec. 4°; Klibansky, 1939, p. 22; Adorno, 19922, p. 335ss.). Anche le traduzioni latine di P. già realizzate nell'età classica, come la versione del Protagora dovuta a Cicerone o quella del Fedone dovuta ad Apuleio, sembrano conosciute a pochi e scompaiono comunque ben presto dalla circolazione. Di fatto, è soltanto con Boezio che l'esigenza di una traduzione delle opere platoniche si affacciò nel mondo cristiano occidentale. Coerentemente con la più genuina ispirazione neoplatonica, Boezio si ripromise di tradurre integralmente P. e Aristotele perché ne risultasse evidente l'intimo accordo. Ma il suo progetto rimase limitato alla traduzione dell'Organon di Aristotele. Per questa ragione, e per aver egli stesso scritto alcuni trattati di logica, la sua influenza si estese a tutto il Medioevo successivo, che lo riconobbe universalmente come il 'maestro di logica' per eccellenza, e la sua lezione fu ancora ben presente a Pietro Abelardo (1079-1142). Ma, al di là della sua fama di logico e della realizzazione soltanto parziale del suo progetto di traduzione, quel che Boezio rappresentò per le sorti della filosofia nell'Occidente latino è nell'ispirazione fondamentale del suo programma culturale: egli stesso si assegnò il ruolo di "intermediario tra la filosofia greca e il mondo latino", definì la filosofia come "amore della sapienza" e identificò quest'ultima con un "pensiero vivente, causa di tutte le cose" (Gilson, 1922, trad. it. p. 166). Infine, egli si propose di "unire la fede e la ragione" (Bréhier, 1937, trad. it. p. 22), ossia di dimostrare che ciò che la fede insegna non può che avere un ordine logico, e dunque non può essere in contraddizione con la ragione umana. Il programma della filosofia dei secoli a venire è qui già tracciato, insieme al fatto che Boezio può essere definito, in aggiunta, il creatore del vocabolario filosofico della tradizione occidentale latina.Pur non essendo riuscito nell'intento di tradurre P., l'ispirazione platonica di Boezio traspare dal complesso della sua opera ed è evidente, soprattutto, in quel De consolatione philosophiae (redatto in parte in prosa, in parte in versi) che gli garantisce ancora la sua fama. Scritto in carcere, nell'attesa della morte per l'iniqua sentenza di tradimento emessa da Teodorico (493-526), il libro propone una filosofia personificata nelle vesti di una nobildonna che assicura il filosofo che la vera felicità è immune dalle alterne vicende della fortuna. Benché non entri in esplicita contraddizione con il cristianesimo, il De consolatione philosophiae lo sorpassa, in un certo senso, all'indietro, attuando il ricongiungimento con tematiche stoicoplatoniche di cui è, nella sostanza, una rielaborazione (Bréhier, 1937, trad. it. p. 25). Ma l'importanza che quest'opera riveste per la successiva diffusione del platonismo è senz'altro legata al celebre brano, nel quale Boezio sembra offrire un'interpretazione cristiana della cosmologia platonica del Timeo (De cons. phil., III, IX, vv. 1-10, 22-24). Il compendio della cosmogonia del Timeo offerto da Boezio presenta motivi schiettamente platonici, come lo scandire la creazione secondo il tempo - che P. definisce come immagine dell'eternità che procede secondo il numero (Timeo, 37D) -, in cui sono tuttavia presenti sia motivi aristotelici, come l'assegnare al demiurgo l'attributo di 'motore immobile' ("stabilisque manens das cuncta moveri", De cons. phil., III, IX, v. 3) della Metafisica (1072A, 33ss.), sia motivi derivanti da preoccupazioni cristiane, come quello che assegna a Dio la creazione della materia e risolve così, in anticipo, quel problema di una possibile coeternità della materia e di Dio che tanto diede da fare alla teologia cristiana. Ma l'invocazione finale a Dio di concedere alla mens, attraverso il bene, la via del ricongiungimento con Lui, è testimonianza inequivocabile della concezione di un Dio 'personale' che trascende inevitabilmente la visione cristiana. Quel che ne risulta è una nuova concezione "né platonica né autenticamente cristiana, quella di un Dio personale [...] che forma il mondo