Platone
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Allievo di Socrate e discendente da una nobile famiglia ateniese, Platone può essere considerato come il vero fondatore della filosofia greca. Il suo pensiero, espresso in forma dialogica, intreccia i temi dell’etica, della politica, dell’epistemologia e dell’ontologia. Al centro della filosofia di Platone stanno la teoria delle idee, la concezione dell’anima, il nesso fra anima e città e la conseguente esigenza di una riforma etico-politica di entrambe (che viene formulata nella celebre utopia espressa nella Repubblica). Il maggiore continuatore, e critico, della filosofia di Platone sarà il suo allievo Aristotele.
Platone nasce ad Atene nel settimo giorno del mese di Targelione nel corso della 88ma Olimpiade (metà maggio 428/427 a.C.), lo stesso giorno in cui gli abitanti di Delo sostenevano fosse nato Apollo. La sua è una delle famiglie aristocratiche più eminenti nella città: il padre, Aristone, fa risalire la sua discendenza fino a Codro, secondo la leggenda ultimo re di Atene; la madre, Perittione, è considerata discendente di Solone, il proto-legislatore di Atene. Così radicata nella storia della città, la famiglia di Platone è ben presente nelle vicende politiche del V secolo a.C.: il padre appartiene alla élite della democrazia periclea, mentre lo zio materno, Crizia, capo della fazione oligarchica, avrebbe promosso e diretto il colpo di stato anti-democratico del 404 a.C., che instaurò l’effimero regime detto dei Trenta tiranni (ne era partecipe anche un altro zio di Platone, Carmide).
L’evento decisivo negli anni di formazione del giovane Platone è senza dubbio l’incontro con Socrate, il cui modo di pensare e di vivere imprime una traccia duratura nel discepolo; dopo la sua tragica morte, il filosofo ne farà il protagonista pressoché esclusivo dei suoi dialoghi, anche se naturalmente sarebbe assurdo pensare che essi ne presentino fedelmente il pensiero. La vicenda di Socrate, del resto, segna anche profondamente il rapporto di Platone con la politica ateniese, alla quale è destinato per condizione sociale e vocazione familiare. Socrate avversa il regime democratico, nel quale ravvisa il predominio della demagogia, ma rifiuta tuttavia di lasciarsi coinvolgere nel sanguinario esperimento oligarchico dei Trenta tiranni, e questo determina anche il distacco del giovane Platone dal nuovo governo, benché ne facciano parte, come si è detto, esponenti della sua cerchia familiare. D’altra parte, la restaurata democrazia si rende colpevole, agli occhi di Platone e degli altri socratici, di avere ingiustamente processato e condannato a morte il maestro (399 a.C.) sulla base di accuse pretestuose che mascherano una brutale vendetta politica. La doppia esperienza negativa induce Platone a rinunciare alla partecipazione diretta nelle vicende politiche ateniesi: la città richiede ai suoi occhi una riforma tanto radicale quanto troppo difficile e pericolosa per essere tentata da un solo individuo.
Di qui in poi, sulle successive vicende personali di Platone siamo informati soprattutto da un documento che si presenta come autobiografico, la Lettera VII, che egli avrebbe indirizzato nella sua tarda età agli amici di Siracusa. L’autenticità di questo documento è stata a più riprese messa in dubbio, in primo luogo perché essa appartiene a un corpus di 13 epistole attribuite a Platone che è senza dubbio da considerarsi apocrifo nel suo insieme, come lo sono in genere gli epistolari antichi; il falsario potrebbe aver compilato la lettera attingendo da testi noti di Platone, per il resto inserendovi temi di propaganda propri della scuola fondata dal filosofo, l’Accademia. All’opposto, si è sostenuto che il linguaggio della lettera e la sua fedeltà ai testi platonici noti sono tali che, se l’autore non ne fosse Platone, si dovrebbe comunque trattare di una persona a lui molto vicina e bene informata (si è avanzata l’ipotesi che potrebbe trattarsi di Speusippo, nipote di Platone e suo successore alla guida dell’Accademia). In questo caso, la Lettera VII, anche se non propriamente autobiografica, manterrebbe tutto il suo valore documentario; con le dovute cautele, è dunque possibile seguire la testimonianza che essa offre delle vicende di Platone dopo la morte di Socrate.
Il suo filo narrativo è centrato sui tre viaggi, a destinazione politica, di Platone a Siracusa. Il primo (388/337 a.C.) ha lo scopo di prendervi contatto con il potente e prestigioso tiranno Dionisio I. Platone racconta di essersi ormai convinto che la patologia della politica possa essere curata solo da un mutamento ai vertici del potere, che vi veda insediati i “filosofi” (cioè una élite ricca di doti tanto intellettuali quanto morali), o governanti convertiti alla pratica della filosofia (questo sarà il tema centrale della Repubblica). Può darsi che Platone abbia in mente un simile programma di “conversione” nel suo approccio a Dionisio, ma ben presto ne rimane deluso, e fa rapidamente ritorno ad Atene. Il filosofo dedica i successivi vent’anni alla costruzione della sua scuola, l’Accademia: si tratta di un punto di raccolta di alcuni fra i migliori giovani intellettuali di molte parti della Grecia, che si dedicano, vivendo in comune, al dibattito filosofico nello spirito socratico, alla ricerca scientifica, specialmente matematica, alla preparazione di un ceto dirigente che sia capace di realizzare il progetto di un “governo filosofico” delle poleis. Nel 367 a.C. la morte di Dionisio I, cui succede il figlio Dionisio II, e la presenza nell’Accademia di uno degli allievi prediletti di Platone, Dione, che è un eminente aristocratico siracusano, riaccendono le speranze in questo senso. Dione induce Platone a recarsi nuovamente a Siracusa, questa volta a capo di una folta delegazione accademica, con la speranza di fare del giovane tiranno uno strumento per realizzare il progetto politico della scuola. Il fallimento, dovuto ai fondati timori di Dionisio che Dione miri in realtà a prendere il suo posto, è inevitabile, e Platone riesce con molta difficoltà (forse grazie anche all’intervento di Archita, un filosofo pitagorico che è il tiranno di Taranto) a liberarsi dalla custodia del giovane tiranno e a rientrare ad Atene. A Siracusa Platone torna una terza volta nel 361 a.C., sempre su pressione di Dione e altrettanto vanamente. Ma le imprese siciliane dell’Accademia non finiscono qui: nel 357 a.C. una nuova spedizione, questa volta armata, cui Platone non prende parte ma alla quale dà certamente il suo assenso, riesce a deporre Dionisio II e a insediare al suo posto Dione, primo esempio, dunque, ma non l’unico, di un “tiranno” di ispirazione accademica.
Personalmente, Platone si astiene negli ultimi anni dalla partecipazione alla politica attiva; non però alla riflessione sui problemi politici, se è vero che il suo ultimo grande dialogo, lasciato incompiuto per la morte avvenuta nel 347, si intitola Le leggi ed è dedicato a delineare nuove forme costituzionali per le città greche. Platone fu sepolto nel giardino dell’Accademia, circondato dal culto dei discepoli che lo veneravano ormai come uomo “divino”. Alla sua morte, si allontana però dall’Accademia il più grande, se non il più amato, dei suoi allievi, Aristotele, che da ormai vent’anni fa parte della scuola pur tenendosi in disparte dalle sue avventure politiche.
Gli scritti di Platone sono tutti in forma di dialogo, con la sola eccezione dell’Apologia, in cui vengono tramandati i discorsi difensivi che Socrate avrebbe pronunciato durante il processo del 399 a.C. A Platone sono attribuiti 40 dialoghi, una decina dei quali vengono tuttavia considerati spuri. In questi testi compare una grande quantità di personaggi, che compongono una vera e propria “società dialogica”: per la maggior parte essi rappresentano figure appartenenti alla storia politica e intellettuale di Atene, altri sono invece invenzioni d’autore, che esprimono tuttavia posizioni culturali e ideologiche anch’esse presenti in quella storia.
