Platone
Filosofo greco, nato ad Atene il 428 o 427 a.C. e ivi morto il 348 o 347. P. non è stato solo il fondatore della filosofia (nel senso che ne ha dato la definizione e ne ha stabilito lo statuto epistemologico, il compito e il metodo), nonché uno degli autori capitali e più influenti nella storia del pensiero; è anche considerato il primo e principale esponente di una delle due fondamentali maniere di concepire la politica – l’idealismo politico, il platonismo – alla quale si contrappone il realismo politico (di cui viene solitamente indicato come capostipite lo storico ateniese Tucidide). A prima vista potrebbe pertanto apparire sorprendente che M. non nomini quasi mai P., un autore evidentemente fondamentale, se non altro per contrasto, per la sua visione della politica. L’eventuale influenza di P. e del platonismo su M. va pertanto ricercata in maniera più sottile e attenta alle sfumature, partendo da un riesame del contributo di P. stesso al pensiero politico.
La sua principale opera, la Repubblica (scritta attorno al 385 a.C., ma continuamente rimaneggiata), viene spesso considerata il primo e fondamentale testo dell’idealismo politico, ossia di quella visione della politica che elabora un modello di comunità ideale prescindendo da considerazioni di tempo, luogo e realizzabilità: il primo esempio di ‘utopia’, per quanto il termine sia anacronistico. La Repubblica si presenta come un dialogo dedicato alla ricerca di che cosa sia la giustizia, condotto da Socrate e al quale partecipano diversi personaggi reali dell’Atene dell’epoca. Dopo aver scartato alcune definizioni insoddisfacenti, ma destinate a riemergere più volte nella storia del pensiero politico – la giustizia come «utile del più forte», sostenuta dal sofista Trasimaco, o come risultato di un contratto tra gli uomini, nell’opinione dei fratelli di P., Glaucone e Adimanto –, Socrate propone una visione organicistica della giustizia, che viene poi ‘realizzata’ in una città divisa in tre classi, governata da filosofi, cui si affiancano i guerrieri che la difendono dai nemici esterni, e una terza classe composta da agricoltori, artigiani, commercianti e altri produttori. Questa divisione ha come fondamento la tripartizione dell’anima umana che, nella visione platonica, è scissa tra una parte che ama la sapienza, una che cerca l’onore e la gloria e una terza che ama i piaceri e il possesso materiale: a seconda di quale prevalga, si determina il carattere dell’individuo. La grande innovazione di P. consiste nel ritenere di aver costruito una città ‘naturale’ in quanto basata sulla verità, sulla realtà dell’anima e quindi della natura umana, anche se frutto dell’artificio del filosofo. Il punto di partenza appare assai realistico, perché P. muove dalla convinzione che gli esseri umani siano diversi e desiderino cose differenti; la sua sfida consiste nel creare una comunità politica nella quale individui con temperamenti e desideri diversi e spesso contrastanti vivano in armonia e raggiungano tutti quella che immaginano essere la felicità, grazie alle leggi e a un’educazione alla temperanza (sophrosỳne). In questa città perfetta governano i filosofi, che hanno fatto della conoscenza della verità lo scopo della propria vita, e, conoscendo il vero bene, possono realizzarlo per i propri concittadini. P. ribadisce a più riprese il ruolo fondativo della verità nella costruzione della città perfetta: il filosofo è colui che va oltre le apparenze e le opinioni (allegoria della caverna) e giunge alla conoscenza del vero, quindi anchedel vero bene. È proprio nella ricerca di un fondamento saldo della conoscenza che P. postula l’esistenza delle ‘idee’, forme eterne di ciò che percepiamo. P. ritiene che la proprietà privata sia fonte di disunione e di conflitto e pertanto la abolisce per la classe di governo e per quella ausiliaria, mentre la mantiene per la classe dei produttori, perché – assai realisticamente – sa che questi pongono la propria felicità nel possesso di beni materiali. Nella sua altra grande opera politica, le Leggi, scritta nella tarda vecchiaia, P., pur riaffermando la superiorità del progetto della Repubblica, delinea un modello di città «seconda per perfezione», nella quale le leggi hanno una funzione educativa e regolano ogni aspetto della vita del cittadino, dalla nascita alla morte.