a sua immagine e somiglianza, non per necessità, ma in virtù dell'idea del Bene a lui inerente" (Klibansky, 1939, p. 24). Autenticamente platonico è però il riconoscimento della bellezza come forma della perfezione stessa di Dio ("pulcherrimus ipse", De cons. phil., III, IX, v. 7), che si trasmette al mondo e lo rivela, in quanto anch'esso perfetto, come creato a sua immagine. Un motivo, questo, che recupera il significato ontologico della concezione platonica del bello e che determinò in seguito la connotazione 'estetica' di ogni rinascente metafisica platonica.L'influenza che Boezio esercitò sulla successiva riflessione medievale e il particolare rilievo che egli accordò al Timeo, ciò che del resto accadde anche nella tradizione araba, concorrono a valutare con cautela l'opinione corrente che vede nel platonismo medievale nient'altro che una forma aggiornata di neoplatonismo. Se i due grandi rami della tradizione cristiana - quello latino, risalente a s. Agostino, e quello greco, risalente allo pseudo-Dionigi - si saldarono a partire dal sec. 9° in ciò che può essere definita una "trasformazione cristiana del neoplatonismo" (Bréhier, 1937, trad. it. p. 27), la comune interpretazione che vede in Aristotele e Plotino i veri maestri di pensiero del Medioevo dev'essere rivista, secondo Klibansky (1939), alla luce di due circostanze fondamentali. La prima consiste nella sopravvivenza nella tradizione indiretta, accanto alla pur prevalente corrente neoplatonica, di un consistente indirizzo che si ricollega al platonismo più antico, in particolare al platonismo medio. Già in s. Agostino sono presenti elementi che, attraverso s. Ambrogio (340 ca.397) e Origene (185 ca.-254 ca.), rinviano all'interpretazione del platonismo fornita da Filone d'Alessandria (m. nel 45 ca.), e altri che, attraverso Apuleio, rimandano alla scuola medioplatonica. Ma il ponte più importante tra platonismo medievale e platonismo antico è costituito dal commento al Timeo di Calcidio (sec. 4°), basantesi sull'opera già avviata dallo stoico Posidonio (metà del sec. 1° a.C.) e dalla sua scuola. Questo testo, ancora letto e discusso da Scoto Eriugena e dai platonisti della corte carolingia, trasmise agli interpreti medievali della cosmologia platonica un'immagine della struttura armonica dell'universo visibile che risale al di là del simbolismo speculativo di Plotino (Klibansky, 1939).La seconda circostanza consiste nelle nuove traduzioni che, a partire dal sec. 12°, resero accessibili alcuni dei dialoghi platonici senza l'intermediazione dei commenti antichi. Intorno al 1156 Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania, tradusse il Menone e il Fedone. Tali dialoghi vennero più tardi letti da Ruggero Bacone (1220 ca.-1292 ca.) e negli ambienti della scuola di Parigi e furono conosciuti anche dai protoumanisti italiani, tra i quali certamente Francesco Petrarca e Coluccio Salutati.L'opera che più di ogni altra determinò tuttavia lo sviluppo del platonismo medievale fu, ancora una volta, il Timeo, presente nelle biblioteche dei monasteri e delle scuole medievali in varie versioni, da quella commentata da Calcidio ai frammenti tramandati della traduzione di Cicerone. Il Timeo offrì ai pensatori medievali la possibilità di una cosmodicea in cui si integrano giustificazione teologica del mondo e spiegazione razionale della creazione e fornì lo spunto dal quale mossero, negli anni a venire, i tentativi di costruzione di una cosmologia scientifica. La necessità di conciliare la visione platonica con il racconto biblico della Genesi - in cui è ancora presente, seppure volta a fini diversi, l'interpretazione di Boezio - culminò nel sec. 12° nel lavoro della scuola di Chartres, dove il Timeo venne letto e commentato da Guglielmo di Conches (1080 ca.-1154) prima di essere rimpiazzato dallo studio del corpus Aristotelicum. L'immagine di P., reinterpretata e solidificata nell'opera dei maestri di Chartres - Bernardo di Chartres (attivo presso la scuola dal 1114 al 1124), che derivò il suo platonismo da Seneca e Boezio, il suo discepolo Gilberto Porretano, Teodorico di Chartres (m. nel 1156 ca.), fratello minore di Bernardo, Giovanni di Salisbury (1115 ca.