Il protagonista dei dialoghi è quasi sempre il personaggio Socrate; esso è assente solo nell’ultimo dialogo platonico, le Leggi, e gioca un ruolo secondario in alcuni dei dialoghi più tardi, come il Politico e il Sofista. La cronologia della composizione dei dialoghi è molto difficile da stabilire per la quasi totale assenza di riferimenti ad eventi esterni chiaramente databili. Una soluzione abbastanza soddisfacente, anche se lontana da certezze definitive, è venuta da una serie di ricerche stilometriche (per l’essenziale, esse sono basate sulle peculiarità stilistiche di quello che fu senza dubbio l’ultimo scritto platonico, le Leggi, e dispongono i dialoghi su di una scala cronologica di crescente frequenza di queste peculiarità: giovanili saranno dunque i dialoghi in cui esse sono meno frequenti, e via via più tardivi gli altri).
Esiste ormai un generale consenso degli studiosi nel dividere i dialoghi in tre gruppi cronologici, anche se al loro interno è quasi impossibile stabilire un ordine di successione. Il primo gruppo, giovanile, comprende Critone, Carmide, Lachete, Liside, Ione, Protagora, Ippia maggiore, Alcibiade primo, Eutifrone, Menesseno. Questi dialoghi presentano nell’insieme un andamento confutatorio (il celebre elenchos socratico) e conclusioni aporetiche: si ritiene dunque tradizionalmente che siano i più vicini al diretto insegnamento socratico. Alcuni dialoghi poi vengono considerati di transizione fra il primo e il secondo gruppo: si tratta di Eutidemo, Menone e Gorgia.
Il secondo gruppo, attribuito alla maturità di Platone, comprende Fedone, Simposio, Fedro, Repubblica, Cratilo, Teeteto e Filebo: sono dialoghi in cui l’aspetto confutatorio-aporetico è accompagnato da una più marcata assertività teorica, e che presentano una forma letteraria straordinariamente elaborata e brillante.
Al terzo gruppo, ascritto alla vecchiaia, appartengono testi in cui la forma dialogica tende a cedere il passo a un’esposizione largamente monologica, e in cui il personaggio Socrate svolge un ruolo marginale o scompare del tutto. Si tratta di Sofista, Politico, Parmenide, Timeo, Crizia (che oggi si tende a considerare come un dialogo unico), Le leggi.
Questa partizione cronologica, per quanto plausibile e utile per un primo orientamento, non è tuttavia sufficiente a ricostruire in modo lineare una presunta “evoluzione” (o involuzione) del pensiero di Platone dal socratismo degli esordi al dogmatismo della vecchiezza. Ci sono in effetti differenze teoriche fra dialoghi cronologicamente vicini (per esempio la teoria dell’anima del Fedone è molto diversa da quella della Repubblica, che è invece più vicina al tardo Timeo), o persistenze formali (così il Teeteto è aporetico come i dialoghi giovanili). A questo va aggiunto che lo stesso personaggio di Socrate non ha una rappresentazione uniforme nei dialoghi in cui compare, anzi le posizioni che sostiene variano profondamente da un dialogo all’altro. Già questa considerazione porta a una importante regola metodica: le differenze fra dialoghi vanno interpretate non solo, e non tanto, come effetti di un processo “evolutivo” lineare, bensì sulla base del variare degli interlocutori, delle situazioni, dei problemi discussi. Non bisogna inoltre dimenticare che i dialoghi stimolano, e registrano, la discussione all’interno dell’Accademia, ed è probabile che a volte tengano conto delle posizioni di interlocutori importanti (come ad esempio Eudosso nel Filebo, forse lo stesso Aristotele nelle Leggi, altri accademici nel Sofista e nel Parmenide). D’altro lato, occorre tener conto che pur nella loro caleidoscopica varietà i dialoghi sono comunque l’opera di un solo autore, espressioni di un modo di pensare unitario anche se non sistematico, e quindi è legittimo interrogarli per scoprire i lineamenti di questo pensiero.
Come già lamentava Hegel, l’esposizione della filosofia di Platone è resa difficile dalla forma dialogica, con la sua pluralità di personaggi, il frequente ricorso a miti, ad allegorie, al distanziamento ironico, con la conseguente difficoltà di individuare e riconoscere il “vero” pensiero dell’autore. E c’è un’ulteriore difficoltà, questa volta di ordine teorico. L’argomentazione dialettica di Platone ha come sua caratteristica maggiore un movimento circolare, in cui si delineano nessi di implicazione reciproca fra anima e città, politica ed etica, etica e ontologia, metafisica ed epistemologia, cosmo e anima.
Per quanto riguarda il primo problema: sono presenti nei dialoghi segmenti teorici ricorrenti, trasversalmente costanti, che vengono relativamente messi al riparo dalla variabilità dei contesti dialogici e presentati come oggetti di homologia, di consenso fra gli interlocutori. È possibile tentare di identificarli in modo almeno schematico.
(1) Critica dei regimi dominanti nelle poleis greche, democrazia e oligarchia (Gorgia, Repubblica, Leggi) e proposta di una radicale riforma politico-sociale, in due diverse varianti (Repubblica, Leggi);
(2) teoria dell’anima, della sua divisione in parti e della sua immortalità (Fedone, Repubblica, Fedro, Timeo, Leggi); etica eudaimonistica, per la quale la giustizia morale è condizione necessaria e sufficiente per raggiungere la felicità;
(3) teoria delle idee, come oggetti eterni solo pensabili, paradigmatici rispetto alla realtà empirica (Fedone, Repubblica, Parmenide, Sofista, Timeo);
(4) teoria della dialettica, come metodo per la conoscenza delle idee e la comprensione ordinata della realtà (Repubblica, Fedro, Parmenide, Sofista);
(5) si può infine identificare quella che è una struttura trasversale di pensiero più che un segmento teorico definito. Si tratta della costante tendenza di Platone a polarizzare a due livelli, alto/basso, i campi dell’essere, del pensare, dell’agire. Si producono a partire da questa tendenza coppie polari quali essere/divenire, uno/molteplice, eternità/tempo, vero/falso, scienza/opinione, buono/cattivo; gli elementi di queste coppie tendono a comporsi sistematicamente, sicché ad esempio eternità, verità, scienza, valore possono connettersi soltanto all’essere, mentre al divenire si rapportano i loro opposti. A questo stile di pensiero polarizzante (che è di chiara derivazione eleatica) Platone aggiunge poi la tendenza a inserire fra gli opposti un terzo elemento di mediazione, che consente un transito, una relazione fra le polarità (a questa zona terza appartengono figure come l’anima, fra eternità e tempo, e il filosofo, fra essere delle idee e tempo della storia).
Questa pluralità di elementi teorici tende a disporsi, nel movimento dialettico del pensiero platonico, nella figura di un quadrato, ai cui vertici stanno la politica, l’etica, l’ontologia e l’epistemologia. È possibile percorrere il perimetro del quadrato a partire da uno qualsiasi di questi vertici, perché il tracciato ci condurrà comunque alla loro reciproca interdipendenza; la decisione di iniziare l’esposizione da uno di essi dipende da ragioni che hanno a che fare più con il punto di vista dell’interprete che con un inesistente disegno sistematico del pensiero platonico. In questa sede, si incomincerà con la politica per una ragione semplicemente cronologica, perché essa sta al centro di uno dei dialoghi “giovanili” di Platone come il Gorgia, per ritornare poi lungo tutto il suo lavoro filosofico.
La polis non è mai riuscita, secondo Platone, a realizzare il suo progetto storico, che è quello di costruire una comunità politica unita, in grado di fungere da luogo primario di identificazione del cittadino sostituendo le vecchie appartenenze di famiglia e di ceto. In realtà, scrive Platone nel libro IV della Repubblica, essa è sempre rimasta divisa, come una scacchiera, in due campi contrapposti, quello dei poveri e dei ricchi, ognuno dei quali poi è ulteriormente suddiviso in tante caselle quanti sono gli interessi privati di gruppi e di clan familiari.
Questi due campi hanno prodotto due forme prevalenti di regime, entrambe fallimentari agli occhi di Platone: l’oligarchia e la democrazia. L’oligarchia è il governo esercitato dai ricchi con l’unico obiettivo di incrementare i propri patrimoni, anche a costo di impoverire tutto il resto della comunità; un governo, dunque, egoista e meschino, che nega l’essenza stessa della politica intesa come servizio alla comunità.