Dopo la scomparsa di P., la sua filosofia fu oggetto di una lunga e straordinaria storia ermeneutica; in particolare, la sua opera politica ha costituito «uno dei più cruenti campi di battaglia sui quali si sia scatenato il conflitto delle interpretazioni» (M. Vegetti, «Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, 2009, p. 11). La Repubblica, nella fattispecie, venne dai neoplatonici interpretata essenzialmente come un’opera di metafisica e teologia (così Plotino e Proclo); per tutto il Medioevo l’influenza di P. si esercitò soprattutto attraverso il Timeo, per la sua visione del Demiurgo, e il Fedone, per la forte spiritualità: opere, entrambe, che potevano essere viste come precorritrici del cristianesimo. I testi politici di P. non vennero neppure tradotti in latino e furono pertanto noti solo in maniera frammentaria e per via indiretta fino al Quattrocento, quando vi fu una rinascita straordinaria dell’interesse per P. sulla scia delle nuove traduzioni approntate da umanisti italiani e bizantini. In particolare, la prima traduzione latina della Repubblica, compiuta da Manuele Crisolora e Uberto Decembrio a Pavia tra il 1400 e il 1402, mise nuovamente a disposizione dei letterati europei l’opera politica fondamentale di P. nella sua interezza. Giorgio da Trebisonda (Trapezunzio) tradusse le Leggi e il Parmenide. Un altro filosofo bizantino, Giorgio Gemisto Pletone, propose un rinnovamento spirituale della società improntato alla filosofia platonica che avrebbe portato all’unificazione religiosa. P. divenne così oggetto di contese filosofiche e di dispute teologiche: Gemisto fu accusato di ateismo dal patriarca di Costantinopoli Giorgio Scolario e attaccato dal Trapezunzio che, in nome della filosofia aristotelica, contrastavano il suo tentativo di conciliare platonismo e cristianesimo. Non mancarono gli usi politici di P.: Leonardo Bruni lo presentò come un autore ‘repubblicano’, mentre Decembrio, nel suo De Republica libri IV, utilizzò la morfologia platonica delle forme di governo per difendere la signoria dei Visconti a Milano; il figlio Pier Candido realizzò una traduzione annotata della Repubblica, che significativamente intitolò Celestis politia, per sottoli nearne la valenza utopica di città divina irrealizzabile sulla terra; anch’egli si rifece a P. per sancire la superiorità della costituzione «timocratica» di Milano su quelle oligarchiche di Firenze e Venezia. In questo quadro importanza fondamentale ebbe poi Marsilio Ficino che, non solo tradusse tutti i dialoghi di P., ma stabilì il canone e l’ordine delle sue opere. Ficino vide in Cosimo e poi in Lorenzo de’ Medici l’incarnazione della figura platonica del re-filosofo e contribuì attivamente affinché questa identificazione divenisse quanto più reale possibile. Egli fu autore anche di un’importante Theologia platonica (edita nel 1482), dove viene sancita la possibile coesistenza di platonismo e cristianesimo. Ficino fondò e diresse l’Accademia neoplatonica ospitata nella villa medicea di Careggi (1462). Dopo la morte di Ficino (1499), si deve principalmente a Francesco di Zanobi Cattani da Diacceto, suo discepolo, la presenza delle dottrine platoniche alle riunioni degli Orti Oricellari (→), promosse da Bernardo Rucellai (1502-04) e poi dal nipote Cosimo (1516-19): M., come è noto, partecipò a questa seconda stagione di incontri.
Allorché nel cap. xv del Principe M. dichiara di voler «andare drieto alla verità effettuale della cosa», invece che fare come molti che «si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» (xv 3-4), il pensiero corre subito a P. e alla ricezione della sua opera come paradigma di utopia irrealizzabile. Nel Principe e nei Discorsi, in effetti, P. viene menzionato solo una volta e in maniera apparentemente secondaria, come maestro di due congiurati che uccisero un tiranno (Discorsi III vi 6). Sarebbe tuttavia erroneo concludere che dell’enorme influenza del platonismo non resti traccia in M., e che P. fosse un autore a lui poco noto. Anche se non citato, la sua presenza è evidente ogni qualvolta M. affronta temi filosofici (come in Discorsi I xxix e I lvi sugli eventi soprannaturali che precedono grossi rivolgimenti politici; e III xii sull’origine del linguaggio dalla necessità) e segnatamente nel capitolo filosoficamente più denso di tutti i Discorsi, II v. Qui M. mostra di conoscere il mito platonico delle inondazioni e altre calamità naturali che determinano la quasi scomparsa dell’umanità: ridotta a pochi uomini rozzi e montanari, essa riprende periodicamente il proprio cammino di civiltà muovendo da una condizione di ‘ingenuità’ primitiva. Presente in molti dialoghi (Timeo 22b-e; Crizia 109d, 112a; Leggi III, 676b-c; Politico 270c-d; cfr. Sasso 1987, pp. 199-201 e 310-15), questo mito non è affatto un lamento per una perduta condizione di innocenza, bensì uno sprone a rinnovare la società esistente, proprio come nell’utilizzo che ne fa Machiavelli.