-1180) e il già ricordato Guglielmo di Conches - costituisce il momento centrale di ciò che Klibansky (1939) definisce come "la continuità della tradizione platonica". Solo l'ipotesi di una tale continuità consente di spiegare il risorgere del platonismo nei pensatori del primo Rinascimento; su tutti, in Nicola Cusano (1401-1464).L'importanza della scuola di Chartres come momento centrale d'irradiazione del platonismo si riscontra anche nell'estensione della riflessione filosofica ad ambiti che le erano rimasti fino a quel momento sostanzialmente estranei, come quelli della poesia e delle arti. È soltanto da Chartres in avanti che si può parlare a pieno titolo di una riflessione filosofica sull'arte e, forse, di una 'estetica'. Essa vi rientra, inevitabilmente, al seguito della condanna platonica dell'arte in quanto mera finzione, lontana dalla verità, che il Medioevo tradusse immediatamente nella disputa sulla superiorità di poesia e filosofia. Se Pietro Abelardo si presenta come interprete fedele dell'ortodossia platonica negando alla poesia ogni valore conoscitivo, spetta soprattutto a Bernardo Silvestre (Bernardo di Tours, sec. 12°), maestro a Chartres, il merito di aver saputo proporre la poesia come veicolo di filosofia, realizzando la conciliazione delle due visioni del mondo. Bernardo è autore di un De mundi universitate sive Megacosmus et Microcosmus composto in distici elegiaci alternati a parti in prosa, ispirato a Macrobio e, soprattutto, al commento di Calcidio al Timeo (Gilson, 1922, trad. it. p. 330). Proprio ispirandosi a questo dialogo, Bernardo riconobbe nella poesia "delle 'particelle' di conoscenza esposte in forma allegorica" e le attribuì quindi una funzione di integrazione nei confronti della filosofia (Tatarkiewicz, 1970, trad. it. p. 216). Ma è soprattutto la struttura complessiva dell'opera di Bernardo che dev'essere sottolineata, in quanto essa poggia su quel significato ontologico del bello che è concetto schiettamente platonico, filtrato fino a Chartres attraverso la mediazione dell'interpretazione boeziana della cosmologia del Timeo. Nel libro I (Megacosmus) la Natura protesta presso la Provvidenza divina per lo stato di confusione in cui giace la materia e la prega di ordinarla seguendo il criterio della bellezza; la Provvidenza vi acconsente distinguendo la materia nei quattro elementi. Nel libro II (Microcosmus) è la Provvidenza a rivolgersi alla Natura, celebrando l'ordine del mondo così creato e proponendo di creare l'uomo come coronamento della propria opera. Bernardo non esita a mettere in campo una mitologia di figure allegoriche in cui compaiono, tra le altre, Physis, Urania e il demiurgo Pantomorfo, che, come nel Timeo (27A-B; 29A; 30A; 53B; 69B-C), dà forma agli esseri sul modello delle idee (Gilson, 1922, trad. it. pp. 330-331; Bruyne, 1946, II, p. 272ss.). Come risulta evidente, il De mundi universitate di Bernardo non è un trattato di estetica, ma un'opera di metafisica teologica, che si avvale parzialmente della forma in versi, in cui alla bellezza è platonicamente demandato il compito di rivelare l'ordine e la perfezione del mondo creato. È un tratto comune delle 'estetiche' medievali, anche di quelle successive, quello di non addivenire mai a una trattazione separata della problematica estetica (ciò che del resto avvenne soltanto nel Settecento), ma di fare di essa un viatico della comprensione della creazione; l''estetica' medievale non abbandonò mai il suo status di ancilla theologiae. Traspare anche, dall'opera di Bernardo, il primato speculativo che l'epoca ancora riconosce alla poesia sulle altre arti, che discende direttamente dalla dignità teoretica attribuita alle discipline del trivium (grammatica, retorica, dialettica), a sua volta un esito perdurante della concezione classica degli studi. Non a caso a Bernardo Silvestre viene attribuito anche un trattato sull'ars dictaminis e, nel sec. 12° e sempre in ambito francese, compaiono altri trattati di questo tipo come il De ornamentis verborum, in versi, di Marbodo (1035-1123), il Dialogus super auctores di Corrado di Hirsau (1070 ca.