Più complesso, e più grave, il caso della democrazia dominante in Atene. Essa presenta in modo emblematico, secondo la dura critica platonica nel Gorgia, i due caratteri propri di questo regime: il governo di incompetenti, eletti da masse ancor più incompetenti, e l’inevitabile deriva demagogica. Chi sottoporrebbe a votazione la terapia da seguire per una malattia del corpo, invece di affidarla a un medico professionista? E perché allora la tanto più difficile cura della città viene affidata al parere di maggioranze assembleari che nulla sanno dell’arte politica? Questa situazione conduce poi al rapporto demagogico fra governanti e governati. Bisognosi del consenso dei secondi, i primi, anziché guidarli verso gli interessi veri e durevoli della città e dei suoi membri, blandiscono gli elettori promettendo loro quello che più desiderano, anche se si tratta di misure rovinose per la comunità. Se di fronte a una giuria di bambini si presentassero un pasticcere, con le sue golose offerte, e un medico che prescrive un farmaco amaro per curare i danni prodotti dall’altro, a chi andrebbe il voto della giuria? Infantile è dunque per Platone la massa democratica, demagoghi e corruttori i governanti che essa esprime, impegnati nell’adulazione a parole del “popolo” per ottenerne il consenso al proprio potere.
Sia l’oligarchia sia la democrazia sono comunque esempi di una finalità degenerata della politica, di un uso distorto del potere, che – secondo la teoria esposta dal sofista Trasimaco nel I libro della Repubblica – viene esercitato non come funzione di servizio alla comunità, ma come strumento per sostenere gli interessi dei più forti. L’esito probabile di questa degenerazione, e soprattutto lo sbocco cui conduce la demagogia democratica, è (sostiene Platone nel libro VIII della Repubblica) quella “malattia terminale della città” rappresentata dalla tirannide: il potere assoluto di uno solo e l’asservimento di tutti gli altri.
Ma è tipica del pensiero platonico la configurazione di un rapporto di condizionamento biunivoco fra la dimensione pubblica e quella dell’anima individuale, quindi fra politica ed etica: la malattia della città è al tempo stesso lo specchio e la causa della malattia dell’anima. Platone ritiene che l’anima sia una sostanza separata da quella del corpo, e che la loro unione sia limitata al periodo della vita dell’individuo. In diversi dialoghi, e in contesti per lo più mitologici, Platone sostiene l’immortalità dell’anima, cioè la sua sopravvivenza all’esistenza corporea, ed eventualmente la sua reincarnazione ciclica in corpi successivi (Gorgia, Fedone, Fedro, Repubblica libro X). L’immortalità dell’anima viene però ipotizzata da Platone in due forme diverse, che corrispondono ad altrettante esigenze teoriche. Può trattarsi dell’immortalità della sola parte “razionale” dell’anima, che non conserva perciò dopo la morte alcun carattere individuale: questa forma di immortalità risponde, come vedremo, ad una esigenza gnoseologica, perché permette di pensare ad una conoscenza a priori delle idee (“reminiscenza”). Oppure, può trattarsi della sopravvivenza dell’anima intiera nella sua individualità, soddisfacendo così un’esigenza di tipo morale. Se l’anima individuale è immortale, si può ipotizzare per essa nell’aldilà una vicenda di premi o di punizioni per la sua condotta nella vita terrena: un incentivo alla giustizia, dunque, e una minaccia per le condotte malvagie, che può utilmente rafforzare gli argomenti filosofici tesi a convincere del nesso fra giustizia e felicità.
In ogni caso, nella sua esistenza mondana l’anima, forse anche per effetto della sua unione con il corpo, è secondo Platone divisa in tre diverse “parti”, o centri motivazionali (Repubblica libro IV, Fedro, Timeo). Si tratta della parte razionale (logistikon), capace di comprendere ciò che è bene per l’intero individuo, di orientarne quindi la condotta verso l’armonia interiore e la felicità, i cui desideri specifici sono la conoscenza e la giustizia; della parte aggressiva e collerica (thymoeides), che aspira all’autoaffermazione, al successo e al prestigio; infine, della parte desiderativa (epithymetikon), che tende alla soddisfazione dei piaceri legati alla corporeità, come quelli del cibo e del sesso, e alla ricchezza come mezzo per conseguirla. Questi tre centri motivazionali tendono dunque a scopi diversi, e l’io risulta scisso e conflittuale (qui Platone si ispira certamente alla grande lezione del teatro tragico).
I diversi tipi di vita individuale si configurano dunque secondo la parte che risulta vincitrice in questa “guerra civile del sé”: si tratterà allora di una vita orientata alla razionalità, oppure alla competizione, o ancora al piacere. Ma nell’apparato psichico della gran parte degli uomini, secondo Platone, esiste uno squilibrio energetico che favorisce le parti irrazionali e vede quella razionale perdente. Ne risultano esistenze perpetuamente disarmoniche e infelici, perché impegnate nella rincorsa a una soddisfazione sempre precaria e parziale: non esiste un limite né al desiderio di successo né a quello di piacere. Ma ne risultano anche tipi d’uomo che rappresentano sulla scena pubblica le motivazioni irrazionali che dominano il loro apparato psichico. La città sarà dunque il teatro di lotte perenni per il potere, la ricchezza, l’eccesso edonistico: la guerra civile del sé si prolunga nella stasis, nel conflitto sociale che costituisce, secondo Platone, la malattia di cui soffrono tutte le comunità politiche esistenti (la guerra del Peloponneso, con i suoi cruenti conflitti fra democratici e oligarchici, ne aveva offerto un esempio tragico ed eloquente).
La parte razionale dell’anima, per potersi affermare nell’interiorità dell’anima e dunque, di riflesso, nella città, ha bisogno di un supporto esterno che la metta in grado di governare le altre parti e di imporre una pacificazione armonica fra i centri motivazionali della condotta: si tratta cioè di mettere le energie della parte aggressiva al servizio della ragione, incanalandole verso finalità socialmente positive, e di controllare le pulsioni desideranti, soprattutto trasformando l’eros, che ne è l’aspetto principale, in amore per la conoscenza, la giustizia, la bellezza ideale anziché in desiderio di soddisfazione sessuale. Questo è però possibile solo grazie a un aiuto esterno alla ragione individuale, che può venire da una comunità politica giusta e da un suo sforzo di educazione, o rieducazione, razionale e morale dei suoi membri. Ma come spezzare il circolo vizioso nel quale individui irrazionali e immorali costituiscono comunità a loro immagine e somiglianza, le quali a loro volta giustificano e incentivano condotte immorali e irrazionali? Lo spettacolo pubblico della competizione per il potere e la ricchezza, dell’uso del potere al servizio di interessi privati, dell’ingiustizia scambiata per abilità e premiata dal successo, non può che rafforzare negli individui il primato delle componenti irrazionali dell’anima.
Occorre, secondo Platone, un “mutamento minimo” ma decisivo: quello ai vertici del potere. “A meno che i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora son detti re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e non giungano a riunificarsi il potere politico e la filosofia [...] non vi sarà sollievo ai mali della città e neppure a quelli del genere umano” (Repubblica V 473d-e). Questa celebre affermazione platonica sollecita a prima vista tre ordini di questioni: come potrebbe il nuovo potere rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso? Come potrebbero i “filosofi” conquistare il potere? E infine: chi sono questi “filosofi” e che cosa legittima la loro pretesa a governare, a fungere cioè da medici della città e con essa anche dell’anima?