Se poi andiamo più a fondo, ci rendiamo conto che le premesse teoriche e le finalità pratiche dei due autori non sono così agli antipodi. P. è assai più ‘realista’ di quanto non si sia comunemente portati a pensare: egli muove proprio dalla constatazione della diversità degli esseri umani, dei loro desideri e della loro immagine della felicità e si pone per la prima volta il compito titanico di creare una comunità politica perfetta nella quale ogni cittadino sia felice: l’armonia tra gli uomini va creata, non è una situazione naturale; egli crede che l’unione di sapere (inteso come conoscenza della verità riguardo alle cose più importanti, incluso il bene) e potere politico nella persona del filosofo-re possa portare alla realizzazione dell’armonia proprio perché questi non agisce in base all’immaginazione delle cose. A M., d’altro canto, non è del tutto estranea l’ambizione di attuare il miglior regime politico immaginabile: egli può infatti consigliare a papa Leone X di creare una forma di governo mista a Firenze adottando i criteri della «vera republica», che non sono quelli di Stati effettivamente esistiti, ma il frutto dell’elaborazione teorica di M. stesso; e cita come propri antesignani e modelli proprio P. e Aristotele, affermando che, dopo gli effettivi realizzatori di repubbliche, meritano gloria e onore coloro che le hanno realizzate
in scritto, come Aristotile, Platone e molti altri, i quali hanno voluto mostrare al mondo, che se come Solone e Licurgo non hanno potuto fondare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto (Discursus florentinarum rerum, § 104).
P. e M. sono inoltre accomunati da un’antropologia negativa: entrambi vedono nell’enorme carica passionale e nella varietà dei desideri umani la fonte dei conflitti e della distruzione degli Stati. Anche per M. la giustizia ha un ruolo centrale in una repubblica «bene ordinata» e, come P., vede nella lotta tra fazioni (stasis), non regolata e incanalata dalla legge, l’origine della dissoluzione della comunità. M., inoltre, mira a creare un «principe savio», che è assieme un uomo d’armi e un uomo di lettere, un politico, ma anche un uomo di pensiero in grado di affrontare in maniera filosofica temi quali l’eternità del mondo e la funzione della religione; e, nel contempo, è in grado di fornire alla propria città quegli ordini, quelle leggi e istituzioni, che la rendono sicura: come dice nell’Arte della guerra, gli italiani «per non avere avuti i principi savi, non hanno preso alcuno ordine buono» (VII 229). In secondo luogo, entrambi ritengono che l’educazione politica, in particolare dei governanti, sia il mezzo con cui portare a termine il proprio progetto di Stato; né si può affermare che P. rifugga dall’uso della violenza e dell’inganno nella realizzazione del perfetto regime: è sufficiente uno sguardo alla «nobile menzogna» alla base dell’armonia tra i cittadini della Repubblica, alla crudeltà verso gli stranieri e alle misure contro gli atei delle Leggi. Da ultimo, solo leggendo unilateralmente le sue opere, e dando soverchia importanza al Principe, possiamo attribuire a M. la convinzione che «le buone armi» siano più importanti delle «buone leggi»: questo è vero nella situazione estrema, nel caso di emergenza che richiede il ricorso agli «estraordinari»; ma nelle circostanze normali sono proprio le buone leggi che fanno la differenza tra una comunità politica corrotta, dilaniata da interessi egoistici, e una comunità che agisca in vista del bene comune.
Bibliografia: La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, 7 voll., Napoli 1998-2007.
Per gli studi critici si vedano: E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano: ricerche e documenti, Firenze 1961; G. Sasso, De aeternitate mundi, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 167-399; J. Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leiden 1990; G. Giorgini, I doni di Pandora, Bologna 2002; D.J. O’ Meara, Platonopolis: Platonic political philosophy in late antiquity, Oxford 2003; M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino 2003; Decembrio e la tradizione della Repubblica di Platone tra Medioevo e Umanesimo, a cura di M. Vegetti, P. Pissavino, Napoli 2005; E. Benner, Machiavelli’s ethics, Princeton 2009.