-1150 ca.) e l'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme (1130-fine sec. 12°); al secolo successivo sono da assegnarsi la Poetria nova di Giovanni di Garlandia e i trattati, di argomento analogo, di Goffredo di Vinsauf e di Gervasio di Melkley (Tatarkiewicz, 1970, trad. it. p. 142).Ben diverso è dunque, lungo tutto il corso del Medioevo, lo status riconosciuto alle arti diverse dalla poesia. La preoccupazione prevalente fu quella di coordinare lo schema delle sette arti liberali - le discipline del trivium, sopra ricordate, e quelle del quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica) - con la triplice partizione della filosofia (logica, etica e fisica) ereditata da Isidoro di Siviglia (570 ca.-636) e filtrata attraverso l'interpretazione di Aristotele. Ugo di San Vittore (1096 ca.-1141) forse fu il primo a formulare, nel suo Didascalicon, uno schema delle sette arti meccaniche corrispondenti alle arti liberali, che non mancò di influenzare lo stesso s. Tommaso d'Aquino. L'elenco comprendeva lanificium, armatura, navigatio, agricultura, venatio, medicina, theatrica. L'architettura, insieme alla pittura e alla scultura, trova posto, con altre attività manuali, in una suddivisione interna dell'armatura, rivestendo quindi un ruolo subordinato nell'ambito delle stesse arti meccaniche (Kristeller, 1965, trad. it. pp. 243-244).Se è dunque improprio parlare di una riflessione estetica connessa con il consapevole esercizio delle arti manuali, non è tuttavia illecito indagare sul modo in cui la riflessione sul bello - nel significato platonico-ontologico già sottolineato - influenzò il gusto, soprattutto, dell'età romanica. Qui torna in campo la presenza dello pseudo-Dionigi l'Areopagita nell'interpretazione che ne fornirono gli autori della scuola carolingia, soprattutto Giovanni Scoto Eriugena. Nel De caelesti hierarchia, tradotto e commentato da quest'ultimo, lo pseudo-Dionigi enuncia il principio di una universale presenza di Dio che si manifesta nella bellezza della creazione, espressione della bellezza assoluta e archetipica che è in Dio stesso. La natura diviene con ciò percepibile come una sorta di simbolismo o di allegoria divina. Nel suo commento, Giovanni Scoto riprese e sviluppò questo concetto dionisiano estendendolo allo studio dell'allegorismo della Sacra Scrittura, "sino alla conclusione che le forme visibili, sive quas in natura rerum, sive quas in Sanctissimis divinae Scripturae sacramentis, non sono fatte per se stesse, né vanno desiderate per se stesse, ma sono immagini della bellezza invisibile" (Assunto, 1961, p. 76). Nel De divisione naturae Giovanni Scoto formulò principi nei quali è riconoscibile la formazione di una 'estetica', sia pure rudimentale, che si propone come guida alla formazione del gusto e alla valutazione delle opere d'arte. Questi principi si concentrano nell'idea dell'universale bellezza della natura e dell'allegorismo delle sue forme, che l'arte riprende in quanto prosecuzione umana della creazione divina. La celebrazione dionisiana della bellezza naturale, e della partecipazione dell'uomo alla creazione mediante la propria produttività, non esclude la consacrazione di ciò che all'uomo appare come il male o il brutto, in quanto essi sono disposti, a gradi diversi, lungo la gerarchia della creazione divina. Il gusto per le decorazioni vegetali e zoomorfe dell'arte protoromanica e romanica trova nell'elaborazione scotista del pensiero dello pseudo-Dionigi la sua premessa teorica: "Omnia quae sunt, lumina sunt, è il principio fondamentale della filosofia di Scoto Eriugena" (Assunto, 1961, p. 76). La rivalutazione delle arti, e in particolare della scultura, e l'accentuato naturalismo dell'arte romanica trovano la loro giustificazione nel concetto delle 'immagini dissimili', che lo pseudoDionigi formulò come strumento dell'esegesi biblica, ma che si estende alle immagini prodotte dall'uomo giacché queste, non potendo raffigurare Dio