La prima riforma da realizzare nel nuovo regime consiste nello sradicare dalla vita sociale tutti quei fattori che inducono a fare uso del potere in funzione degli interessi privati anziché di quelli comunitari. Si tratta dunque di abolire (almeno per il gruppo di governo) la proprietà privata dei patrimoni e i vincoli affettivi familiari (queste due dimensioni fanno capo in Grecia a un’unica struttura sociale, l’oikos, la cui abolizione è dunque ritenuta decisiva da Platone). Nessuno dovrà più dire “questo è mio” di beni, coniugi, figli. I governanti verranno mantenuti, come compenso per il servizio che rendono alla comunità, dal resto del corpo sociale, produttori e commercianti. Le loro unioni riproduttive saranno temporanee (non esisteranno dunque matrimoni), e i figli verranno allevati in modo comunitario; tutti gli adulti saranno considerati “padri e madri” dai giovani del gruppo dirigente, e questi saranno a loro volta considerati “figli” dagli adulti. L’abolizione della famiglia consente inoltre di liberare le donne dalla cura esclusiva della casa, di ricevere un’educazione uguale a quella degli uomini e di condividerne dunque le funzioni politiche e militari: non c’è nessuna ragione di considerarle come sesso inferiore agli uomini, sostiene Platone, ma questa apparente inferiorità si deve solo all’educazione inadeguata che esse storicamente ricevono all’interno delle pareti dell’oikos.
Il disinteresse del gruppo di governo elimina la competizione per il potere, e ne garantisce la coesione interna, una condizione necessaria e sufficiente, secondo Platone, per la pacificazione dell’intero corpo sociale. In questa città, dunque, è l’elemento razionale (capace di perseguire il bene comune) a prevalere grazie al potere degli uomini di ragione; l’aggressività ambiziosa viene posta al servizio della comunità, soprattutto attraverso la funzione militare, anziché dei singoli individui in competizione fra loro; la parte desiderante dell’anima, che continua a prevalere nel ceto dei produttori e commercianti, cui è consentito, almeno provvisoriamente, il possesso di proprietà private, è tuttavia tenuta sotto controllo in una società che prevede una corretta distribuzione dei ruoli di comando. Si è così finalmente costruita, secondo Platone, la città giusta, in cui ogni individuo svolge le funzioni per le quali è psicologicamente predisposto in una gerarchia di ruoli accettata e condivisa da tutti; dunque anche una città pacificata e felice. Questa comunità agirà soprattutto come un’agenzia educativa permanente, mirante a instaurare nell’anima di ogni suo membro il primato della parte razionale, con il consenso e la collaborazione degli altri centri di motivazione psichica, quello collerico e quello desiderante. Grazie a questo processo educativo, la città giusta (perché governata da uomini giusti) formerà cittadini giusti, che a loro volta riprodurranno una comunità giusta. Si è dunque rovesciato il circolo vizioso da cui si era partiti istituendo un circolo virtuoso. A questo punto, non sarà forse più necessario un potere forte e in qualche misura coercitivo come dev’essere quello degli inizi. I bambini, scrive Platone nel IX libro della Repubblica, hanno bisogno di un padre e di un pedagogo che li educhi e li controlli, perché non sono in grado di condurre una vita autonoma; ma quando sono cresciuti possono essere lasciati liberi. Allo stesso modo, gli uomini in cui il principio razionale è debole hanno bisogno di una sorta di protesi esterna di razionalità, che è assicurata dalla sottomissione al governo filosofico, ma se l’impresa educativa ha successo, essi potranno considerarsi emancipati e in grado di accedere a loro volta alle funzioni di governo (benché sia improbabile, alla luce del pessimismo antropologico di Platone, che ciò possa alla fine riguardare l’intera collettività).
La realizzazione di questo progetto, sottolinea Platone a più riprese nel V e nel VI libro della Repubblica, è molto difficile, ma non in linea di principio impossibile (se tale fosse, tutto il discorso meriterebbe il ridicolo che spetta ai “castelli in aria”). La condizione di possibilità, come si è detto, è che i “filosofi” ascendano al potere. Ma come a sua volta questo può venir considerato possibile, vista l’opinione generale che considera i filosofi personaggi innocui ma del tutto inutili, nella migliore delle ipotesi, oppure pericolosi e malvagi (in questo caso, si tratta evidentemente dei sofisti)? Non è impensabile che questi intellettuali possano convincere una maggioranza democratica ad affidare loro il governo, ma certo altamente improbabile, visto l’asservimento delle masse alla demagogia. È più probabile allora che si possa seguire un’altra via, quella che Platone nel IV libro delle Leggi considera “la più facile e la più rapida”. Si tratta di convertire un potente (monarca o tiranno che sia), o più probabilmente uno dei suoi figli, alla pratica dell’autentica filosofia, oppure almeno convincerlo a seguire il consiglio dei legislatori filosofi. Questa via non sembra estranea all’esperienza personale di Platone, se si considera attendibile l’autotestimonianza della Lettera VII, da cui appunto risulta che egli avrebbe sperato, e tentato, di convertire alla filosofia il figlio del potente tiranno siracusano Dionisio; essa è comunque chiaramente evocata nel passo citato delle Leggi. Platone è perfettamente consapevole (tanto a livello di teoria quanto forse di esperienza personale) del rischio estremo in cui incorre il filosofo nell’alleanza con un personaggio esposto alla peggior degenerazione morale e politica come il tiranno. Se ancora evoca questa alleanza nella sua ultima opera, ciò è probabilmente dovuto a un aspetto caratteristico del suo pensiero: l’artificialismo. Sulla scorta del modello delle tecniche, Platone concepisce la società umana (ma anche, come vedremo, lo stesso cosmo) come un prodotto da realizzare ad opera di un efficace artigiano (in greco demiourgòs) capace di forgiare un materiale secondo un modello. La politica costituisce così secondo Platone il problema “tecnico” di imporre a un materiale piuttosto scadente, quello umano, una forma per quanto possibile perfetta: l’artigiano che conosce il modello è il “filosofo”, e se egli stesso non dispone della forza necessaria, non può che ricorrere all’aiuto del tiranno in vista della realizzazione della sua “opera d’arte” (nel Novecento, Karl Popper avrebbe definito questo approccio come “ingegneria sociale utopica”).
Questa considerazione ci consente di formulare la risposta a due ulteriori domande: quali sono i “filosofi” che Platone ha in mente, che cosa legittima la loro pretesa di essere in grado di governare, cioè di dirigere la costruzione dell’opera d’arte sociale; e quale grado di possibilità ha, agli occhi di Platone, il suo progetto utopico? Alla prima domanda, è facile rispondere che non si tratta certo degli intellettuali filosofici noti al pubblico ateniese, come i sofisti e i naturalisti alla maniera di Empedocle e di Anassagora, ma del gruppo di filosofi raccolti attorno allo stesso Platone nell’Accademia. Essa deriva dal gruppo “socratico”, ma se ne differenzia proprio per la forma peculiare del suo sapere filosofico, che assicura appunto la legittimazione dell’aspirazione a governare. Questo sapere consiste nella conoscenza di un livello di valori etico-politici oggettivi e assoluti (la giustizia, il bello, il bene), cioè delle idee o forme (eide) che devono costituire la finalità e il fondamento dell’azione morale individuale e della sua estensione politica. Secondo i platonici, questi valori non dipendono da valutazioni soggettive, personali o di gruppo, ma esistono di per sé, indipendentemente dall’arbitrio di individui o di maggioranze assembleari. Si tratta di una risposta teoricamente forte (secondo alcuni, anche troppo forte) al relativismo del sofista Protagora, che nega l’esistenza di valori oggettivi e ne fa dipendere la validità dalle scelte di volta in volta compiute da individui o gruppi politici: non si può dire che l’una sia più vera dell’altra, ma solo misurarne l’efficacia rispetto ai fini utilitari desiderati (Platone fa esporre a Protagora questa dottrina nel Teeteto). Agli occhi dei platonici, il relativismo protagoreo costituisce la giustificazione della demagogia assembleare propria della democrazia e del trionfo della retorica. Un vero governo della comunità deve perseguire un sistema di valori che risultino appunto oggettivamente e assolutamente veri, e per questo è necessaria la forma di conoscenza propria dei soli filosofi. La teoria delle idee, di cui si dirà più avanti, viene così a costituire il tramite fra la metafisica e la politica di Platone.