direttamente - in quanto non raffigurabile - lo raffigurano tuttavia indirettamente. Sottolineando il carattere mondano delle produzioni umane, si scongiura il pericolo di vedere in esse una rappresentazione idolatrica della divinità e si favorisce l'elevazione a Dio (Assunto, 1961, p. 78). Giovanni Scoto riprese e sviluppò questi concetti nel De divisione naturae, formulando l'idea di una contemplazione estetica 'priva di cupidigia', capace cioè di godere della bellezza per sé, al di là della presenza fisica dell'oggetto. Ammirare la bellezza mondana significa contemplare in essa, in quanto ogni ente non è privo di bellezza, la perfezione divina, la presenza del raggio della sua luce (Assunto, 1961, pp. 77-78); significa percepire il mondo come prodotto della progrediente irradiazione divina. Le influenze di questa concezione sono avvertibili nello sviluppo dell'arte del 10° e 11° secolo. Nell'uso della decorazione e della scultura, nella concezione del colore che caratterizza la rinascente pittura dell'epoca ottoniana, il marcato antinaturalismo conferisce all'immagine un'essenza ultraterrena e l'affermarsi del simbolismo della luce testimonia l'influenza della metafisica dionisiana che, attraverso l'interpretazione di Giovanni Scoto, prese il posto del platonismo agostiniano (Assunto, 1963, pp. 84-85).Così come accade per la speculazione in generale e per l'interpretazione di P., anche la riflessione estetica di Giovanni Scoto non è priva di influenze sull''estetica' della scuola di Chartres. Esiste tuttavia una differenza fondamentale, che consiste proprio nell'essenziale mediazione che Giovanni Scoto trova nello pseudo-Dionigi e che ne determina il riferimento indiretto a Plotino, come la metafisica estetica della luce bene testimonia. La scuola di Chartres sostituisce questa mediazione con la lettura diretta del Timeo attraverso Calcidio, Macrobio e Boezio. L''estetica' di Chartres è l'estetica delle idee e dei numeri contenuta nel Timeo e nelle opere filosofiche e scientifiche della tarda latinità (Bruyne, 1946, II, p. 256). Differentemente dall''estetica' carolingia, quella di Chartres non si accontentò più della contemplazione delle forme sensibili considerate nelle loro corrispondenze e significati allegorici, ma si sforzò di giungere a una "visione comprensiva alla luce di alcuni principi semplici, di alcune nozioni molto generali, delle cause fondamentali e di certi rapporti primi" (Bruyne, 1946, II, p. 256). Essa corrisponde, di fatto, al secondo grado della contemplazione come lo concepisce Riccardo di San Vittore (m. nel 1173) nel suo De gratia contemplationis.Di particolare importanza, per le conseguenze che comportò nella concreta produzione artistica, è la nuova concezione dell'ornamento elaborata a Chartres. Nel suo commento al Timeo (Glosae super Platonem) Guglielmo di Conches distinse accuratamente 'creazione' e 'decorazione'; mentre la prima corrisponde alla creazione divina della materia come caos informe in cui non appaiono ancora forme discernibili, la seconda - come viene affermato sulla scorta di Calcidio - presiede alla creazione degli enti determinati. In questo senso le stelle sono l'òrnamento' del cielo e gli animali l'òrnamento' della terra; l'ornatus del mondo è la materia elementare differenziata secondo il peso e il numero, circoscritta in contorni, che ha figura e colore e presenta forme determinate e 'belle' (Bruyne, 1946, II, p. 258). Il mondo, bello a vedersi (pulchrum visu), assume l'aspetto di una "gigantesca oreficeria" adorna di forme innumerevoli (Bruyne, 1946, II, p. 258), che tuttavia non rimandano più alla creazione divina soltanto per via negativa, ma sono esse stesse le chiavi per la comprensione dell'opera di Dio.Dopo Chartres, l'influsso dello pseudo-Dionigi tornò a farsi sentire nello spiritualismo mistico dell''estetica' cistercense, fondamentalmente ispirata da s. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) e dai commenti al Cantico dei Cantici, che fiorirono numerosi intorno all'11° secolo. Il platonismo di Bernardo si risolve in un ascetismo che privilegia la bellezza interiore sulla bellezza sensibile. Ciò determinò ripercussioni essenziali sulla concezione cistercense delle arti: mentre la pittura e la scultura ne furono ostacolate, grande sviluppo ne trassero l'architettura, che si fondò sul concetto di perfetta proporzione e sul rifiuto dell'ornamento, e la musica (Tatarkiewicz, 1970, trad. it. pp. 217-223).Di natura diversa è il misticismo di Meister Eckhart (1260 ca.-1327), caratterizzato tuttavia, anch'esso, da una ripresa dello pseudo-Dionigi e di Giovanni Scoto Eriugena e dal neoplatonismo di Proclo, di cui Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.-1286) aveva tradotto il commento al Parmenide intorno al 1268. Eckhart risolve il problema dell'imitazione artistica non in quanto imitazione della natura ma, in senso schiettamente platonico, come espressione della perfetta immagine interiore che viene proiettata nella materia (Panofsky, 1924, trad. it. p. 31). Ma sono già, questi, i presagi di un rinascente platonismo che trovò nell'età umanistico-rinascimentale il suo pieno sviluppo e che è tuttavia da intendersi sulla base della sua essenziale 'continuità' con i platonismi medievali.
Bibl.:
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La presenza della figura di P. nella produzione artistica medievale va inquadrata nell'inserimento all'interno della cultura cristiana degli antichi filosofi greci, considerati come i rappresentanti della morale e della virtù in un'epoca ancora priva della rivelazione cristiana.Solitamente P. viene raffigurato con un'immagine che è quella generica del filosofo, del sapiente, del profeta: indossa un abito di foggia classica, ha un aspetto maturo quando non decisamente senile, è barbato, canuto, a volte calvo e ha per attributo un libro o un filatterio. Non compare singolarmente, ma è perlopiù inserito in contesti iconografici complessi e diversificati, dove può avere per compagno un altro filosofo, in genere Socrate o Aristotele, oppure far parte di una serie: i filosofi, gli uomini illustri, i profeti.P. compare spesso nelle raffigurazioni della Filosofia e delle Arti liberali (v.). Il tema, elaborato da Boezio nel De consolatione philosophiae e approfondito in epoca carolingia soprattutto da Alcuino, trovò una sua definitiva sistemazione iconografica nel sec. 12° (d'Alverny, 1946; Verdier, 1969; Masi, 1974). A questo secolo appartiene, per es., la coppa di bronzo ritrovata a Horst (Angermünde, Coll. von Fürstenberg) nella quale P. è posto alla sinistra della Filosofia ed è designato dalla scritta Plato: indossa un abito classico, è calvo e barbato, tiene l'indice alzato e porta un cartiglio; sul lato opposto della Filosofia è situato Socrate, con un aspetto quasi identico. La Filosofia reca un cartiglio con una frase da Boezio attribuita allo stesso P.: "Soli quod [desid]erant facere possunt sapientes" (Pressouyre, 1966). Fanno corona alla Filosofia e ai due filosofi le Arti liberali accompagnate da personaggi e uccelli simbolici.In modo analogo P. è rappresentato in una miniatura del 1175-1185 dell'Hortus deliciarum di Herrada di Landsberg (già Strasburgo, Bibl. Mun., c. 32r; The Hortus Deliciarum, 1979), considerata di poco posteriore alla coppa di Horst e della quale costituisce probabilmente una derivazione (Courcelle, 1967; Masi, 1974). La Filosofia, accompagnata ancora dalla medesima citazione da Boezio, è situata nella metà superiore di un cerchio, mentre nella metà inferiore sono P. e Socrate intenti a scrivere a un leggio, in una posa assai simile a quella degli evangelisti. P., di profilo e come Socrate togato e barbato, si distingue solo per la scritta Plato. Accanto a lui è il motto "Philosophi sapientes mundi et gentium clerici fuerunt", mentre le Arti liberali sono disposte circolarmente. Collocate nella zona inferiore rispetto ai due filosofi sono invece alcune figure ugualmente togate, definite come "Poetae vel magi spiritu immundo instincti [...]", le cui scritture sono negativamente ispirate da corvi neri.P. era presente ancora una volta in una celebrazione della Filosofia, questa volta