Per quanto riguarda la seconda domanda, è chiaro che la città giusta (la bella città, kallipolis) costituisce un modello ideale, un “paradigma in cielo” come la definisce Platone (Repubblica IX 592), che non è possibile realizzare in modo perfetto nella realtà storica. È invece possibile, anche se molto difficile, realizzare forme politiche che si avvicinino ad essa per quanto è concesso dal mutevole ambiente spazio-temporale. È certo, comunque, che il modello della città giusta costituisce la sola finalità politica che sia degna di essere perseguita da uomini moralmente e intellettualmente integri, che eviteranno invece l’impegno nella competizione politica per il potere nelle città esistenti. In questo senso l’utopia di Platone va intesa come un’utopia progettuale, di cui non si pretende la compiuta realizzazione, ma da cui ci si attende tuttavia un’efficacia nell’orientare la prassi di persone e di gruppi sociali verso un’idealità di giustizia.
Nella sua ultima opera, le Leggi, Platone propone invece un modello considerato più facilmente realizzabile in quanto più vicino all’“attuale natura umana”, in cui vengono ripristinate famiglia e proprietà privata. Poiché in questo modello la coesione sociale è dovuta al comune ossequio alle leggi, a loro volta concepite come la prosecuzione in ambito umano di un ordine divino presente nel mondo astrale, le funzioni supreme di governo non spettano più ad una élite filosofica, ma a un gruppo “teocratico” di teologi-astronomi (il Consiglio notturno).
Gorgia aveva sostenuto che non esiste alcuna realtà oggettiva; che se anche esistesse, non sarebbe accessibile al nostro pensiero; che se anche lo fosse, non sarebbe esprimibile nel linguaggio, per la radicale eterogeneità fra parola e cosa. Protagora dal canto suo aveva argomentato la tesi che il soggetto (individuale o collettivo) è l’unico “criterio” di descrizione e di valutazione dello stato e del valore delle cose (qualcosa è “dolce” o “giusta” nella misura in cui appare tale a qualcuno, e finché gli appare tale). Per Platone, gli argomenti di Gorgia e Protagora sarebbero risultati inconfutabili se l’unica realtà esistente fosse quella che ci viene presentata dall’esperienza sensibile.
Non si può dire propriamente che il mondo empirico non esiste; ma il suo modo specifico di esistenza è quello della variabilità, dell’instabilità, dell’incessante deformazione spazio-temporale. Le cose di questo mondo non sono mai identiche a se stesse perché mutano nel tempo e perché le loro proprietà sono necessariamente relative; la conoscenza che se ne può avere è dunque altrettanto instabile, opaca, condizionata dalla soggettività della percezione e della valutazione. Noi possiamo dire ora che questa ragazza è bella, ma essa potrà diventare brutta fra un anno, o già ora ci può apparire brutta se paragonata all’immagine di una dea. Noi possiamo dire che è giusto restituire gli oggetti che ci sono stati affidati in custodia, ma questa condotta diviene ingiusta se un amico che ci ha affidato una spada, impazzito, ce la richiede con l’intenzione di compiere una strage (l’esempio è nel I libro della Repubblica). Solo se fosse possibile individuare un livello di realtà diverso da quello empirico – cioè dotato delle proprietà dell’invarianza, della univocità, della trasparenza al pensiero – si potrebbe allora falsificare le tesi di Gorgia e di Protagora, riaprendo un transito fra discorso, pensiero e verità, e sottrarre così le nostre descrizioni e valutazioni del mondo ai vincoli del relativismo soggettivistico, allo statuto della persuasione retorica, che essi avevano imposto. Platone ritiene che la via di accesso a questo diverso livello di realtà sia implicita nella struttura del nostro linguaggio, e che sia inoltre chiaramente indicata da un rilevante modello epistemico, quello offerto dai saperi matematici – in primo luogo dalla geometria (va ricordato che la riflessione di Platone si svolge nello stesso periodo in cui viene costituendosi quel grande insieme teorico che prenderà la sua forma definitiva negli Elementi di Euclide).
I teoremi della geometria costituiscono enunciati universali (non dipendono cioè dalle opinioni soggettive) e necessari (cioè non controvertibili) indipendentemente dalle circostanze in cui vengono dimostrati e dagli oggetti materiali su cui viene condotta la dimostrazione. Il teorema di Pitagora non vale soltanto per il triangolo disegnato dal matematico (che può essere grande o piccolo, nero o rosso), anzi non vale propriamente per nessun triangolo disegnato (ogni disegno presenta inevitabilmente imperfezioni che falsificherebbero il teorema), bensì per il triangolo in generale nella sua idealità. Il triangolo ideale è sempre uguale a se stesso e non presenta alcuna variazione nel tempo e nello spazio, e gli enunciati relativi ad esso non dipendono dalla soggettività di chi li formula: sono perciò pienamente suscettibili di venire giudicati oggettivamente veri o falsi.
Una generalizzazione del modello geometrico può, secondo Platone, venire impiegata per mettere in luce la struttura soggiacente alle forme del linguaggio. Noi formuliamo costantemente, intorno a cose e condotte, enunciati descrittivi o valutativi del tipo: "Socrate" è giusto; “restituire i prestiti” è giusto; “obbedire alla legge” è giusto. In generale, in questi enunciati noi applichiamo a una pluralità di soggetti una stessa proprietà: (x) è F, (y) è F, (n) è F. Ora, nessuno di questi soggetti è identico alla proprietà che gli viene attribuita (Socrate non è “la giustizia”), ognuno può possederla o meno (restituire un prestito o obbedire alla legge in certe circostanze è ingiusto), e possiede inoltre altre proprietà (Socrate può essere giovane o vecchio, vivo o morto, e così via). Viceversa, in tutti questi enunciati il predicato che viene attribuito a (x), (y), (n) risulta costante e invariabile nel suo significato, cioè funge da standard universale di descrizione o valutazione dei singoli soggetti cui viene attribuito: se questa attribuzione è corretta (cioè vera) “Socrate”, “restituire i prestiti”, “obbedire alla legge” risultano essere casi, o esempi (istanziazioni) della giustizia; se è falsa, no. Si può dire allora che i predicati universali, del tipo “giusto”, “bello” (o anche – ma questo costituisce un problema in parte diverso, che andrà discusso in seguito, “uomo”, “cavallo” e così via) costituiscono nuclei di significato unitari e invarianti che possono venire riferiti a una pluralità mutevole e instabile di soggetti e di circostanze.
Se tuttavia il loro contenuto potesse variare a seconda delle opinioni soggettive, non si sarebbe ancora superata, secondo Platone, la minaccia del relativismo sofistico. Questi predicati devono dunque venir pensati come descrizioni di un referente primario, che possiede in modo oggettivo, assoluto e stabile la proprietà che essi enunciano. Ogni F è dunque primariamente vero di un oggetto Φ: la referenza di “giusto” è un oggetto che Platone chiamava “il giusto in sé”, “la giustizia stessa” – insomma, l’idea (o la forma) di giustizia che ha, con le singole cose di cui si può predicare la proprietà della giustizia, lo stesso rapporto che il triangolo ideale dei matematici presenta con i singoli triangoli di volta in volta disegnati. L’idea di giustizia può venir pensata come un cono di luce, irradiata da un singolo vertice, entro il quale può transitare una pluralità di individui (che, venendone illuminati, assumono la proprietà di esser giusti, e cessano di presentarla quando ne escono). Solo questo oggetto Φ possiede interamente, ed esclusivamente, la proprietà descritta dal predicato F (solo l’idea di giustizia è perfettamente giusta, e nient’altro che giusta), dunque è immediatamente convertibile con quella proprietà (se “giustizia” significa, secondo la definizione che Platone proponeva nel libro IV della Repubblica, “fare ciò che spetta a ognuno”, l’“idea di giustizia” è descritta interamente, senza residui e senza possibili variazioni, da questa definizione, così come l’“idea di triangolo” risulta perfettamente convertibile con la definizione “figura con tre lati la somma dei cui angoli è uguale a 180°”).
L’esistenza di enti ideali invarianti come referenza primaria dei predicati usati nel linguaggio descrittivo e valutativo è per Platone un presupposto necessario alla stabilizzazione non relativistica dei significati di questo linguaggio, e dunque della stessa conoscenza del mondo cui esso si riferisce. Prende forma qui uno degli assiomi fondamentali del platonismo: la stabilità dei discorsi e delle conoscenze dipende da quella degli oggetti su cui essi vertono. Per dirla in altri termini, il modo d’essere – lo statuto ontologico – degli oggetti su cui vertono discorsi e conoscenze ne determina il grado di stabilità, universalità e verità – insomma, lo statuto epistemologico. Perciò Platone esclude – al contrario di quanto avrebbe fatto il pensiero moderno – che le idee, cui si riferiscono predicati come “bello”, “grande” e così via, possano venir considerate come concetti o categorie interne al “pensiero” (noemata): ogni pensiero, se è davvero tale, e non sogno o delirio, è sempre pensiero di qualcosa, ha un referente esterno ed oggettivo. Dunque i predicati del tipo “bello”, “grande” e così via devono riferirsi primariamente a enti ideali oggettivamente esistenti e dotati di un grado di realtà più elevato di quello dei singoli soggetti (“Socrate”, “l’albero”) cui essi vengono attribuiti negli enunciati descrittivi e valutativi. Qui Aristotele individuerà quello che egli considera l’errore capitale di Platone: l’aver conferito “più realtà” al predicato che al soggetto, alla qualità che alla sostanza – mentre egli pensa che proprietà come “bello” e “grande” non possano esistere se non come determinazioni di una realtà primaria di cui sono attributi, appunto “Socrate” o “questo albero qui”.
Le idee devono dunque essere per Platone enti ideali, oggetti autonomi, anche se i predicati che ne esprimono il significato costituiscono in effetti standard, norme o criteri di descrizione o di valutazione del mondo, che noi impieghiamo quando diciamo “questo albero è grande”, "Socrate è buono", “questa azione è giusta”. Certo, il modo di esistenza delle idee è diverso da quello delle cose (non si tratta, in altri termini, di una sorta di “supercose”). L’idea di triangolo non è un triangolo perfetto, e l’idea di mela non è una mela eterna: si tratta piuttosto dell’insieme di caratteri essenziali che rendono identificabili come tali, e diversi dalle altre cose, ogni singolo triangolo e ogni singola mela. La forma di esistenza delle idee è quella di criteri o norme di descrizione e valutazione vere degli oggetti e delle azioni; nel caso delle idee, e solo nel loro caso, esistenza e verità coincidono perfettamente.
C’è di più. In virtù dell’“assioma di corrispondenza” di cui si è detto, Platone ritiene che un enunciato predicativo vero sia quello che descrive una relazione reale tra oggetti. Dire che “Socrate è buono”, “questa figura è un triangolo”, sarà vero nel caso esista un rapporto fra gli enti (empirici) “Socrate”, “questa figura” e gli enti (ideali) “buono”, “triangolo”, falso se non esiste. Ma che cosa significa questa relazione fra enti di livello ontologico diverso? Per risolvere questo problema, Platone formula uno dei suoi teoremi più problematici, quello della “partecipazione” (methexis) tra cose e idee. Per pensare il rapporto di “partecipazione", e il ruolo causale delle idee nel suo ambito (l’idea di giustizia deve essere in qualche modo la causa del fatto che “Socrate è giusto”, perché solo partecipando ad essa egli diventa tale), Platone introduce la nozione del rapporto fra “modello”, o “paradigma”, e “copia”. Le idee vengono dunque concepite come modelli di cui le singole istanziazioni empiriche risultano riproduzioni o appunto “copie”, inevitabilmente imperfette e instabili. Questo schema di pensabilità appare dotato di soddisfacenti capacità esplicative in molte situazioni – appunto quelle nel cui ambito si è venuta costituendo la “teoria delle idee”. Si può dire ad esempio che il geometra, quando disegna un triangolo, rende visibile il modello solo pensabile del triangolo ideale, ne fa una “copia”. Si può dire che quando costruisce un letto di legno, il falegname si ispira al modello ideale di “letto”, trasferendolo nella materia. Si può dire, ancora, che il buon politico, quando traccia la costituzione della città, ha di mira l’idea di giustizia, che tenta di realizzare nelle circostanze storiche in cui opera. Nel linguaggio aristotelico, questa funzione causale delle idee sarebbe risultata di tipo “formale” e/o “finale”: l’idea è la forma riprodotta nella materia, o il fine cui si indirizza l’azione.
Ma che significato avrebbe dire, ad esempio, che il cane Pluto è una copia dell’idea di cane, o che l’idea di cane è “causa” di Pluto? L’estensione del rapporto idee-cose al mondo degli oggetti naturali costituiva un problema difficile per la teoria platonica delle idee, che si era formata – come si è visto – nell’ambito della valutazione morale da un lato, in quello epistemico delle matematiche dall’altro. Restando comunque nell’ambito proprio della teoria delle idee – in cui la relazione “partecipativa” modello/copia mantiene una certa efficacia esplicativa circa la “presenza” delle idee nelle singole cose o azioni che esse rendono così descrivibili e valutabili secondo verità – si pongono alcuni problemi più direttamente pertinenti. In primo luogo: quali sono le idee? qual è, in altri termini, la “popolazione” del mondo “pensabile”, noetico-ideale? In secondo luogo: come sono conoscibili le idee? Infine, dato per spiegato il rapporto partecipativo fra idee e cose, quali sono i rapporti fra idee?
Per quanto riguarda la prima domanda, la versione “classica” della teoria delle idee – quella presentata nel Fedone, nella Repubblica e nei dialoghi contigui – comporta, pur senza mai offrirne un catalogo preciso, tre famiglie principali di idee, con una potenziale estensione. La prima e maggiore famiglia era quella delle idee-valore, di ambito etico-politico, come “bello”, “buono”, “giusto”. Non sembra che Platone pensi anche all’esistenza delle rispettive idee negative, come “non-buono” o “cattivo”: poiché queste idee fungono da criteri di valutazione, l’idea di “buono”, ad esempio, basta a discriminare il campo delle cose buone da quelle non buone, sulla base della rispettiva partecipazione, o non partecipazione, ad essa (cioè della presenza o dell’assenza del “buono” nei due campi).
La seconda famiglia include le idee degli enti matematici, come “uno”, “quadrato”, “angolo”, “solido” e così via. La terza famiglia comprendeva quelle che Aristotele chiamerà le idee dei relativi: coppie dimensionali come “uguale/diverso”, “grande/piccolo”, “doppio/metà”, “veloce/lento” e così via. Un’accesa discussione deve essersi svolta all’interno dell’Accademia intorno ai limiti e al senso della versione originaria della teoria delle idee. Certo è, comunque, che l’obiezione rivolta dal personaggio Parmenide (nel dialogo omonimo) alla limitazione delle idee all’ambito dei valori etici “"bello”, “giusto”, “buono”) e a quello epistemico delle matematiche (“eguale”), va nel senso di un’estensione del rapporto modello/copia all’intero mondo della natura, cioè del programma cosmogonico che sarà delineato nel Timeo. Ma in questo modo diventa inevitabile una proliferazione incontrollata della popolazione delle idee “separate”, come rileverà ancora una volta l’impietosa critica di Aristotele.
Forse, è davvero meglio – nonostante Parmenide – mantenere la teoria delle idee sul terreno etico da un lato, epistemologico dall’altro, nel quale si è originata e dove ha mostrato la sua efficacia critica ed esplicativa. Ed è in questo ambito che va intanto affrontata la seconda questione che ci si è posta: come sono conoscibili le idee “separate” e “pensabili”, e a che cosa dà luogo questa conoscenza? Una prima risposta di Platone è formulata nel linguaggio del mito. L’anima immortale avrebbe conosciuto (cioè letteralmente “visto”) le idee nella sua vita extracorporea; ne avrebbe poi conservato un confuso ricordo, che con un opportuno aiuto dialogico (l’arte maieutica) sarebbe riaffiorato, dando luogo alla reminiscenza (anamnesi). Molti studiosi hanno interpretato questa tesi platonica come l’esposizione in forma mitica di una concezione del carattere apriori (rispetto all’esperienza) che la conoscenza delle idee deve avere. Tuttavia, è vero che in molti testi platonici, ad esempio nel libro VII della Repubblica, l’apprensione delle idee si situa non all’inizio, ma al termine di un complesso processo conoscitivo che muove dall’esperienza e procede per diversi gradi di astrazione.