inserito in una serie di personaggi illustri di cui facevano parte Socrate, Aristotele, Tito Livio e Seneca, negli affreschi della cappella Cortellieri nella chiesa degli Eremitani di Padova; il ciclo, dipinto da Giusto de' Menabuoi e datato al 1370, è conosciuto solo attraverso la descrizione fattane nel sec. 15° da Hartmann Schedel (Memorialbuch, Monaco, Stadtbibl., lat. 418, c. 104r; Bettini, 1944; Delaney, 1973). Di P., quindi, è noto solo che occupava la parete destra, dedicata alla Filosofia, assieme alle Arti liberali e ai personaggi che le esemplificavano.Nella Gloria di s. Tommaso, della seconda metà del sec. 14°, della chiesa di S. Caterina a Pisa, P. e Aristotele rappresentano il contributo della filosofia greca al pensiero teologico. Posto alla sinistra di s. Tommaso, P. indossa un fastoso abito orientaleggiante e, come Aristotele, porge un libro aperto a ricevere e riflettere i raggi emanati dal libro del santo dottore. È significativo che i due filosofi occupino con s. Tommaso la fascia centrale della composizione e condividano lo stesso piano di posa, benché siano raffigurati in dimensioni minori del santo.A volte P. è posto, anziché in relazione diretta con la Filosofia, in relazione con una delle arti liberali: lo si trova per es. in rapporto con la Musica in un manoscritto del sec. 12° del De institutione musica di Boezio (Cambridge, Univ. Lib., Ii.3.12, c. 61v; Verdier, 1969) assieme all'autore, a Pitagora e a Nicomaco, seduto sulla sfera del mondo con un libro aperto che mostra la scritta Musica. P. scorta invece la Dialettica, in compagnia di Socrate, in un manoscritto del sec. 13° della Historia scholastica di Pietro Comestore (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 17405, c. 4r; d'Alverny, 1946; Pressouyre, 1966).P. è raffigurato, insieme ad Aristotele e a una sibilla, con alcuni profeti dell'Antico Testamento, da Giovanni Pisano sulla facciata del duomo di Siena (1285-1295). La sua figura è avvolta in un ampio panneggio, ha il volto barbato e il capo incoronato, alza la mano destra mentre con la sinistra porta un titulus con un'iscrizione che proclama la gloria della Vergine, cui è dedicato il duomo, quale unica donna prescelta per la divina maternità (Lusini, 1911); in questo caso P. partecipa dell'attesa che caratterizza i profeti e le sibille, nella precognizione dell'avvento di Cristo.In questa stessa accezione il filosofo è presente in alcune raffigurazioni dell'albero di Iesse, come per es. nel bassorilievo scolpito nella prima metà del sec. 14° da Lorenzo Maitani e collaboratori sul secondo pilastro di facciata del duomo di Orvieto. P. è qui accompagnato dalla raffigurazione di uno scheletro in un sarcofago aperto, allusivo alla sua meditazione sul tema della morte nel Fedone. Questa tipologia ha un preciso riscontro in alcuni esempi di decorazioni tardobizantine, come nel caso dell'albero di Iesse rappresentato ad affresco all'esterno della chiesa di Voroneţ in Romania (Nava, 1935-1936; Watson, 1957). La presenza di P. e di altri filosofi e uomini illustri dell'Antichità nelle decorazioni cristiane, quali profeti dell'avvento di Cristo, è contemplata anche nella Ermeneutica della pittura del monaco Dionisio da Furnà, scritta nel 1728-1733 ma depositaria di una più antica tradizione, che trova riscontro in alcuni edifici religiosi del monte Athos (Didron, 1845; Holl, 1971).P. compare in coppia con Socrate in una serie di raffigurazioni, su manoscritti dei secc. 12°-14°, legate al tema del rapporto tra maestro e discepolo (Ratkowska, 1974). In queste immagini infatti i due filosofi si distinguono per la differenza di età e di ruolo nell'apprendimento della filosofia. Così in una iniziale istoriata di un codice del De civitate Dei di s. Agostino del sec. 12° (Heiligenkreuz, Bibl. Klasztorna, 24, c. 63v; Ratkowska, 1974), Socrate, chiuso in un edificio simile a un castello, insegna a un P. giovane e imberbe la tripartizione della filosofia, da P. diligentemente scritta su un cartiglio con le parole un, duo, tres. Il rapporto tra Socrate e P. appare invece ribaltato in una