Anche qui, comunque, il linguaggio metaforico usato da Platone per descrivere il modo di conoscenza delle idee appartiene quasi interamente alla sfera della visione. Del resto, le stesse parole greche che designano l’idea – appunto idea, oppure eidos, “forma visibile” – derivano dalla radice id-, che le connette al verbo idein, “vedere”. La conoscenza intellettuale che ha ad oggetto le idee è dunque costantemente descritta da Platone come un atto di pensiero (noesis) che ha il suo analogo nell’atto della visione; lo stesso verbo che designa l’attività teorica (theorein) significa primariamente in greco “osservare, contemplare”. Tutto questo sembra suggerire che la conoscenza delle idee vada concepita come una intuizione intellettuale immediata (in questa o nell’altra vita), di carattere extra-linguistico, non discorsivo seppure certamente non extra-razionale. Non è in effetti da escludere che l’analogia fra atto di pensiero, che ha ad oggetto la “forma” come essenza ideale, e atto della visione che è rivolto alla “forma visibile” delle cose, abbia indotto Platone, almeno in un versante del suo pensiero, a concepire proprio in questo modo il momento culminante della comprensione delle idee. Non può però essere questo l’aspetto principale e dominante della sua teoria della conoscenza noetica, per una serie di buone ragioni. In primo luogo, questa conoscenza richiede il lavoro della dialettica, il procedimento filosofico per eccellenza, che è interamente di natura argomentativa, e comporta il confronto discorsivo fra una pluralità di soggetti. In secondo luogo, Platone insiste sul carattere linguistico-discorsivo del momento conclusivo di questo lavoro: si tratta di “cogliere il discorso” (logos) che spiega razionalmente ogni essenza, e di renderne conto (ancora con il discorso, logos) “a sé e agli altri” (Repubblica VII).
Dal Fedone e dalla Repubblica possiamo derivare indicazioni precise sul modo di pervenire alla conoscenza "dialettica" delle idee. Poniamo che sia il caso – come lo è appunto nella Repubblica – di comprendere che cosa sia “la giustizia” in sé – l’idea di “giusto”. Gli interlocutori saranno chiamati a formulare le loro “ipotesi” sulla questione. Il filosofo che conduce il dialogo (in questo caso Socrate) tenterà via via di confutare le ipotesi proposte, mostrando ad esempio come esse non siano universalizzabili, cioè estensibili a tutti i casi in questione, oppure conducano a conseguenze inaccettabili, o dipendano da presupposti parimenti inammissibili. Il confronto argomentativo, nel caso che abbia successo, dovrebbe condurre alla fine a formulare una tesi “inconfutabile”, o almeno “difficilissima da confutare” (Fedone), cioè ormai non-ipotetica (Repubblica VI). Il contenuto di questa tesi può venir espresso in un discorso di tipo definitorio (quale è ad esempio, per la giustizia, “fare ciò che spetta a ognuno”).
Si apre però a questo proposito una questione ulteriore. Non solo “definizioni” delle idee di questo genere sono rarissime; quel che più conta è che esse non possono per principio avere un carattere definitivo e conclusivo, perché la loro formulazione dipende in ogni caso dal contesto argomentativo e dal consenso degli interlocutori coinvolti nel confronto dialettico. C’è qui senza dubbio una tensione latente all’interno del pensiero di Platone. Da un lato, egli avverte con forza, come si è visto, l’esigenza di stabilizzare i significati del linguaggio, sottraendoli all’arbitrarietà dei parlanti e dunque all’efficacia persuasiva della retorica: questa esigenza lo porta verso la costruzione di una sorta di “dizionario eidetico”, univoco e normativo rispetto alla significazione discorsiva. Dall’altro lato sono ancora più forti la sua diffidenza verso il carattere chiuso e ripetitivo del “libro”, e la conseguente necessità di sottoporre ogni volta i risultati del percorso conoscitivo al vaglio della discussione dialettica, del confronto “vivo” tra gli uomini – l’unico modo per giungere a convinzioni veramente radicate nell’“anima”, dunque efficaci sia intellettualmente sia moralmente. La difficile somma vettoriale fra queste due esigenze contrastanti, e parimenti irrinunciabili, sembra abbia portato Platone a sperimentare un modo di conoscenza delle idee per lo più non riducibile a formulazioni definitorie chiuse e invarianti.
Viene così delineato a più riprese un approccio alle idee composto da due procedimenti convergenti: differenziazione da un lato, delimitazione dall’altro. Dal primo punto di vista, si tratta di dire ciò che l’idea cercata non è, di tracciarne la differenza con le cose e le altre idee. Così ad esempio nella Repubblica il “buono” è diverso dall’intelligenza e dal piacere, che pure possono risultare “buoni”; nell’Ippia maggiore il “bello” non è una “bella ragazza” o l’“oro”, ma neppure il “conveniente”, l’“utile” o il “vantaggioso”. Ma d’altra parte, si tratta di individuare le relazioni dell’idea cercata con altre idee affini, che formano una sorta di rete che la circoscrive, al cui interno essa costituisce un nodo. L’idea cercata risulta così pensabile come il punto focale al quale rinviano le idee affini, e che a sua volta rinvia ad esse.
Se la comprensione dell’unità dell’idea mantiene probabilmente una ineliminabile componente intuitiva, l’esito principale della conoscenza dialettica, la descrizione discorsiva del significato di ogni singola essenza ideale (logos tes ousias) comporta dunque la sua delimitazione per differenza e affinità, e il suo inserimento in una rete di relazioni significative in grado di circoscriverla. È possibile tracciare una mappatura sistematica delle relazioni reciprocamente costitutive fra le idee, o per lo meno individuarne i presupposti metodici? Questa domanda mette in gioco la stessa scientificità della dialettica come metodo di conoscenza delle idee. Platone tenterà di proporne una risposta positiva, anche se a sua volta problematica, delineando nel Sofista una sorta di “grammatica generale” del mondo noetico-ideale.
Per quanto riguarda invece l’assetto originario della “teoria delle idee”, essa rappresenta in Platone soprattutto la risposta ad un’urgente esigenza normativa e fondativa – antirelativistica – tanto nel campo etico-politico quanto in quello epistemico; un’esigenza che può risultare soddisfatta anche se la “teoria” non può (e non intende) raggiungere quella chiusura sistematica (in termini di definizione ed enumerazione degli enti ideali, nonché delle loro relazioni) richiesta da altri e più stringenti requisiti filosofici, come quelli che Aristotele richiederà. Proprio alla prevalenza dell’aspetto etico è probabilmente dovuta un’ulteriore difficoltà nella concezione del mondo ideale che Platone ha introdotto nel libro VI della Repubblica, e probabilmente sviluppata nelle ulteriori elaborazioni formulate soltanto nelle discussioni orali all’interno della scuola (quelle che Aristotele chiama le “dottrine non scritte” del maestro). Al vertice del sistema delle idee è stata posta l’idea del bene (o del “buono”, to agathon), che è concepita come “causa” dell’essere e della verità delle idee stesse. Ora, è possibile interpretare questa supremazia del bene come “causa finale” della conoscenza e della prassi, entrambe orientate alla giustizia pubblica e privata, che a sua volta è garanzia di felicità, lo scopo finale di ogni condotta. Meno agevole è comprendere come enti eterni e ingenerati come le idee possano dovere la loro esistenza a una causa esterna; e inoltre: il bene è a sua volta un’idea, oppure (come avrebbero interpretato i neoplatonici) è un principio trascendente le idee e l’essere stesso? E in questo caso, è da identificare con l’Uno, che a quanto pare costituirà il principio supremo secondo le “dottrine non scritte”? Si tratta di domande che non consentono una risposta definitiva, probabilmente proprio perché le riflessioni metafisiche di Platone non hanno mai assunto una chiusura sistematica, e hanno piuttosto costituito il tema di indagini e discussioni dialettiche aperte all’interno dell’Accademia.
Su un’altra implicazione possibile della teoria delle idee, invece, lo stesso Platone è stato abbastanza chiaro. L’introduzione delle idee come soli possibili oggetti di un discorso vero (scientifico), e come soli valori autentici, perché immutabili e univoci, ha prodotto senza dubbio, sia a livello onto-epistemologico sia a livello etico, una “separazione” fra due mondi opposti: da un lato quello ideale, eterno, invariante, vero, dall’altro quello empirico, instabile, mutevole nello spazio e nel tempo, passibile di opinioni altrettanto instabili e non di conoscenza scientifica. Se questi “due mondi” vengono concepiti come alternativi, allora per il filosofo non c’è altra via se non quella che consiste nell’abbandono del mondo empirico (della corporeità, della dimensione storico-politica, dei saperi pratici) e nel rifugio in quello ideale, cui si rivolge la sua contemplazione teorica, in attesa magari di una visione diretta da parte dell’anima disincarnata nell’aldilà. Platone sembra in alcuni passi, per esempio del Fedone e del Teeteto, aver indicato proprio questa via di fuga. Ma l’asse principale del suo pensiero, che fa del filosofo il terapeuta dei mali della città e del pensiero, lo porta poi in un’altra direzione. Si tratta dunque di concepire il mondo ideale non come alternativo, ma come fondativo rispetto a quello emipirico-storico e ai suoi saperi. Questa prospettiva viene efficacemente rappresentata da Platone con la celebre “allegoria della caverna” nel libro VII della Repubblica. La condizione umana vi viene descritta come quella di prigionieri incatenati nel fondo di una caverna, che possono soltanto vedere le ombre proiettate da un fuoco che illumina marionette fatte sfilare alle spalle dei prigionieri. Questo mondo delle ombre rappresenta la nostra conoscenza del mondo empirico, delle sue precarie verità e dei suoi valori arbitrari. Un prigioniero che venisse liberato e potesse salire all’esterno della caverna vedrebbe il mondo reale, illuminato dalla luce del sole (cioè il mondo delle idee, popolato da verità e valori autentici e rischiarato dal Bene). Egli dovrebbe però far ritorno nella caverna, per obbligo morale verso i suoi compagni di prigionia, e lì convincerli, anche loro malgrado, a rivolgere il pensiero e l’azione etico-politica verso i veri valori e la vera conoscenza. Fuor di allegoria, il filosofo che raggiunge la conoscenza della sfera ideale deve valersi del suo sapere non per negare, ma per rifondare le conoscenze e le credenze vincolate al solo mondo empirico (l’opinione, doxa, non diventerà così propriamente scienza, episteme, perché questa si dà solo delle idee, ma almeno “opinione vera”, sufficiente a orientare correttamente la comprensione e l’azione nella vita della caverna: è chiaro del resto che questa caverna spazio-temporale è il luogo della vita di ogni uomo, filosofi compresi, e che la differenza non è di habitat ma di direzione dello sguardo intellettuale).
Questa mobilità dello sguardo del filosofo fra i due mondi corrisponde a un’altra mobilità che coinvolge la persona intiera, quella dell’anima. Mossa dall’energia dell’eros, che si rivolge dapprima alla bellezza dei corpi ma può essere orientata verso la bellezza della verità e del bene, l’anima si muove fra alto e basso, mondo temporale e mondo eterno delle idee, aprendo i transiti fra l’uno e l’altro (questo movimento dell’anima è espresso nel famoso mito del Fedro, dove essa è rappresentata come una biga trainata da due cavalli: l’auriga sta per il principio razionale, il cavallo bianco, che lo asseconda nel moto verso il cielo, per il principio della reattività aggressiva, il cavallo nero, che invece tende verso il basso, per i desideri erotici ancora legati alla corporeità).
Platone espone le sue concezioni cosmologiche in un solo dialogo, il Timeo (con qualche aggiunta nelle Leggi). Lo statuto di queste concezioni è quello non di una scienza (possibile solo per il mondo ideale) ma di un “mito verosimile”: il Timeo ha tuttavia un’immensa influenza sia nella tradizione neoplatonica sia soprattutto in quella cristiana medievale.
In linea con lo stile artificialistico del pensiero platonico, la formazione del cosmo è concepita come l’opera di un supremo artigiano, il demiurgo, che ha come proprio modello il mondo ideale (questo comporta, come si è visto, l’estensione dell’ambito delle idee anche alle realtà naturali) e come compito quello di trasferire per quanto possibile questo modello in una realtà spazio-temporale disordinata, una sorta di “materiale” primario, che Platone chiama chora, “luogo”. Questo materiale può fungere da ricettacolo delle forme (Platone ricorre alla metafora genitoriale, chiamando “padre” il demiurgo e “madre” la chora), opponendo tuttavia la resistenza deformante propria del suo disordine originario. L’opera del demiurgo – mai del tutto compiuta – consiste dunque nell’“obbligare e convincere” la materia estesa nel tempo e nello spazio ad accogliere l’ordine delle idee, e a conservarlo per quanto possibile (proprio come il filosofo-politico deve tentare di imporre, per quanto imperfettamente, l’ordine della giustizia ideale al mondo storico-umano).
Il primo livello della formazione del cosmo è rappresentato dagli astri, entità “divine” ed eterne, dotate del tipo di moto più vicino alla perfezione dell’immobilità ideale, quello circolare e uniforme (questo presupposto platonico costituirà per secoli un problema per l’astronomia antica, che deve conciliare le irregolarità osservabili del movimento dei pianeti con l’assioma della sua perfetta uniformità circolare).
L’organizzazione della materia del mondo “terrestre” è più complessa. Il demiurgo si vale di figure geometriche elementari, i triangoli isoscele e scaleno, dalle cui combinazioni si generano i solidi primari (piramide, cubo, ottaedro, icosaedro, dodecaedro, il più vicino alla forma sferica). Questi solidi generano a loro volta gli “elementi materiali” della tradizione empedoclea, terra, acqua, aria e fuoco (così ad esempio la terra è composta da cubi, il fuoco da piramidi). La combinazione degli elementi dà infine luogo ai corpi osservabili. Tutto ciò viene a formare il corpo del mondo, costituito dunque da una materia strutturalmente ordinata e leggibile secondo schemi più matematici che fisici (al contrario di quanto sosterrà Aristotele). Ma il cosmo è un essere vivente e il demiurgo lo dota quindi di un’anima (la anima mundi del Medioevo) cui è affidato il compito di salvaguardarne l’ordine provvidenziale una volta esaurita l’opera del divino artefice. Il Timeo include inoltre una descrizione della struttura del corpo umano, della sua anima e delle relative interazioni (l’anima razionale viene dunque collocata nel cervello, quella emotiva e aggressiva nel cuore, quella desiderante nei visceri e negli organi sessuali). Le malattie sono tutte, secondo Platone, di natura psicosomatica, risultando o da cattive influenze del corpo sull’anima o, viceversa, da quelle di un’anima malvagia sul corpo, e altrettanto globale deve dunque esserne la terapia, agendo insieme sul corpo e su una corretta formazione educativa dell’anima.
La tradizione facilmente identificherà il demiurgo con una divinità creatrice, e la sua opera come un piano provvidenziale destinato a consegnare agli uomini il miglior mondo possibile, e senza dubbio questa interpretazione viene agevolata dal linguaggio tecnico, artificialistico, con cui Platone narra il suo barocco mito cosmogonico. Aristotele accuserà questo mito, e il suo linguaggio, di appartenere all’ambito della poesia e non a quello della scienza della natura. Ma non è da escludere che Platone abbia operato nel Timeo una problematica estensione cosmologica del suo pensiero proprio per rispondere a esigenze poste dall’Accademia, e forse dallo stesso Aristotele, di far uscire la teoria delle idee dal suo terreno originario (etico da un lato, epistemologico dall’altro) per misurarsi sul terreno, di origine presocratica, della filosofia della natura. Producendo una cosmologia, Platone si avvicina così anche più di quanto abbia mai fatto a una teologia. E appunto questa teologia astrale, fondata sull’ordine divino e provvidenziale dei cieli, fornirà nelle Leggi il fondamento etico-politico della nuova forma di città giusta, basata ora più sul rispetto delle leggi che sulla filosofia, destinata a sostituire quella delineata nella Repubblica.