illustrazione del sec. 12°, attribuita a Matthew Paris, nel Liber experimentarius di Bernardo Silvestre: in questo caso infatti è P. che posto alle spalle di Socrate lo guida nella scrittura (Oxford, Bodl. Lib., Ashmole 304, c. 31v; Saxl, Meier, 1953; Ratkowska, 1974). Si ritrova la stessa immagine in un manoscritto più tardo del Liber experimentarius, prova della diffusione di questo tema nelle due versioni (Oxford, Bodl. Lib., Digby 46, c. 41v; Saxl, Meier, 1953).La conoscenza delle dottrine cosmologiche di P. trova un riscontro iconografico negli affreschi della cripta del duomo di Anagni, dove un diagramma, raffigurato sul pilastro della seconda campata, sintetizza la teoria dei quattro elementi sulla base del Timeo e del commento fattone da Calcidio (Toesca, 1902). Nella medesima cripta è stata ipotizzata anche la presenza di una raffigurazione dello stesso P., che potrebbe essere uno dei personaggi di saggi o filosofi, visibili solo in parte, rappresentati sulla parete della prima campata (Pressouyre, 1966; Hugenholtz, 1979). In chiave di avvicinamento al miracolo della creazione del cosmo, P. con altri personaggi illustri dell'Antichità, quali Ovidio, Virgilio e Aristotele, compare nell'incipit di una Bibbia del sec. 13° raffigurante le scene della Creazione (Merseburg, Domstiftsbibl.; Pressouyre, 1966).
Bibl.:
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Letteratura critica. - A.N. Didron, Manuel d'iconographie chrétienne grecque et latine, Paris 1845, pp. 149-151; P. Toesca, Gli affreschi della cattedrale di Anagni, Le Gallerie nazionali italiane 5, 1902, pp. 116-187; V. Lusini, Il duomo di Siena, I, Siena 1911, p. 111; N.A. Bees, Darstellung altheidnischer Denker und Autoren in der Kirchenmalerei der Griechen, Byzantinisch-neugriechische Jahrbücher 3, 1923, pp. 107-128; A. Nava, L'albero di Jesse nella cattedrale di Orvieto e la pittura bizantina, RINASA 5, 1935-1936, pp. 363-376; S. Bettini, Giusto de' Menabuoi e l'arte del Trecento, Padova 1944, pp. 111-121; M.T. d'Alverny, La sagesse et ses sept filles. Recherches sur les allégories de la philosophie et des arts libéraux du IXe au XIIe siècle, in Mélanges dédiés à la mémoire de F. Grat, I, Paris 1946, pp. 245-278; E. Carli, Le sculture del duomo di Orvieto, Bergamo 1947, pp. 31-33; F. Saxl, H. Meier, Verzeichnis astrologischer und mythologischer illustrierter Handschriften des lateinischen Mittelalters, III, 1, Handschriften in englischen Bibliotheken (Sitzungsberichte der Heidelberg Akademie der Wissenschaften. Philisophisch-historische Klasse, 3), London 1953, pp. 287-288, 344; A. Watson, The Imagery of the Tree of Jesse in the West Front of Orvieto Cathedral, in Fritz Saxl. 1890-1948. A Volume of Memorial Essays from his Friends in England, a cura di D.J. Gordon, London e altrove 1957, pp. 149-164; L. Pressouyre, Le cosmos platonicien de la cathédrale d'Anagni, MAH 78, 1966, pp. 551-593; P. Courcelle, La 'Consolation de Philosophie' dans la tradition littéraire, Paris 1967, pp. 79-80; P. Verdier, L'iconographie des arts libéraux dans l'art du Moyen Age jusqu'à la fin du XVe siècle, in Arts libéraux et philosophie au Moyen Age, "Actes du IVCongrès international de philosophie médiévale, Montréal 1967", Montréal-Paris 1969, pp. 305-355; O. Holl, s.v. Plato, in LCI, III, 1971, coll. 444-445; J.B. Delaney, Giusto de' Menabuoi: Iconography and Style, Ann Arbor 1973, pp. 91-94; M. Masi, Boethius and the Iconography of the Liberal Arts, Latomus 33, 1974, pp. 57-75; P. Ratkowska, Sokratesi, Platon. Uwagi o ikonografii tematiu Magister cum discipulo w sztuce XII-XIII w. [Socrate e Platone. Osservazioni sull'iconografia del tema Magister cum discipulo nell'arte dei secc. 12° e 13°], Biuletyn Historii Sztuki 36, 1974, pp. 103-121; E. Carli, Il duomo di Siena, Genova 1979, pp. 49-52; F.W.N. Hugenholtz, The Anagni Frescoes. A Manifesto, Mededeelingen van het Nederlands Instituut te Rome, n.s., 6, 1979, pp. 139-172; M. Meiss, Francesco Traini, a cura di H.B.J. Maginnis, Washington 1983, p. 6; L. Braun, Iconographie et philosophie, Strasbourg 1994.M. Grasso